Nadja o del doppio sguardo

Libro enigmatico e a tratti sfuggente, risultato di una sovrapposizione di elementi narrativi, episodici e fotografici insieme, Nadja di André Breton non è definibile nei termini del romanzo e nemmeno in quello esclusivamente privato del diario. Inutile sarebbe anche tentarne la lettura come mero resoconto o affastellamento di figure e oggetti, giacché si rischierebbe di relegare il testo a un compendio di immagini, o a un’elencazione di episodi personali e conchiusi, evocativi di una Parigi suggestiva e fanée, che nelle sue varianti più triviali ritorna nel modernariato di certe canzoni da boulevard, nella voce languida e suadente dei suoi chansonniers.

Nadja è invece un libro resoconto, un libro opera, ma anche la possibilità del loro superamento, un romanzo in fieri che non è ancora tale, e che tuttavia, lasciando partecipare il lettore alle trame fortuite del caso e delle coincidenze che innumerevoli si rincorrono tra le pagine, può lasciar facilmente immaginare la possibilità di uno svolgimento che trova traccia nelle stesse supposizioni del suo autore, in un altrove che è anche spazio immaginario e immaginato al di là del testo stesso, che le parole svelano solo parzialmente. Definito come un’antifinzione[1], Nadja nasce come un testo documentario e resta tale, in cui l’ordine dell’osservazione si situa sempre in bilico tra oggettività medica, in particolare neuropsichiatrica, ed evocazione poetica e magica della realtà quotidiana. Lo spazio reale e mobile in cui quest’alchimia dello sguardo può cogliere segrete corrispondenze, spazio che costituisce lo sfondo degli eventi evocati e rievocati dal libro, è quello della città, lo spazio urbano costituito dalle strade, gli incroci, i bistrot, le piazze e gli snodi, i palazzi e i negozi con le loro vetrine, che vanno a formare una vera e propria mappa che è anche un ordine in cui il caso, o le coincidenze, si manifestano come eventi magici e apparentemente insondabili, promessa di eventi futuri e di svelamenti improvvisi. Il ruolo dello  sguardo soggettivo nella costruzione di quelle connessioni che Breton evocherà altrove con l’espressione di champs magnétiques, può essere in parte rintracciato in alcuni frammenti di quell’opera seminale, proprio per la sua capacità di cogliere i motivi profondi dell’epoca, che è il lavoro sui passages di Walter Benjamin. «Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. A ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada, di un lontano mucchio di foglie, del nome di una strada»[2]. L’atto del camminare per le strade affina lo sguardo e lo trasforma in un’attività dinamica di percezione del movimento e dei nessi che gli oggetti e le persone possono rivelare al soggetto flaneur, che diventa il fulcro di una pratica che necessita di un nuovo modo di cogliere la realtà della metropoli. “Per quanto mi riguarda”, scrive Breton nelle prime pagine di Nadja, “più importanti ancora che per lo spirito l’incontro di certe disposizioni di oggetti, mi appaiono le disposizioni di uno spirito nei confronti di certi oggetti, se è vero che queste due specie di disposizioni reggono da sole tutte le forme della sensibilità” (Nadja, p. 13). La disposizione di spirito del flaneur contiene una forza dinamica tesa a fare piazza pulita dell’ordine imposto da una narrazione onnisciente, per trasformarsi nel trionfo della soggettività dello sguardo nello spazio urbano della modernità, dei suoi nessi, ora evidenti ora occulti, che sono e restano esperienze frammentarie, spesso legate non da un principio unificante di tipo strutturale e logico, ma da un affastellamento di rapporti apparentemente casuali, guidati da una disposizione al mistero e all’analogia.

Un libro quindi che, conservando le tracce stesse di una scrittura soggettiva e unificante, nega al contempo il valore superiore – sia sul piano della composizione artistica sia su quello squisitamente estetico – della scrittura narrativa “canonica” e della composizione narrativa tradizionale, intesa nel senso che lo stesso Breton aveva criticato nel primo Manifesto del Surrealismo, quando, riferendosi alle descrizioni, ne aveva liquidato il carattere circostanziale, inutilmente particolare di ciascuna delle loro notazioni, attaccando uno degli esempi più celebri di questo stile, l’episodio in cui Raskol’nikov viene introdotto nella sua minuscola stanza all’inizio di Delitto e Castigo[3]. Opponendo al “nulla delle descrizioni”, inteso come puro e semplice sovrapporsi delle illustrazioni di un catalogo, la scrittura automatica del primo manifesto, Breton getta le basi di un’estetica che influenzerà tutti gli esperimenti successivi e troverà, in molti suoi contemporanei surrealisti, esiti talvolta di difficile leggibilità e di natura enigmatica, in cui l’aspra ironia contro il gusto corrente, i consigli per scrivere finti romanzi, o i segreti dell’arte magica surrealista costituiranno la parte più squisitamente provocatoria e giocosa, di quello spirito nuovo e paradossale che accomunerà tutte le avanguardie del primo novecento, consapevoli del tentativo, spesso soltanto velleitario, ma pur sempre dirompente ed eversivo, di sovvertire tutti quei principi regolatori e costrittivi della società e della morale borghesi. Un’esperienza, quella di Breton e dei suoi “compagni di strada e di battaglia” che cresce e matura nella modernità e che da essa trae l’impeto di rinnovamento che costituisce la grana di tutta l’avventura surrealista, dalle composizioni verbali a quelle pittoriche, dal collage al ready made, dall’uso delle tecniche moderne come la fotografia e il cinema, a un modo diverso e sperimentale di cogliere le analogie e le coincidenze dello spazio urbano e della metropoli, che in Parigi, capitale del diciannovesimo secolo ma anche capitale dell’immaginario collettivo di tutto un periodo letterario e proto-cinematografico, ha il suo punto di partenza e la sua forza propulsiva.

La città come sfondo, ma anche come luogo privilegiato dell’incontro con l’altro è ciò che costituisce l’humus stesso, il sostrato di mito moderno di Nadja,  libro-opera “toujours futur”, come afferma Blanchot[4]; un libro che obbliga il lettore a guardare alla città come a un luogo ricreabile nell’immaginazione, trama fittizia di avvenimenti reali che nell’incontro casuale possono rivelare la natura stessa della propria soggettività. Come afferma Gabellone, nella nota all’edizione italiana di Nadja, tutto il libro evolve come «progressivo e accidentale manifestarsi di possibilità di emergenza finché, nel suo nucleo centrale, lo spazio non sia definito come uno spazio di attesa»[5]. Il pellegrinaggio del soggetto narrante, sempre senza meta ma ossessivamente attratto da certi luoghi, allarmato dagli influssi che coglie in certe ricorrenze casuali che hanno per oggetto persone e cose, spinto dalla continua deambulazione verso un avvenimento ancora in fieri, non avvenuto, prepara «la scena urbana come situazione di carenza, lacuna e ferita nel corpo stesso della realtà, vuoto da riempire e senso ancora da produrre»[6]; un senso che costituisce il nucleo stesso dell’esperienza del soggetto moderno nella metropoli frettolosa e densa di eventi potenziali o mancati, di quei fatti frana e fatti precipizio (faits glissade e faits precipice) che possono innescare un concatenamento di altri eventi, aprire a nuove rivelazioni, offrire la chiave di decifrazione che accomuna l’esperienza della veglia nella flânerie, a quella del sogno e dell’incanto onirico nel sonno. Si potrebbe accomunare questo sguardo trasfigurato alla scienza occulta della congiuntura che il sapere del flâneur dimostra nell’osservazione del quotidiano; e portando un po’ oltre l’intuizione di Benjamin, si potrebbe dire che il flâneur, da lui definito «ispettore del capitalista inviato nel regno del consumatore» sia proprio il soggetto preposto a cogliere le magiche analogie, le corrispondenze e le congiunture occulte degli oggetti del quotidiano attraverso uno sguardo che fa dello straniamento quel perturbante moderno, unheimlich, che è anche una forza in grado di percepire le manifestazioni dei fatti e degli eventi, che ne scopre le vene sotterranee come la bacchetta di un rabdomante metropolitano.

La natura elusiva di questi fatti, degli eventi, o micro-eventi, che si producono nell’esperienza ripetuta di percorrenza di certi luoghi e strade concorre tuttavia a definirne la patina evocativa e rivelatrice che già in Baudelaire aveva avuto modo di condensarsi per andare a costituire quel nucleo originario di mito moderno che è l’incontro casuale e fugace del poeta con una donna incontrata per caso lungo la strada, dea potenziale di amori subito immaginati e dissolti nello spazio effimero del marciapiede su cui mille vite e mille potenziali incontri potranno dare avvio ad altrettante potenziali trame. In A une passante, infatti, il poeta riesce a cogliere quel vibrante e rapidissimo momento in cui tutto è possibile grazie allo sguardo, scambiato nell’arco di un lampo (éclair), con una passante per la via rumorosa della città.  

Il doppio sguardo sulla città

Sono questi gli elementi dell’immaginario letterario moderno su cui poggia in parte il tessuto di questo libro. La trama di Nadja attinge in fondo a una serie di luoghi “comuni” della città moderna, come l’incontro e le coincidenze dans la rue, che già avevano trovato spazio nella composizione narrativa del romanzo dell’ottocento, da Balzac a Flaubert, da Dickens a Dostoevskij. Ma con alcune sostanziali differenze.

Ciò che si integrava nella trama come evento e snodo, come concretizzazione delle possibilità inaugurate da un nuovo modo di concepire la città come sistema sociale ed economico nell’epoca della rivoluzione industriale e del positivismo che ne è sovrastruttura nel romanzo dell’ottocento, si trasforma in Breton in una sorta di ritorno al meraviglioso che assomiglia al tempo dell’avventura, regolato da quell’unica forza che per esempio Bachtin indica come caso, riferendosi al tempo infinito d’avventura che è composto di “simultaneità fortuite e asincronie fortuite” che caratterizzano la narrazione nel romanzo antico.[7] Ma mentre nel romanzo antico l’avventuroso “tempo del caso” è uno specifico tempo di interferenza di forze irrazionali nella vita umana, che Bachtin riconduce all’interferenza del destino, degli dèi, dei demoni, dei maghi nel cronotopo specifico del tipo antico del romanzo, in Breton questa dinamica temporale si rivela e si risolve tutta nell’esperienza soggettiva della modernità, senza che si possa tentare il recupero anche solo parziale di un pensiero magico caratteristico di altre età. Semmai, questo recupero si innerva su un ceppo primario che dalla modernità trae la sua linfa e la sua forza, e il pensiero magico cui Nadja fa pensare viene più evocato per analogia che per effettiva capacità funzionale. Lo stesso autore-narratore, confessando di tornare continuamente sui suoi passi, non esclude la possibilità che la propria ricerca sia essa stessa la ricerca di un fantasma e che quelle che egli considera manifestazioni oggettive della propria esistenza, non siano altro che la traccia, entro i limiti della vita presente, di un’attività il cui campo effettivo gli può restare completamente ignoto.

Ecco, dunque, che la mappa interiore e interiorizzata della città e dei suoi luoghi simbolo, diventa per analogia portatrice di eventi e manifestazioni fortuite, coincidenze e sincronie che seppure analizzate nei termini di un pensiero scientifico che già cominciava ad avvertire la crisi di alcuni suoi presupposti[8], somigliano molto a lampi, correnti magnetiche, squarci dello sguardo che non è più riconducibile a quello oggettivo ma diventa esperienza ai limiti della schizofrenia, presenza non ancora rivelata, limite estremo del rapporto tra causa ed effetto, laddove i due termini possono trovarsi in perfetta sincronia pur mancando del presupposto razionale che li spieghi. La rêverie dello sguardo durante l’esperienza della flânerie, l’attardarsi sui propri passi, lo sguardo irresoluto sui segni e gli oggetti, la capacità di ricevere quasi passivamente i lampi e le correnti delle circostanze dell’hinc et nunc, sono tutti “sintomi” che la scrittura di Breton riconduce a una differenza tra la propria esistenza e quella degli altri, tra il proprio sguardo e quello dell’altro. Solo quando incontrerà Nadja, l’autore-narratore sarà in grado di decifrare in parte i segni premonitori e le aperture che il caso ha operato sulla trama della realtà percepita dal soggetto; solo attraverso lo sguardo di Nadja, il narratore sarà in grado di stabilire una differenza che si trasformerà, nella conclusione della desolata vicenda della donna, in un allontanamento del narratore-osservatore che è anche una presa di distanza, per approdare in fin dei conti a un nuovo punto di partenza: quello della poesia e dell’arte.

In questo senso, l’incontro con Nadja è solo il punto di arrivo, e il punto massimo, di tutta una serie di eventi che nel libro ne avevano costituito, per così dire, il preludio. Immaginato come una partitura, Nadja potrebbe essere suddiviso, in tre tempi: i ricordi e gli episodi legati a Parigi e alle sue strade, l’incontro con la donna e le rivelazioni sulla città e i suoi nessi che il suo sguardo riesce a trasformare in una vera e propria esperienza surrealista, la deriva finale e la scomparsa di Nadja in manicomio, con la chiusa delle ultime pagine in cui Breton attacca violentemente le forme di reclusione della follia e i suoi luoghi deputati.

Nella prima parte, eventi quotidiani apparentemente semplici come il pellegrinaggio al mercato delle pulci di Saint-Ouen, o la serata al Theatre des deux Masques e la visione occasionale di un film, L’entreinte de la pieuvre,  vengono riportati senza soluzione di continuità se non quella dell’analogia e del carattere contiguo con un fatto precedente o un evento supposto e potenziale per mostrare il gioco dell’analogia e del caso rivelatore; è così per la scoperta che l’uomo che una sera avvicina Breton alla prima del Couleurs du temps di Apollinaire, è Paul Eluard, con cui Breton era in corrispondenza senza sapere che aspetto avesse, o per la potenza allucinatoria delle parole bois-charbons che tornano trasfigurate negli angoli e nelle statue di certe strade, rendendo il narratore capace di intuirne la presenza prima che appaiano al suo sguardo, o per la coincidenza di una donna in lutto alla ricerca dell’ultimo numero di Littérature che raccomanda a Breton di prendersi cura di una persona che si rivelerà Benjamin Perét. Persone ed eventi, dunque, che rivelano il gioco tra caso e coincidenza fin dalla loro prima manifestazione, fin dall’apparire, nell’a posteriori del testo rispetto all’esperienza vissuta e quindi antecedente alla sua stesura, come fantasmi di un altrove che solo il testo, nel suo ordine, può rievocare. Del resto, fin dall’inizio di Nadja, lo stesso Breton si pone come soggetto dubitativo, alla ricerca di se stesso:

Qui suis-je? Si par exception je m’en rapportais à un adage: en effet pourquoi tout ne reviendrait-il pas à savoir qui je “hante”? Je dois avouer que ce dernier mot m’égare, tendant à établir entre certains êtres e moi des rapport plus singuliers, moins évitables, plus troublant que je ne pensais. Il dit beaucoup plus qu’il ne veut dire, il me fair jouer de mon vivant le rôle d’un fantôme, évidemment il fait allusion à ce qu’il a fallu que je cessasse d’être, pour être qui je suis. Pris d’une manière à peine abusive dans cette acception, il me donne à entendre que ce que je tiens pour le manifestations objectives de mon existence, manifestations plus ou moins délibérées, n’est que ce qui passe, dans les limites de cette vie, d’une activité don le champ véritable m’est tout à fait inconnu.[9]

Questo procedimento del pensiero lascia supporre nella scrittura di Breton la ricerca di un altrove che nel testo si fa traccia stessa di una presenza, talvolta fantasmatica, talvolta tangibile. L’incontro e le scoperte fortuite sull’identità dei personaggi incontrati dall’autore, le coincidenze tra i diversi testi che vengono elencati nel libro, rimandano continuamente, come forze centripete, all’esperienza soggettiva, all’idea che il soggetto, latore di una rivelazione che ha molto in comune con la veggenza, riesce a cogliere solo parzialmente. Sarà infatti attraverso lo sguardo doppio di Nadja, doppio perché al confine tra follia e non follia, che Breton sarà in grado di decifrare la “foresta di simboli” che è la città e potrà giungere a quella riflessione che alla fine del libro renderà l’autore più consapevole delle forze telluriche e della presenza del “magico”, ma sempre intrinsecamente pertinente alla realtà così come si presenta nell’immediato atto di scrivere.

Nei Manifesti questa immediatezza si lasciava cogliere nel procedimento della scrittura automatica: «Ponetevi nello stato più passivo e ricettivo che potrete. […] Scrivete rapidamente, senza un soggetto prestabilito, tanto in fretta da non trattenervi, da non avere la tentazione di rileggere. La prima frase verrà da sola»[10] In Nadja, lo sperimentalismo verbale che è in grado di produrre nessi spontanei attraverso la traduzione di un automatismo psichico lascia il posto a un ordine guidato da quello che Gabellone chiama il demone dell’analogia riprendendo un’espressione di Breton e che comporta un esercizio dello sguardo in grado di cogliere le correnti che scorrono sotterranee e talvolta invece ben evidenti tra gli eventi e le coincidenze del caso, che sono capaci di disvelare, attraverso il processo che domina tutte le sue pagine, una presenza elusiva ma reale.

Mancando degli elementi strutturali del romanzo tradizionale, a partire dalle descrizioni e dagli snodi narrativi che orientano la trama e fanno procedere il racconto lungo le linee direttrici degli eventi che possiamo ricondurre alla fabula, Nadja non si pone tuttavia come anti romanzo, ma inaugura un diverso modo di organizzare la scrittura intorno all’elemento unificante del soggetto nello spazio urbano, trasformando l’avventura dell’io nella città in una ricognizione di tutte le possibilità di divinazione e mistica del quotidiano che possono trarsi da quell’esperienza squisitamente moderna della flânerie  che comporta un modo nuovo di scrivere per cogliere questi nessi. Ecco, quindi, che la scelta del tempo “narrativo” è una scelta che privilegia il tempo presente, quello del racconto immediato e della presa diretta, che opera all’interno di una sintassi dell’immediato che si tradurrà nell’uso della macchina da presa nel cinema sperimentale delle avanguardie e che in Buñuel avrà esiti geniali.  

La città di Parigi, con i suoi luoghi simbolo e i suoi passages è lo sfondo su cui si stagliano, come in un tableau vivant, i personaggi e gli eventi della vita quotidiana; essa è già un’entità trasformata, nell’ormai maturo percorso storico e sociale della rivoluzione industriale, nell’universo stratificato e autorganizzantesi del sistema metropolitano, definito, da Thomas Schelling, come macrocomportamento generato dalle micromotivazioni di migliaia di attori inconsapevoli[11] in grado di mostrare, attraverso gli innumerevoli elementi che ne compongono la vita pulsante e misteriosamente autonoma, i rapporti sociali e l’inevitabile solitudine. In Nadja la trasformazione in atto dello spazio metropolitano produce una funzione narrativa del caso più sconnessa, e la catena degli avvenimenti si sgancia dalla logica tradizionale per elevare il caso al livello di rapimento mistico[12] (Johnson, p. …). Ma come tale, questo modo di restituire il reale sulla pagina sconta il rischio di produrre elusività. Il narratore osservatore deve porsi nella disposizione d’animo secondo la quale l’évenément e l’éventuel, il caso da interpretare di volta in volta come arbitrio della realtà percepita dal soggetto o come segno premonitore di eventi a venire, possono anche sfuggire, dileguarsi nel ricordo o sovrapporsi ad esso:

Non sarò io a meditare su ciò che accade della “forma di una città”, anche se si tratti della vera città distratta e astratta da quella che io abito in forza di un elemento che sarebbe rispetto al mio pensiero ciò che l’aria sembra essere rispetto alla vita. Senza nessun rimpianto, in questo momento la vedo farsi diversa e persino fuggire.[13].

Anche scrivere di Nadja, o su Nadja, diventa, come talvolta accade con le avventure di close reading, una sorta di ingresso, a tratti timido e a tratti audace, che porta a quel labirinto affascinante che consiste nel ripercorrere il mondo segreto ed ermetico delle scoperte e degli svelamenti dell’autore Breton, soggetto unificante della narrazione-osservazione, alla ricerca di se stesso attraverso lo sguardo dell’altro.

La città e il testo

Il percorso di lettura di Nadja deve quindi partire dall’analisi del rapporto tra città e testo, alla luce dell’esperienza primariamente intellettuale rappresentata dalla decifrazione nello spazio urbano della dimensione reale e immaginaria del proprio io – un io su cui si fonda la ricerca del soggetto narrante che percorre tutto il libro. “Qui suis-je?”, la domanda fondamentale, “anticartesiana”, secondo la definizione di Giovanna Angeli, in realtà percorre tutto il libro scritto dall’autore Breton e illumina anche sul rapporto che si crea tra questo ipotetico io in divenire e il personaggio centrale di Nadja, la donna che il soggetto errante, flaneur ostinato alla ricerca di oggetti tangibili ma anche di fantasmi dell’esperienza, incontra in un pomeriggio d’ottobre:

à la fin d’un de ces après-midi tout à fait désœuvrés et très mornes, comme j’ai le secret d’en passer, je me trouvai rue Lafayette. […] Les bureaux, les ateliers commençaient à se vider, du haut en bas des maisons des portes se fermaient, des gens sur le trottoir se serraient la main, il commençait tout de même à y avoir plus de monde. J’observais sans le vouloir des visages, des accoutrements, des allures.[14]

Se nell’immaginario surrealista, l’ordine della città e l’ordine del testo sono in continua corrispondenza e comunicazione, in Breton l’indagine di questo rapporto diventa un nodo cruciale che trasforma Nadja in un’opera seminale sull’esperienza che la modernità trasmette della città e dei suoi spazi in evoluzione; esso è un libro-romanzo in grado di illuminare sulla possibilità infinita che la città offre al soggetto di (ri)trovare se stesso, di indagare sulla propria identità e sul senso del suo stare al mondo, attraverso la casualità dell’incontro con l’altro – una casualità nella quale l’io del narratore-osservatore sembra rintracciare, tuttavia, una escatologia, all’interno della quale il desiderio sembra il fulcro e il punto di partenza di ogni istanza creativa.

Il testo diviene, nell’esperienza della scrittura bretoniana, solo uno dei luoghi possibili di affioramento e manifestazione del meraviglioso. Che si tratti dell’erotismo o dell’amour passion, della città-testo, del caso, del sogno o dell’humour, l’articolazione fondamentale è sempre nel rapporto con l’alterità o un suo segno, con un oggetto (in senso stretto) o con un qualsiasi oggetto-di-desiderio: ossia con tutto ciò che consente una mediazione tra il soggetto della quête e il meraviglioso.[15]

In Nadja, il rapporto con l’altro passa soprattutto per l’incontro tra il soggetto narrante, alla ricerca di se stesso nello spazio urbano, e la donna veggente e unica che è Nadja.

Tout à coup, alors qu’elle peut-etre encore à dix pas de moi, venant en sens inverse, je vois une jeune femme, très pauvrement vêtue, qui, elle aussi, me voi o m’a vu. Ella va la tête haute, contrairement à tous les autres passants. SI frêle qu’elle se pose à peine en marchant. Un sourire imperceptible erre peut-être sur son visage. […] Je n’avais jamais vu de tels yeaux. Sans hésitation j’adresse la parole à l’inconnue. […] Elle sourit.[16]

Il rapporto con la donna è così cruciale che lo stesso Breton non nega il fatto che il libro non potrebbe essere stato scritto senza la sua presenza e le sue rivelazioni. In questo senso,  l’incontro con un soggetto femminile è un tema tanto centrale a tutta la tradizione letteraria e poetica dell’Occidente, e non solo, da apparire quasi scontato e banale, se non fosse che esso si trasforma in un rapporto determinato dalla casualità che solo lo spazio urbano della modernità può consentire, uno spazio urbano che assume un nome e un’identità urbana ben precisa – Parigi. L’incontro per la strada, lo scambio di sguardi, la solitudine tra la folla, l’illuminazione di un volto di passaggio che vede ed è visto si connota non solo come potenziale incontro amoroso ed erotico ma, nella forma letteraria e poetica che esso assume, trasforma la stessa Parigi nella città surrealista e nei simboli che la stessa definizione contiene e rivela. La città non è più un nome e uno spazio riconoscibili in una topografia reale ma, attraverso una scrittura che coglie la dimensione del caso e del desiderio, si fa topografia di un percorso soggettivo e metropolitano al tempo stesso, reale e immaginario, ma che nell’immaginario e nelle forme che esso assume nel desiderio codificato dalla tradizione letteraria (Baudelaire in primis) trova la sua corrispondenza più diretta. È sempre Benjamin a catalogare tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti tipici del flâneur, che nel personaggio di Nadja trovano diretta corrispondenza, dall’ozio all’irresolutezza, dalla reverie tipica di quest’attività alla riflessione interiore, ma fra tutti, quella che può adattarsi maggiormente al personaggio evocato da Breton è certamente la compenetrazione tra strada e abitazione, dove le prime sono dimora della collettività e del suo perenne movimento che il soggetto che guarda coglie nell’osservazione. La dinamica tra spazio privato (la stanza) e spazio collettivo (la strada) è ciò che caratterizza maggiormente l’esperienza che Nadja comunica del suo vivere la città ma che tuttavia si nutre di reticenze e omissioni, come quando evita di dire fino in fondo dove abita per assumere invece, fino in fondo, la presenza di spirito nomade.

L’incontro con Nadja, essere misterioso e “femme sublime” nella sua follia apparente (e purtroppo reale), avviene all’interno dello spazio urbano, in quella città di Parigi che in Breton è non solo teatro ma anche spazio autonomo, oggetto in sé di una quête specifica, nella quale l’atto di camminare è ricognizione di quello stesso spazio, “cioè interrogazione sul significato mitico della città”[17]. Già in Pont Neuf, Breton aveva rilevato un aspetto centrale della fruizione dello spazio urbano da parte del soggetto errante: la predilezione o la ripulsa nei confronti di alcune strade o angoli della città, quella predilezione che ci fa percorrere con maggior piacere o anche inconsapevolmente alcune strade piuttosto che altre e che Breton spiega molto chiaramente:

Per ogni individuo ci sarebbe da redigere una carta, probabilmente molto significativa, sulla quale i luoghi che frequenta sarebbero in bianco e quelli che evita in nero, mentre al resto sarebbe riservata la gamma dei grigi, ripartita in funzione della più o meno attrazione o repulsione.[18]

La città si suddivide quindi in luoghi d’attrazione contro luoghi di repulsione e si tratta di un’articolazione che precede l’avvenimento in quanto tale, cioè l’emergenza di coincidenze favorevoli o sfavorevoli, a seconda che siano iscritte in luoghi attraenti o repulsivi. Il rapporto tra il flaneur e la scena urbana è una delle condizioni basilari per il prodursi dell’evento. Per quanto casuale, tuttavia, l’incontro è sottoposto a regole che sono quelle determinate, o più semplicemente provocate, dal fatto che il flâneur vive i luoghi seguendo le correnti emotive che lo portano a frequentare o a evitare una determinata strada o un determinato crocevia di punti (caffè, librerie, negozi segnati magari da un’insegna particolare, da una scritta equivocante e rivelatrice). Così Benjamin:

La tipica irresolutezza del flâneur. Come l’attesa sembra lo stato proprio del contemplatore impassibile, così il dubbio sembra quello del flâneur. […] Ciò indica quella stessa interdipendenza di slancio e sentimento di dubbio che è così caratteristica dell’ebbrezza dell’hashish.[19]

Il desiderio che spinge il flâneur, e Breton in particolare, a recarsi in quei luoghi è anche la spinta, – a tratti inconscia, a tratti puramente emotiva e spontanea – a tracciare una mappa di sé all’interno di uno spazio che è riconoscibile ma anche “estraneo”, capace di rivelarsi straniato e diverso agli stessi occhi di chi lo vive. In questa rete di connessioni e di rivelazioni inattese, la città diventa soprattutto uno spazio mentale e onirico, in cui l’attesa diventa momento privilegiato di preparazione della rivelazione.  Nell’Amour Fou, posteriore a Nadja, Breton scrive, «Vorrei che la mia vita non lasciasse dietro di sé altro mormorio che quello della canzone di uno che sta di vedetta, d’una canzone per ingannare l’attesa. Indipendentemente da ciò che succede o non succede, è l’attesa che è magnifica».[20] L’attesa ha una duplice importanza: da una parte essa è un momento privilegiato dell’osservazione, dall’altro costituisce – su un piano meramente politico – la rottura del tempo quotidiano suddiviso secondo uno schema subordinato al lavoro: “l’attesa è l’eterno presente, un momento “sospeso” nella dimensione a-temporale del fantasma, e in qualche modo dominato secondo una maîtrise anch’essa mitica, quella di chi ha tempo, e quindi può astrarsi da tutti gli obblighi puntuali, da tutte le contingenze legate alla divisione sociale del tempo: lavoro-prigione, rapporti misurabili e fissi, concezione parsimoniosa della temporalità”.[21] Sempre Benjamin afferma che l’ozio del flâneur è una dimostrazione contro la divisione del lavoro, che invece caratterizza l’attività frenetica di certe ore e delimita i tempi del quotidiano nella metropoli, sede effettiva dei luoghi di produzione e di consumo.

La mappa tracciata dal mito moderno della città è una mappa che non attinge soltanto alla storia e agli avvenimenti che hanno segnato lo spazio urbano e i suoi luoghi preferiti dal flâneur, ma attinge soprattutto alla dimensione onirica della città che si costituisce in immagini e riferimenti, in associazioni che attraverso la descrizione e la fotografia lasciano trapelare questa potenzialità, questo potere quasi magico e immaginifico delle cose e degli oggetti. In questa visione, la Senna assume così le movenze di una sirena voluttuosa, sempre offerta e sfuggente, così come alcuni luoghi da cui lo scrittore è attratto vengono erotizzati attraverso la scrittura, come Place Dauphine in Nadja, la cui forza di seduzione viene descritta da Breton in modo estremamente sessualizzato:

Cette Place Dauphine est bien un des lieux les plus profondément retirés que je connaisse, un des pires terrains vagues qui soient à Paris. Chaque fois que je m’y suis trouvé, j’ai senti m’abandonner peu à peu l’envie d’aller ailleurs, il m’a fallu argumenter avec moi meme pour me dégager d’une étreinte très douce, trop agréablement insistante e, à tout prendre, brisante.[22]

In seguito, Breton chiarirà questa sensazione di languidezza per Place Dauphine definendola il “sesso di Parigi”. Attraverso questa erotizzazione dei luoghi urbani, si compie la mappa mentale e onirica che attraverso la scrittura costituisce il nesso più evidente del rapporto tra città e flâneur nei testi surrealisti.

È all’interno di questa mitizzazione, a tratti erotica e onirica, che il personaggio di Nadja emerge come un fantasma che si fa carne, voce e presenza non solo nello spazio della pagina del libro omonimo, ma nello stesso spazio urbano. Il rapporto che si viene a creare tra il protagonista flaneur e la donna, disvelatrice di connessioni all’interno dello spazio urbano, è all’inizio prolifico e rivela tutto i potenziale dei segni che la città reca: Nadja non è soltanto un incontro casuale ed estemporaneo, ella è presenza rivelatrice, che attraverso la sua follia offre allo scrittore la possibilità di rintracciare, attingendo alla sua mappa psichica formata da associazioni e immagini ai limiti della deriva schizofrenica, un’altra mappa nascosta e occultata che solo lo sguardo della follia può cogliere e rivelare in tutta la sua potenzialità poetica e mitica. La Parigi mitica di Baudelaire e di Gerard de Nerval, diventa la Parigi segreta degli itinerari quotidiani, il luogo dell’erranza e della possibilità suprema di scoprire l’insolito in tutte le sue forme, manifesti pubblicitari, statue commemorative, stazioni della metropolitana, finestre chiuse sul mistero, enigmi che Nadja scopre con l’occhio dell’iniziata e che Breton scopre come figurazioni tangibili dei suoi fantasmi personali. La domanda che il narratore pone a Nadja traccia un importante parallelo con la domanda di apertura del libro, “Qui suis-je?”:

Sur le point de m’en aller, je veux lui poser une question qui résume toutes les autres, une question qu’il n’y a que moi pour poser, sans doute, mais qui, au moins une fois, a trouvé une réponse à sa hauteur: “Qui êtes-vous?” Et elle, sans hésiter: “Je suis l’âme errante.”[23]

La realtà mostra il suo doppio, attraverso lo sguardo schizoide di Nadja, alchimista dell’osservazione e dell’intuizione ma anche psiche derangée, dove abita quella follia che è il prezzo più alto chiesto a un individuo quando possiede la veggenza e il potere di svelamento della realtà oggettiva e apparente. Questa scoperta della doppia realtà è il punto cruciale del modo di procedere surrealista, secondo il quale l’investimento da parte dell’immaginario di un luogo reale in cui la diversità degli spettacoli offerti al passeggiatore sconcerta la sua ragione e lo tuffa nella marea del caso e dell’eventualità. Investimento che è confermato dal modo di procedere, di vivere e di guardare alla realtà di Nadja, spirito errante, creatura nomade e testimonianza vivente della ricerca surrealista che nella follia trova la sua dimensione più propizia. Nadja non è soltanto anima errante, ma diviene la prova vivente del teorema bretoniano “follia = non follia”, l’assenza “ben nota di una qualsiasi frontiera tra follia e non follia[24]. La presa di distanza da Freud è leggibile in Breton proprio in questi termini: la follia, lungi dal costituire un deficit, sarebbe un supplemento positivo, un serbatoio di salute morale[25], come Breton aveva potuto sperimentare durante la sua esperienza di medico durante la prima guerra mondiale, presso il centro neuropsichiatrico di Saint-Dizier. La follia, dunque, contiene un sé la chiave della poesia.

Ecco che allora il testo non può più offrirsi soltanto come resoconto verbale, e qui è forse la contraddizione più affascinante del libro, fatto e plasmato nella scrittura dei segni verbali e delle strutture del linguaggio letterario esclusivamente verbale che, per quanto poetico, si rivela limitato rispetto all’infinita potenzialità dei segni offerti dalla realtà che non può più, a sua volta, essere contenuta soltanto nelle pagine stampate del libro.

Così come Marcel Duchamp andrà oltre il limite della tela pittorica, decontestualizzando gli oggetti di uso quotidiano in oggetti di arte, dal significato autonomo e dissacratorio (i celebri ready made), Breton costruisce un libro che non è un diario e non è un romanzo, un libro che si propone di fare piazza pulita della descrizione e dell’impianto romanzesco della modernità per restituire al personaggio tutta la sua autenticità, evitando di collocare Nadja all’interno di quella categoria inautentica (nella concezione di Breton e dei surrealisti) che va sotto il nome di romanzo (roman) per affidarla invece all’immediatezza del reale, mostrando un intento analogo a quello di un pittore, peraltro descritto proprio nel libro, che cerca di riprodurre e di carpire gli ultimi bagliori di un tramonto sulla tela, mescolando i colori, cambiando e aggiungendo sfumature in continuazione fino a quando, vinto dal tempo, deve arrendersi di fronte al sole che scompare lasciando il buio. Ecco, allora, che il tempo del racconto (récit) diventa tempo presente, tentativo assoluto di cogliere i nessi del presente attraverso il momento differito della stesura dell’opera.

Nadja non è occupato solo dalla scrittura, ma è soprattutto costruito come una continua sovrapposizione di immagini e parole laddove le immagini non sostituiscono la scrittura, bensì la completano e vi si sovrappongono come immagini mnemoniche e quasi oniriche, mentre la scrittura diviene il luogo privilegiato per la costruzione di uno spazio che contenga tutte le connessioni mitiche e oniriche di quello spazio più grande e autonomo che va sotto il nome di città e che può essere restituito soltanto nella maniera in cui è costruito, evocato e presentato in Nadja. Grazie alle connessioni della donna veggente, grazie alla sua follia, il linguaggio del narratore-osservatore può tradursi in una esperienza poetica al limite del linguaggio della follia, ma senza mai trascendere come tale.[26]

Il racconto meticoloso degli incontri tra il narratore e Nadja si frappone alle immagini di Parigi, che non sono soltanto le immagini della celebre città europea: esse diventano le immagini della Parigi di Breton scoperta attraverso gli occhi e lo sguardo di Nadja, capace di rivelare misteriose coincidenze – testimoniate anche dalla presenza dei suoi disegni riprodotti nel libro. In alcuni momenti, le percezioni di Nadja sembrano acuirsi a tal punto da sentire le urla di Maria Antonietta sotto i sotterranei del Palais de Justice e “Tous le morts, tous les morts!”, di scorgere presenze oscure dietro le imposte di un palazzo che si intravede dal tavolo di un caffè dove la coppia, Nadja e André, in un pomeriggio fosco si trova seduta in preda all’inquietudine[27]. Le immagini fotografiche che costellano il libro e costituiscono la mappa personale e poetica del narratore e di Nadja non sono più semplici fotografie della città: la Librairie de L’Humanité, la brasserie à la Nouvelle France, il caffè della Place Dauphine, le fontane delle Tuileries, sono tutte immagini in cui la storia dei due potenziali amanti – una storia che il narratore assorbe come un processo enigmatico e meraviglioso del caso – cerca di essere fissata, con un intento quasi documentario, testimonianza di una ricerca dell’attualità nel momento presente e assoluto, contingente e sospeso al tempo stesso dell’incontro e del “campo magnetico” offerto dalla comunicazione con l’anima errante, femminile, veggente di Nadja, vera flâneuse della città.

La città e la donna

Ci si potrebbe spingere ad affermare che la città, sotto lo sguardo propulsivo di Nadja, subisce un processo di “femminilizzazione” nel senso di uno spostamento, attraverso la ricerca di compenetrare lo sguardo dell’altro e farlo proprio, dell’asse di osservazione. Ma questa sorta di dicotomia dello sguardo è destinata a raddoppiarsi nella contrapposizione tra realtà dell’osservazione che trae spunto dal resoconto oggettivo, tipico della medicina da cui parte Breton, e realtà poetica – una contrapposizione che è al cuore stesso della “narrazione” immanente di Nadja.

Nel libro la donna è sottoposta a una doppia funzione, in quanto persona e in quanto personaggio. Come persona, Nadja, alias Léona-Camille-Ghislaine D. è colei che apre al narratore, André Breton, la possibilità di gettare un altro sguardo sulla realtà e di illuminare lo spazio urbano di correnti magnetiche e connessione altrimenti difficili da rintracciare. Come personaggio, Nadja è il simbolo poetico di una sconfitta non solo del soggetto “folle” ma anche della realtà feroce e oggettiva che trionfa sulla follia rinchiudendo la persona di Nadja in un manicomio, luogo deputato di contenimento di tutto ciò che va sotto il nome di malattia.

Il luogo-prigione, (primo fra i tanti luoghi di contenimento e di detenzione che qualche decennio dopo saranno, con Foucault, oggetto di indagine meticolosa), dove la donna finisce alla fine del libro, destino tragico a cui il narratore non è capace di trovare soluzione o via di uscita, nega la possibilità di leggere la realtà con gli occhi della follia, una follia che solo il testo-mappa offerto dal libro di Breton può trasformare in poesia e in campo magnetico dominato dall’analogia, un’analogia che può essere tradotta in linguaggio verbale. Nadja è consapevole di questo potere, tanto da reincarnarsi, prima che il suo personaggio si dissolva nel testo proprio come un fantasma, in una presenza mitica. Rintracciando nei suoi disegni il tentativo di raggiungere una presenza incarnata, che le restituisca quella realtà che la deriva schizofrenica sembra sul punto di toglierle in ogni momento, l’immagine di Melusina è forse quella che per analogia riesce meglio a definirla ai propri occhi e agli occhi dell’altro. Disperatamente alla ricerca di tracciare una corrispondenza con il suo mentore e ascoltatore, «Elle compose un moment avec beucoup d’art, jusqu’à en donner l’illusion très singulière, le personage de Mélusine.»[28] scegliendo proprio una delle figure più perturbanti e misteriose dell’immaginario mitico del femminile. Associata all’opera di Paracelso, Melusina è la moglie di Raimondino, figlio dei re dei Brettoni; dotata di poteri soprannaturali, dona coraggio a suo marito ma sorpresa da lui mentre si trasforma in sirena, scompare nelle acque per tornare soltanto di quando in quando come presagio di sciagure. È questo connotato mitico che forse riesce a gettare ulteriore luce sul potere di Nadja che in fondo, come la sirena della fiaba, altra variante di una privazione e di uno scambio impari col mondo “reale”, è costretta a perdere (metaforicamente) la voce quando scompare dal libro di Breton per trasformarsi in fantasma, presenza disincarnata e reincarnata come parola evocatrice.

La sua figura è in fin dei conti al centro di una contraddizione insanabile, che induce a definire l’opera di Breton come il fantasma erotico e onirico di un soggetto incapace di scindere vita e letteratura e che trasforma la donna, l’esclusa, errabonda figura femminile, vittima forse di un’esclusione sociale tragicamente inevitabile quale realmente è, in un simbolo poetico che rivela il meraviglioso e che dona allo scrittore la possibilità di comprendere fino in fondo la propria identità nello spazio urbano che solo può consentire queste rivelazioni e questi incontri. Ma a quale prezzo: la follia conclamata di Nadja viene presentata da Breton come un fatto inevitabile e la sua reclusione nel manicomio di Vaucluse non è che la conclusione tragica di un destino che era stato annunciato nelle pagine precedenti.

Il nome della donna può essere altrettanto rivelatore per comprendere la sua funzione: «Nadja, parce qu’en russe c’est le commencement du mot espérance, et parce que ce n’en est que le commencement»: l’inizio di un nuovo modo di guardare alla realtà e alla città che, partendo dall’esperienza della modernità si tradurrà nell’utilizzo delle immagini e della possibilità di svelamento dello sguardo che nel cinema surrealista (Antologia dell’humour nero) si declinerà nelle diverse rappresentazioni del fantasma erotico e del doppio in un classico del cinema surrealista come L’Age d’or di Buñuel. 

Ma Nadja è anche la storia di una sconfitta e di una tragedia umana e mostra il limite forse più evidente della ricerca surrealista. Se il testo Nadja può essere letto come una mappa (di un amore mancato, della città e dei suoi segni occulti) e delle infinite possibilità che solo la follia può cogliere e rivelare, il personaggio di Nadja è l’emblema dell’impossibilità di far convivere la follia/poesia nello spazio ordinato e convenzionale della realtà tangibile e presente, la realtà quotidiana e prestabilita delle strutture produttive e del tempo-lavoro, quella stessa realtà che nasconde il suo doppio eversivo e magnetico sotto la cappa del controllo sociale e dell’asservimento al lavoro che lo sguardo di Nadja sa cogliere così bene nel compartimento della metropolitana, nell’orario di ritorno delle persone che hanno finito di lavorare e tornano a casa. La fantasmagoria del flâneur: leggere dai volti il mestiere, l’origine e il carattere, dirà Benjamin. E Nadja:

Ce que Nadja fait à Paris, mais elle se le demande. Oui, le soir, vers sept heures, elle aime à se trouver dans un compartiment de seconde due métro. La plupart des voyageurs son des gens qui ont fini leur travail. Elle s’assied parmi eux, elle cherche à surprendre sur leurs visages ce qui peut bien faire l’objet de leur préoccupation. Ils pensent forcément à ce qu’ils viennent de laisser jusqu’à demain, seulement jusqu’à demain, et aussi à ce qui les attend ce soir, qui les déride o les rend encore plus soucieux.[29]

Le parole della donna, moderna anima divinatoria, devono essere ricontestualizzate, in chiave politica, dal narratore Breton, che più oltre nel testo affermerà a proposito del lavoro:

Je hais, moi, de toutes mes forces, cet asserviment qu’on veut me faire valoir. Je plains l’homme d’y être condamné, de ne pouvoir s’y soustraire, mais ce n’est pas la duvet de sa peine qui me dispose en sa faveur, c’est et ce ne saurait être que la vigueur de sa protestation. Je sais qu’à un four d’usine, ou devant une de ces machines inexorables qui imposent tout le jour, à quelques secondes d’intervalle, la répétition du meme geste, ou partout ailleurs sous les orders les moins acceptable, ou en cellule, ou devant un peloton d’exécution, on peut encore se sentir libre mais ce n’est pas le martyre qu’on subit qui crée cette liberté”[30]

Ma è solo lo sguardo di Nadja, nei confini del testo-mappa surrealista a testimoniare la vera essenza della flanerie nella modernità, quel processo evanescente e onirico che le restituisce uno statuto di traccia che il poeta osservatore può consegnare alla pagina. «Je n’en serais pour vous qu’une trace…».

Alla fine il suo resta lo sguardo della follia che viene esclusa, rinchiusa dal sistema sociale. Nadja, anima nomade, resta sospesa nelle pagine dello scrittore che ne ha colto la forza, fallendo nell’intento di offrire una salvezza o una via di uscita al suo personaggio errante al di fuori della finzione letteraria.

Bibliografia:

André Breton, Nadja, Paris, Gallimard, 1964; traduzione italiana di Giordano Falzoni, Torino, Einaudi, 1972.

André Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1967.

André Breton, Amour Fou, Paris, Gallimard, 1937.

Giovanna Angeli, Nadja di André Breton, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2003, volume IV, pp. 819-826.

Steven Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, Torino, Einaudi, 2001, vol. I, pp. 727-745.

Lino Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton, Torino, Einaudi, 1977.

Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 2002.

Claude Mauriac, André Breton. Essai. Paris, Grasset, 1970.

Charles Russell, Da Rimbaud ai postmoderni, Torino, Einaudi, 1985, in particolare le pp. 148-199.


[1] Lino Gabellone, Nota a Nadja in André Breton, Nadja, Torino, Einaudi, 1972, p. 145.

[2] Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Torino, Einaudi, 2002, p. 466.

[3] Manifesto del Surrealismo (1924), in André Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, Einaudi, 1987, pp. 14-15.

[4] Citato in Gabellone, Nota a Nadja, cit., p. 145.

[5] Idem, p. 152.

[6] Ibidem.

[7] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1997, p. 241.

[8] Dopo l’entusiasmo del positivismo, il ruolo della scienza era stato fortemente messo in dubbio da diverse direzioni: da una parte, la critica nietzschiana al pensiero scientifico, dall’altra, il ripensamento critico di stampo marxista a cui Breton stesso si rifaceva, a partire dai Manifesti.

[9] André Breton, Nadja, Paris, Gallimard, 1964, p. 9.

[10] Manifesti del Surrealismo, cit. p. 34.

[11] Citato in Steven Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, in La cultura del romanzo, a cura di Franco Moretti, Torino, Einaudi, 2001, vol. I, p. 728.

[12] In Johnson, cit., p. 744.

[13] Nadja, cit., p. 136.

[14] Ivi, p. 71.

[15] Lino Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton. Torino, Einaudi, 1977, p. 18.

[16] Nadja, cit., pp. 72-73.

[17] Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton, Torino, Einaudi, 1977, p. 60.

[18] André Breton, Pont Neuf, in La clé des champs, Parigi, 1967.

[19] Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, cit., p. 476

[20] L’amour fou, Gallimard, Paris, 1966, p. 33.

[21] Lino Gabellone, L’oggetto surrealista. cit. p. 62.

[22] Nadja, cit., p. 93.

[23] Ivi, p. 82.

[24] Citato in Giovanna Angeli, Nadja di André Breton, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2003, volume IV, p. 824.

[25] Cfr. Angeli, cit. p. 824.

[26] È proprio in quegli anni, e precisamente nel 1927, che viene pubblicato La schizofrenia di Eugène Minkowski, testo seminale sulla schizofrenia e sulla gamma dei suoi sintomi e delle sue manifestazioni nell’individuo; il libro getta le basi di un approccio fenomenologico nuovo che tenta di scardinare l’idea della malattia pura e semplice per stabilire un rapporto più umano con l’individuo affetto da questa sindrome.

[27] Nadja, cit., p. 96.

[28] Nadja, cit. p. 125.

[29] Ivi, p. 78.

[30] Ivi, p. 78-79.


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