Pubblicato in italiano con due titoli, La casa degli invasati, (tradotto da Franco Giambalvo, Siad, Milano, 1979), e poi tradotto da Antonio Ghirardelli per Mondadori (Milano, 1989) e L’incubo di Hill House, (traduzione di Monica Pareschi, Adelphi, Milano, 2004, 2016 2° edizione), The Haunting of Hill House è probabilmente il romanzo più noto di Shirley Jackson e anche di maggior successo. Robert Wise ne trasse un film nel 1963 con il titolo The Haunting (trailer) e nel 1999 ne è stato rifatto un brutto remake; mentre quest’anno è in lavorazione la nuova serie su Netflix divisa in dieci episodi e ispirata al romanzo (per saperne di più, questo è il link all’articolo di Variety).
Chi ha letto La lotteria ricorderà la maestria della scrittrice a farti provare quel senso di claustrofobia nei confronti degli altri senza ricorrere alle tormentate elucubrazioni esistenziali del sartriano “l’inferno sono gli altri” in A porte chiuse; perché i temi e le ambientazioni della Jackson sono di gran lunga più angoscianti e rivelatrici del perverso rapporto tra individuo e comunità (le interpretazioni non mancano e qui è possibile trovare un articolo che parla della storia ebraica segreta di The Lottery). Nel racconto di Jackson, l’effetto perverso di una comunità feroce e punitiva è ottenuto attraverso uno stile sobrio, pulito, quasi cristallino, e il tono paradossalmente cordiale della situazione si pone in violento contrasto con quel finale feroce e inesorabile.

I racconti della raccolta, ancora più inquietanti (come nel caso di Lo sposo), trattano l’alienazione mentale e lo stato di percezione psichica alterata con effetti di contrasto talmente sofisticati e grotteschi da indurre il lettore a provare diversi stati d’animo anche contemporaneamente, mentre la lettura si dipana in un percorso verso l’angoscia, intesa come angst, che è il risultato di una scrittura lucida, sobria ed elegante in grado di rendere perfettamente percepibile il perturbante in cui sono avvolti gli eventi e i personaggi. Tutto questo con il tono di una scrittura oggettiva, e di una voce suadente che non sai mai se miri a colpire il lettore o i suoi personaggi. Perché nello stile di Jackson, l’ironia scivola sempre in una ferocia senza scampo che colma il vuoto tra l’io disturbato e ipervigile di alcuni personaggi e l’ottundimento degli altri che lo guardano dal di fuori.
Anche We Have Always Lived in the Castle (1962, intitolato Così dolce, così innocente, per Mondadori, Milano, 1990; e pubblicato come Abbiamo sempre vissuto nel castello, trad. di Monica Pareschi, Adelphi, Milano, 2009) è un romanzo in cui i personaggi ti suscitano delle reazioni assai composite e il perturbante è la cifra stilistica di una narrazione che sfuma nei toni della favola macabra. (Qui c’è un articolo di Joyce Carol Oates pubblicato nel 2009 su The New York Review of Books).

The Haunting, considerato un classico nella categoria “racconti di fantasmi”, è quello che tuttavia mi ha, diciamo, impaurito di meno e non perché non sia un gran bel racconto. In realtà è un racconto bellissimo, quasi classico nell’impianto narrativo, sull’angoscia di una donna che tenta disperatamente di attaccarsi a qualcosa, cercando il contatto con gli altri e persino con le entità che popolano Hill House nel disperato tentativo di trovare una casa, luogo fisico certamente ma soprattutto immaginario e simbolico. Sorprende meno delle altre opere perché, come capita spesso a libri di successo di una generazione e letti molto meno oggi, la fama precede The Haunting of Hill House, considerato come uno dei più “inquietanti” racconti di fantasmi. Tuttavia, la sua qualità non è tanto nel mettere paura, come fa invece un altro classico come L’Horla di Maupassant, quanto di indurre una grande, desolata tristezza, la sensazione che non si è mai prigionieri di un luogo quanto lo si può essere di se stessi e della propria tragica esistenza in un mondo che ci guarda come dei poveri, disperati freak. E il mondo di Eleanor è talmente squallido che chiunque sarebbe come lei (lascio da parte eventuali commenti femministi o pseudo tali che in questo momento non mi interessano): una sorella che la costringe a vivere come una minorata, una madre malata, assistita fino alla fine, una solitudine da favola cattiva, e poi, una volta trovata la libertà o pensando di averla trovata, una compagnia male assortita di strani personaggi che, una volta giunti alla famigerata casa, la circonderà e la tollererà, osservandola come uno strano essere da compiangere e poi da escludere.
Il labirinto narrativo e psicologico di Eleanor è per un lettore di questo mondo tecnocratico e razionalista, (ancorché capace di darci grandi esperienze gotiche come Twin Peaks), uno spazio immaginario dove un grande senso di pena e compassione invade sempre di più la possibilità che Eleanor possa trovare quello che sta cercando, rendendo questa possibilità una mera proiezione della protagonista, al punto da farti sperare che qualcosa si vendichi a suo favore, che si tratti di vera follia o meno. Ma qui non siamo nelle situazioni gore di Stephen King quando scrive Carrie o della psicopatologia del grande Allan Poe. E Jackson non ha bisogno di scomodare la psicologia per indurre interpretazioni. I personaggi interagiscono e i rapporti si sostanziano in uno spazio chiuso (le porte di Hill House non restano mai aperte) che è rassicurante ma maligno, protettivo ma insidioso, confortevole ma inaffidabile come i rapporti umani.
C’è sempre qualcosa di triste e profondamente penoso nei personaggi a cui appartengono i romanzi di Shirley Jackson, qualcosa che affonda le relazioni familiari e sociali, nella perversione e nella malignità insite dell’animo umano, nell’impossibilità di apparire normali ad occhi altrui, per quanto ci si sforzi di adattare la propria unheimlickheit a quella più universale nella quale ci sprofonda il mondo degli altri. Nel mondo narrativo della Jackson, lo sguardo si sdoppia attraverso la penna della sua autrice, e questo sguardo doppio getta luce su quel punto nevralgico che è la percezione del mondo per chi appartiene a quella categoria umana definita oggi borderline, ma di cui la letteratura è piena, e per fortuna.
E’ vero, come dice Laura Miller nell’introduzione all’edizione americana, che il romanzo della Jackson appartiene a un sottogenere nel quale possiamo mettere The Turn of the Screw e The Jolly Corner di Henry James. Tutti presentano dei personaggi alterati da uno stato di coscienza, diciamo così, atipico che li porta a desiderare di essere altro e a percepire, immaginare, o addirittura vedere qualcosa che si manifesta negli interstizi della realtà. Eleonor è in questo senso un vettore, un elemento che catalizza le presenze malevole di Hill House? O semplicemente è una giovane donna la cui psiche è disturbata, rendendo i rapporti con gli altri personaggi lo specchio della sua stessa alterazione? E la casa è davvero un organismo autonomo, un ventre che imprigiona chi ne penetra la soglia con un miraggio di comfort per intrappolarlo dentro un incubo di manifestazioni malefiche, simulacri a loro volta di persone realmente esistite e incastrate nel labirinto della sua costruzione? E’ un luogo che attende di essere liberato da una maledizione o un luogo che intrappola chi cede anche solo per poco alle lusinghe della sua facciata accogliente, materna, protettiva e apparentemente rassicurante?
Ma se anche fosse questo il punto nevralgico della casa, la sua intrinseca ambivalenza di luogo infestato, nulla è più potente e al contempo desolato della condizione di Eleanor, alla fine allontanata dalla compagnia raccolta dal Dr. Montague e persino da questi, che più aveva insistito perché lei raggiungesse la strana compagnia, considerata come una presenza da tenere lontana, trattata come si tratterebbe una bambina che non sta alle regole, impossibile da accogliere nel consesso “ragionevole” e razionale degli adulti. Umiliata dalla famiglia originaria, e finalmente decisa a trovare la libertà tanto desiderata, Eleanor viene tuttavia espulsa e allontanata dalla famiglia posticcia che si è creata a Hill House, senza comprendere quanto questa falsa famiglia sia in realtà meschina e tuttavia ben radicata nella realtà, quella stessa realtà che a Eleanor sfugge e resterà per sempre una terribile solitaria illusione, intrisa del desiderio di una normalità che è sempre più lontana e impossibile da raggiungere.
Mi sembra di ritrovare questo senso di inquietudine oggi nel 2017 mentre guardo Twin Peaks e mi chiedo, turbata e affascinata allo stesso tempo, se i mostri fantasmatici delle realtà parallele che a volte si calano nel mondo “normale” non siano i fantasmi delle tante case reali e immaginarie dei racconti americani che hanno preceduto l’astrusa e geniale serie e che ne rappresentano i precedenti culturali. Mi chiedo se i bizzarri personaggi borderline che popolano le geografie di questi mondi narrativi non siano, in fondo, che il modo migliore per raccontare la solitudine e l’illusione che qualcos’altro c’è o perlomeno potrebbe esserci e che il confine tra sogno e realtà è molto più labile di quanto sappiamo o riusciamo a comprendere. Chiudo con l’incipit del libro, sperando che, a parte Netflix, si torni a leggere Shirley Jackson.
No live organism can continue for long to exist sanely under conditions of absolute reality; even larks and karydids are supposed, by some, to dream. Hill House, not sane, stood against its hills, holding darkness within; it had stood so for eighty years and might stand for eighty more. Within, its walls continued upright, bricks met neatly, floors were firm, and doors were sensibly shut; silence lay steadily against the wood and stone of Hill House, and whatever walked there, walked alone. (Penguin Books, 2016, p. 1)