L’articolo che segue è apparso in una rivista accademica di qualche anno fa che si chiama Fictions. Studi sulla narratività, a conclusione di un bellissimo seminario di dottorato intitolato “Metropoli. Ordine e Caso” del dipartimento di Anglistica dell’Università La Sapienza di Roma a cura di Rosy Colombo e al quale presero parte molte delle persone con cui, per un periodo della mia vita, ho condiviso gioie e dolori dell’accademia, dei suoi scorni e della sua profonda lezione. Ricordo le discussioni, le riflessioni e le memorie di quelle aule e di quei pomeriggi in una città, Roma, che non ho mai saputo lasciare e di cui ora sento la mancanza nonostante continui a viverci come in una realtà parallela e irriconoscibile.
Di quegli anni, ho il ricordo di una me stessa irrequieta e pugnace, appassionata di letteratura ma soprattutto di quello sguardo che la letteratura riesce a infondere come al mistico certe visioni e intuizioni nel momento in cui crede di coglierne un significato cangiante e molteplice.
Certamente questo saggio mostrerà i suoi limiti, se si pensa che è stato pubblicato nel “lontano” 2007, quando molte cose di oggi erano appena all’abbozzo. Si tratta di un saggio di critica letteraria che resta come tale, con tutti i suoi limiti e mostra un versante soltanto, per quanto composito, di quell’attività in fieri che è la lettura profonda, quella che cerca di cogliere gli aspetti linguistici e di significato dell’opera.
C’è, però, un aspetto che sfugge alla critica del testo e che si situa al di là di esso, in una zona liminare che appartiene al qui e ora del racconto letto con il “senno di poi”, ossia in un momento storico-sociale diverso da quello in cui l’opera è stata prodotta. La zona liminare è perlopiù nella mente del lettore nel momento in cui apre il libro e fa confluire in esso non soltanto la stratificazione dell’epoca in cui è stato pensato ed elaborato, ma tutta la messe di significati nuovi o, meglio, rinnovati, che possono emergere dalle sue conoscenze e dal suo sentire. Il lettore è parte attiva del significato “mobile” del racconto e delle vicissitudini e può scoprire, attraverso lo sguardo critico, nuove connessioni o istanze.
E così, ecco che Nadja, oggi, come persona letteraria acquisisce per me uno statuto diverso, che pur partendo dal libro e dallo sguardo dell’uomo Breton, si fa soggetto in un destino avverso e ostile sul quale oggi dovremmo riflettere con gli strumenti presumibilmente più raffinati di quanto disponibile quasi un secolo fa. La moderna psichiatria, di cui si sta timidamente (ri)parlando in questi giorni di fine 2024 nel mainstream dei media, non riesce, se mai potrà farlo, a restituire la profonda tragedia della follia in un’epoca di caos e confusione sociale, di supposizioni e depistaggi, di elusione del discorso pubblico a vantaggio di fallacie continue e pervicaci che alimentano, così facendo, pensieri effimeri e concettualmente poveri. In poche parole, il Discorso si frantuma nella presenza di tanti (micro)discorsi irrilevanti e futili, dalla vita breve e linguisticamente limitati al qui e ora di pochi giorni, quando non di poche ore soltanto. Nel flusso mostruoso di informazioni discordanti, i discorsi a loro volta tendono a dissolversi e a diventare chiacchiere, luoghi comuni, etichette o slogan.
La follia, altresì chiamata malattia mentale (io preferisco il termine più generico e allo stesso tempo complesso di condition in inglese), è invece una tragedia soprattutto individuale la cui profondità non può essere ridotta a quattro commenti bislacchi, a un dibattito pubblico misero e a una scrollata di spalle come se il soggetto affetto da questa condizione fosse un altro da noi che non ha nulla a che fare con le nostre vite “normali”. Il bello di questa tragedia è nel fatto che essa ci riguarda tutti e a gradi diversi, e non solo come condizione medica. In fondo, una patologia cardiaca o vascolare, o neurologica può avere una sua sintomatologia che, per quanto difficile da diagnosticare, non richiede la contenzione o la sospensione del diritto giuridico di persona libera, come accade nel caso del paziente psichiatrico sotto tutela dell’istituzione psichiatrica. Un malato di cuore ricoverato in ospedale è costretto a restare in reparto solo a causa della sua malattia, non certo perché gli si proibisce di tornare a casa (nessuno malato di cuore viene legato al letto). Un paziente psichiatrico, invece, può trovarsi in quella zona grigia e molto cupa della sospensione del proprio diritto di individuo libero in nome di una limitazione del danno a se stesso e agli altri. Ancora una volta, si vuole tutelare la società, come se la società fosse un corpo sano e integro.
Sono consapevole che questo discorso è molto complesso e richiede competenze ben più approfondite di quelle che posseggo io e non voglio certo addentrarmi in un territorio che compete a chi di questa disciplina ha fatto il lavoro di una vita.
Quello che mi sta a cuore, tuttavia, è di riflettere sulla profonda relazione tra scrittura, immaginazione e follia per affermare, ancora una volta, che la letteratura può essere il territorio del sensibile in un modo che non può essere né contenuto, né completamente spiegato. La letteratura può essere un territorio dove si rivelano connessioni e relazioni inedite, in sostanza, possibilità. Un territorio che è una zona liminare che solo la mente umana con le sue fragilità può rivelare attraverso le sue molteplici manifestazioni e che resta ancora un territorio inesplorato. E quindi, la domanda che mi sono chiesta, nel pubblicare questo nuovo post (dall’origine un po’ vecchia) è: come leggere oggi Nadja? E come interpretarne il destino e la follia?