The Cartel di Don Winslow

Forse dovrei piantarla di scrivere recensioni su scrittori già famosi che hanno già attirato l’attenzione di giornali e riviste consolidate ma The Cartel di Don Winslow (Arrow Books, 2015, Il cartello, Einaudi, traduzione di A. Colitto) che ho appena finito merita qualche notazione in più.

Avevo già letto L’inverno di Frankie Machine in italiano e lo avevo messo tra i libri degli autori interessanti da tenere d’occhio. Avevo cercato The Force in originale ma evidentemente, con l’uscita dell’edizione italiana, le versioni originali cartacee per obsoleti lettori affezionati alla carta sono sparite (sì, lo so, c’è Amazon, ma preferisco comprare i libri in libreria, quando posso). Così ho comprato The Cartel, il cui tema di fondo è la guerra al narcotraffico tra Stati Uniti e Messico con la storia che inizia nel 2004. Ovviamente c’è tutta una storia precedente a quella di The Cartel che era iniziata con The Power of the Dog al cui centro c’è la figura di Miguel Angel Barrera e di tutte le nefandezze che un business come quello della droga porta nel mondo di noi anime candide. In The Cartel il nuovo villain è Adàn Barrera, nipote di Miguel, e il “vendicatore” sempre Art Keller, operativo del governo americano e incaricato di lavorare sul campo.

Se siete tipi a cui lo stomaco non regge e siete rimasti inorriditi quando avete guardato Traffic o avete provato un senso di profondo disagio esistenziale alla vista di Sicario (bellissimo e durissimo film di Denis Villeneuve del 2015) e trovate Scarface (quello con Al Pacino) un po’ stucchevole sul piano della violenza, mentre apprezzate Gomorra per la regia ma trovate le scene di violenza davvero troppo esagerate, non siete pronti per leggere The Cartel. Se invece vi piacciono i libri tosti che non fanno sconti e non offrono finali consolanti o speranze mal riposte, dedicate un po’ di tempo a questo libro e dimenticatevi Traffic, e tutti quelli che ho citato, perché il romanzo di Winslow viaggia su un’altra velocità e mette il turbo al rapporto tra fiction e attualità. Lo scrittore ha fatto un lavoro davvero notevole di costruzione temporale della guerra al narcotraffico e di contemporanea decostruzione dell’immaginario criminale, il più delle volte ipocrita, a cui siamo legati quando guardiamo film che raccontano del narcotraffico e delle mafie ad esso associate.  Winsolw ha preso l’immaginario che ci piace tanto quando guardiamo uno come Jenny Savastano o uno come Scarface, e ha mostrato quello che ci sta dietro: esseri che vampirizzano la società, persone che sarebbe meglio se non esistessero ma che invece sono qui e contribuiscono alla ricchezza e al ricircolo di quella cosa che si chiama denaro. Il romanzo di Winslow fa questo e altro, senza però trascurare i principi fondamentali della narrazione romanzesca: personaggi e plot, dialoghi serratissimi e punti di vista mobili.

Lavorando direttamente su fonti importanti di giornalismo tradizionale (solo per citare le prime che ricordo, Ioan Grillo, El Narco; Anabel Hernandez, Narcoland; Charles Bowden, El Sicario. Confessions of a Cartel Hitman e Murder City oltre ad articoli da The Texas Observer e Milenio Diario, La Prensa, El Norte)  e di blog dedicati come El Blog del Narco, Insight Crime, Borderland Beat  Winslow dipana la narrazione su un arco di dieci anni e traccia una mappa del narcotraffico estremamente dettagliata e documentata in cui i personaggi principali, secondari, terziari, di contorno, in presenza e in absentia, si muovono, vivono e muoiono senza che niente e nessuno venga risparmiato dalla violenza diretta o indiretta che tutto contamina e distrugge (in un’intervista apparsa sul Time Don Winslow spiega i suoi metodi di ricerca e la sua concezione della violenza). Il romanzo si dipana su seicento pagine di cui una buona metà direttamente ispirate a vicende realmente accadute e a personaggi reali (non ultima quella di Javier Valdez, ucciso quest’anno proprio nel modo in cui vengono uccisi molti dei personaggi del libro di Winslow (su Valdez riporto un articolo qui) con descrizioni circostanziate delle operazioni militari e tattiche che gli USA portano avanti con il Messico, ormai da anni. Nel romanzo i dialoghi tra gli operativi, e l’incrocio delle diverse sigle CIA, DEA, Governo, Federales, ecc. riescono a disegnare una mappa di destini individuali e collettivi in cui la discriminante tra le due parti in guerra sta nei mezzi a disposizione, nel contenimento del danno (sociale, politico, economico, finanziario) e nella capacità di anticipazione delle mosse del nemico nel tentativo di porre almeno un argine al caos e al controllo di interi territori, depauperati, terrorizzati, contaminati dalla piaga dei cartelli.

A parte la trama decisamente complicata e il gran numero di personaggi maschili e femminili che avviano tante altre trame secondarie e sottostanti con descrizioni di uno scabro realismo senza sconti, lo scenario tutto spostato in Messico e in parte in Guatemala, con le vicende brutali e la violenza ai limiti della sopportabilità dell’ultima parte, The Cartel non è un romanzo criminale ma un vero e proprio romanzo di guerra e come tale andrebbe letto. Spesso le vittime tra i civili sono effetti collaterali, i mezzi sono quelli militari, le risorse sono ingenti, purtroppo con esiti poco esaltanti (secondo l’Onu la guerra alla droga è una guerra ormai persa), i carnefici sono talmente ben organizzati da avere la meglio anche sui rivali dello stesso stampo che di volta in volta si avvicendano nella lotta per il controllo di un territorio: Sinaloa, Tamaulipas, Chihuahua, Veracruz, Michoacan…

Mexico
Azatlan, Sinaloa and Guaymas, Sonora (1935)

In questo senso, Don Winslow non fa prigionieri. Non solo è impossibile dividere il mondo in buoni e cattivi o inutile e antirealistico provare a farlo, ma anche solo il tentativo di mostrare che qualcosa è salvabile è, in fin dei conti, un atto utopistico, l’ultimo residuo di una umanità intesa non nel senso di appartenenza biologica alla specie ma di sostantivo che indica “sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri”.  Per questo mi pare che The Cartel con le sue vicende, con l’enfasi narrativa sulla vendetta personale, intesa paradossalmente come qualcosa che ci rende ancora umani, ancorché brutalmente, animalisticamente tali, abbia anche l’ambizione di domandarsi se, dato il contesto nel quale si vive e si muore al di là del confine, sia possibile mantenere un briciolo di integrità morale o se la guerra, questo tipo di guerra al narcotraffico, non sia l’ultimo, inesorabile fallimento del capitalismo e della sua brutalità mascherata da necessità di crescita economica.

Negli anni Sessanta, un signore di nome William Burroughs diceva che la droga è l’ultima merce e quella che genera nell’organismo umano è un’algebra del bisogno che rinnova continuamente la richiesta della sostanza, resa disponibile sul mercato da un’organizzazione capillare che muove capitali ingenti che né banche, né governi, né tantomeno la famigerata finanza mondiale disdegnano. Come il cibo, la cocaina (e in misura minore ma non meno dannosa, la metamfetamina) è una sostanza reperibile sul mercato per un prezzo, che risponde a un bisogno individuale forse solo all’apparenza, ma sicuramente capace di produrre dei danni irreparabili al tessuto sociale. Si sa, pecunia non olet, e anche una società parallela e illegale come quella dei cartelli della droga è ben consapevole di quanto sia importante la gerarchia nella catena di comando, in modo non tanto diverso da quello che accade in una multinazionale con il suo top management e i suoi piani intermedi, le sue ramificazioni, i suoi affiliati, dislocati per il mondo. The Cartel, infatti, è ambientato in Messico ma contiene un elemento basilare per comprendere l’economia in generale e quella della droga, che appare quasi paradigmatica: l’interdipendenza di tutto e tutti a ogni livello della società, su scala nazionale e internazionale. Può non toccarci affatto la sorte di una povera puttana di Ciudad Juarez accecata perché fa la spia a un poliziotto o una dottoressa combattiva che vive a Valverde e si batte ogni giorno per rendere migliore il posto in cui vive; o un giornalista troppo idealista e soccombente e una pletora di poveri disgraziati che vivono in città militarizzate dove la vita umana non vale il proiettile che gli squadroni degli Zetas usano per farli fuori o ancora un povero tossico che si compra la dose (tra l’altro, nel libro, ci sono pochissime scene “classiche” di persone che fanno uso di cocaina e la droga è trattata davvero in maniera quasi asettica, come una merce tra le tante).

Il Cartello è un sistema di affari: Stati Uniti, Europa, Italia (si parla anche della ‘Ndrangheta e della percentuale del Pil italiano ascrivibile alla droga) e si muove come una macchina che si autoalimenta, che non conosce interruzioni nella filiera, sistema feudale e anarchico al tempo stesso, brutale e sistematico nell’eliminazione degli ostacoli, tendente al monopolio ma estremamente flessibile in termini di alleanze necessarie a protrarre e consolidare il potere. Un sistema che richiede strumenti di contrasto ai limiti della legalità e quasi al di fuori del diritto internazionale (molto interessante il capitolo intitolato “Jihad”) e uomini consapevoli di perdere tutto e tornare alla nuda vita nel nome di un dovere etico che si trasforma in vendetta e agire individuale.

Dall’altra parte ci sono i capi, psicopatici, opportunisti, asettici, che come burattinai, tramano strategie e tattiche di mercato, pensano alla progenie e alla propria sopravvivenza come in un mondo di belve. Winslow mostra chiaramente la dinamica del vincitore, del maschio Alfa e la sua trasversalità; la concezione incarnata dall’uomo di successo, premiato persino dalle casse di risonanza del capitalismo mondiale e dei suoi tirapiedi, è il fantasma che ossessiona tutti.  C’è un passaggio in cui Keller, sull’aereo con il funzionario con il quale lavora sul campo portando avanti la caccia a Barrera, sfoglia un numero di Forbes che l’altro gli ha mostrato

“You’re going to like this”

Keller gives Orduna a questioning look.

“Page eight”, Orduna says.

Keller turns the page and sees it. Adàn Barrera is listed as number sixty-seven on the Forbes annual list of the world’s most powerful people.

Forbes”, Keller says, tossing the magazine down.

Come in un lungo racconto di guerra, nel libro ci sono violenze indescrivibili ma fin troppo reali, vittime ed effetti collaterali molto dolorosi; consiglio di non affezionarsi troppo ai personaggi di Marisol o di Pablo, di Ana e di Keller (lo farete, soprattutto con Marisol e Pablo, che io ho adorato) e di non cercare dentro di voi un briciolo di umanità per salvare il salvabile di Madga Beltràn o Adàn Barrera. E’ un effetto collaterale della lettura dei romanzi, che forse ci rende più sopportabile la vita ma dobbiamo ricordarci che esistono persone vere che probabilmente hanno ispirato questa storia, persone che combattono con gli scarsi mezzi a disposizione, come articoli di giornale, contrasto alla corruzione, lavoro sul campo e, in qualche modo, romanzi di denuncia.  Al di là della nostra immaginazione c’è un mondo davvero difficile da immaginare che, seppure lontano geograficamente, è più vicino di quanto si pensi.

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