L’orsacchiotto Carver e altri segreti

Sono quattro racconti stilisticamente raffinati quelli che compongono la raccolta intitolata L’orsacchiotto Carver e altri segreti, di Riccardo Duranti (Ianieriedizioni, 2015). Prendendo spunto dal titolo del primo, “L’uomo che vedeva il vento”, creano l’effetto, ormai raro, di sentire respirare la scrittura come una sostanza viva e avvertire la grana delle parole che ne compongono la trama fragile eppure persistente come se fosse una materia viva. Non amando le intrusioni nell’autobiografia degli autori, non mi dilungherò su speculazioni facili che possano aiutare a interpretare queste storie, perché credo nel potere della scrittura di creare il proprio mondo al di là della realtà dell’autore, e di portare a luoghi dove nella vita normalmente non è possibile andare, inducendoci a vedere al di là del dato sensibile, per farci immaginare possibilità molteplici.

Certamente, questi quattro racconti sono variazioni sul tema della scrittura e della memoria che accompagna chi ne fa una vocazione, che sia di primo grado, come nella creazione letteraria o di variazione su un testo originario, come nel caso della traduzione. Parlare oggi di scrittura come atto creativo e come processo stilistico elaborato è quasi improponibile se non utopistico, nonostante siamo circondati da testi scritti di ogni genere che si intersecano e si sovrappongono con una rapidità senza precedenti. Si scrive ovunque e di qualsiasi cosa. Addirittura in barba all’immediatezza e alla brevità del texting a 140 caratteri, persino il romanzo, come forma narrativa, è più vivo che mai. Basterebbe ricordare che i romanzi più venduti e pubblicizzati sono quelli che superano le quattrocento, persino le cinquecento pagine.  Una tendenza che potrebbe essere dovuta al fatto che a regalare un grosso tomo, al di là dell’utilizzo che se ne possa fare, si fa sempre bella figura, certamente più che regalare un piccolo libro. Al di là di questa nota di colore, tuttavia, sembra sempre più evidente che della scrittura come arte e come elaborazione colta, raffinata, elegante, ricercata, immaginata e sperimentata non si sappia più che farne, forse perché ritenuta troppo affettata o troppo in contrasto con l’immediatezza a cui ci siamo abituati, un’immediatezza che fa invecchiare presto persino le narrazioni più elaborate o quelle che aspirano a una certa persistenza nel tempo. Per non parlare di quanto ormai la maggior parte dei romanzi pubblicati sembrino sempre di più al servizio di altri media: libri che sembrano soggetti di film, racconti che sgomitano per diventare sceneggiature, trame che seguono modelli triti e un po’ televisivi. Nell’immensa piazza di mercato che è diventata la nostra vita di consumatori, trovare libri raffinati è quasi una ricerca del tesoro.

Leggendo i racconti di questa raccolta, sembra quasi di prendere una via laterale, lontana dal turbinio disordinato della strada principale, e scoprire che in mezzo a tanta chiassosa confusione esista ancora un giardinetto tranquillo dove appartarsi per veder succedere qualcosa che non si credeva possibile. La scrittura si fa materia da plasmare, le parole diventano strumenti per trasmettere qualcosa che non si può tradurre in altro modo: non può diventare film, fotografia, scultura, immagine se non nella mente del lettore, che deve semplicemente lasciarsi andare nel racconto, facendosi portare dal vento delle parole per vedere cosa potrebbe succedere.

Nel bellissimo racconto “L’uomo che vedeva il vento” è visibile quello che solo le parole rendono tale: la metafora e la metonimia. Il vento è la scrittura e non a caso l’uomo del racconto, affetto da questo dono-maledizione di vedere quello che ad altri è precluso e di esserne talvolta travolto e schernito, decide di partire per curare un attacco di malinconia acuta, alla ricerca di quei luoghi del mondo dove il vento-scrittura possa rivelarglisi in maniera ancora più intensa, lasciandolo invece a riflettere che “Forse mi aspettavo una sorta di lezione cumulativa sul senso della vita dall’elemento che, nel bene e nel male, ha volubilmente segnato la mia esistenza; forse cercavo esperienze estreme e nuove, come fanno tanti spiriti irrequieti che finiscono poi per scoprire che in fondo, sotto il sole c’è ben poco di nuovo, ma solo un numero limitato di variazioni sui soliti temi fondamentali.” (p. 33).

Patricia+Kavanagh+22
Patricia Kavanagh Sunset at Blackrock,  Salthill, Galway 

 

Nel racconto “Vocazioni”, le vicende del protagonista attraversano luoghi e tempi della Storia (c’è il piccolo paese della Sabina, terra d’origine del protagonista e ci sono la Seconda guerra mondiale e il fronte africano) con una levità solo apparente, perché pagina dopo pagina, il racconto riesce a ricomporre la ricchezza di una vita attraverso l’amore incondizionato, costante e persistente (come solo i veri amori possono essere) per la lettura e per i libri, con una profondità che si potrebbe trovare in un romanzo lungo ed elaborato, ma che qui è invece affidata alla narrazione scorrevole e limpida del racconto di media lunghezza. Sorte individuale e memoria, vicende personali e Storia si fondono in un racconto tenero e rassicurante sulla possibilità di sopravvivere anche agli accadimenti più incontrollabili; alla fine, conservando la propria vocazione, è possibile trasmettere un’integrità che né il tempo né la Storia potranno mai scalfire.

Nel racconto, intitolato “L’incontro”, è come trovarsi a cena con i personaggi e il gioco di coinvolgimento innescato da un ricordo si trasforma in un piccolo dono fatto dal protagonista narratore a chi ha amato i racconti di un certo scrittore. Non diremo di chi si tratta, perché vorremmo lasciare che il lettore si godesse queste poche pagine di gioiosa malinconia, fingendosi, pagina dopo pagina, accanto all’uno o all’altro dei personaggi, lasciandosi andare  al ricordo della prima volta che si è incontrato uno scrittore attraverso le parole che ci ha donato sulla carta.


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