La scatola magica di Twin Peaks: Il tempo e lo spazio

Una volta varcata la soglia del mondo di Twin Peaks non sei più lo stesso di prima perché se poco poco ti piace e ti appassiona, finisci per restare intrappolato nella scatola magica della sua macchina narrativa come Alice nel paese delle meraviglie quando scende nella tana del bianconiglio. E a guardarci dentro, scopri che la scatola di Twin Peaks è talmente piena che non sai davvero quando ne uscirai. Il bello è che cominci a chiederti una cosa ed ecco che ne spunta un’altra e quando pensi di aver trovato il filo, ecco che si apre un altro varco. Con cento e oltre personaggi (tra principali, secondari, vecchi e nuovi) e un intreccio che comincia a rispondere a un disegno (quasi) compiuto solo verso il quindicesimo episodio, non è facile tenere il bandolo della matassa e trovarsi distaccatamente pronti a fornire un’interpretazione.

Innanzitutto perché non ci sono risposte coerenti, univoche, lineari; c’è soltanto una fantastica macchina narrativa da esplorare che contiene così tanti riferimenti, connessioni, collegamenti ed è così coesa dal punto di vista narrativo, da spingerti a guardare e continuare a guardare come se non ci fosse altro che godersi il gioco narrativo. È l’effetto ipnotico di Twin Peaks e anche il suo fascino ma soprattutto è l’effetto dello stile di Lynch: visionario e attraente, in grado di cogliere quel perturbante (unheimlich) che cova sotto sotto anche nel più banale dei gesti e nella più banale delle quotidianità. Lynch porta questo apparente contrasto su un piano che definirei “sinfonico” dell’immagine, perché ne altera lo sguardo dello spettatore attraverso il prolungamento di un momento, la scelta di un gesto, di uno sguardo, di un particolare e soprattutto lavorando sui suoni, un elemento che risulta spesso particolarmente incisivo. Il cinema, come il regista ha dichiarato in un’intervista, è unione di immagine e suono che insieme si dispiegano nel tempo ed è necessario ricordare che il suono è altrettanto significativo delle immagini per trasmettere l’idea.

Intanto va ricordato che, da una parte, Lynch ha potuto estendere la narrazione filmica a quasi 18 ore di episodi da circa un’ora, che, per quanto separati nel tempo di una settimana gli uni dagli altri (cosa che si può ovviare riguardando la serie per conto proprio anche a tre-quattro episodi a volta), sarebbero sempre da prendere come le parti di un unico, lunghissimo film[1]; questa modalità ha consentito al regista di lavorare su un modello dotato di maggiore libertà strutturale (l’alternanza dei personaggi e delle storie). In questo senso, Twin Peaks potrebbe durare ancora al’infinito, senza la necessità di rivelare necessariamente cosa sia successo a Dale Cooper, ma semplicemente protraendo fabula e intreccio ad libitum magari cercando le implicazioni della nuova realtà aperta dalla scena di chiusura della storia di Cooper (purtroppo nel mondo reale c’è sempre la sveglia che ci ricorda che dobbiamo fare altro). La possibilità di una narrazione infinita è confermata anche dalle storie “minori”, avviate dalle conversazioni di personaggi di cui non sappiamo nulla alla fine di ogni episodio, quando vediamo questo personaggi parlare nel Road House; ciascuno apre la possibilità di un’altra storia che forse può intrecciarsi alla trama principale o solo portare da un’altra parte. La generatività della fiction come modalità narrativa è pressoché infinita.

Sul piano dell’ambientazione, Lynch lavora su molti spazi iconici americani, ormai interiorizzati nell’immaginario collettivo degli spettatori (e non solo) e su molte situazioni del quotidiano, rendendo gli uni e le altre familiari e al tempo stesso estraniate, comiche e cupe, inquietanti e surreali ma talvolta rassicuranti, enigmatiche e poeticamente significative e di conseguenza comprensibili anche senza il vettore del linguaggio, utilizzando unicamente le potenzialità dell’inquadratura, del montaggio sonoro e visivo, dell’immagine e della sua costruzione. Altrettanto innovativo è il modo in cui i personaggi sono pensati e inseriti nella struttura narrativa: sono dei tipi, certamente, che puoi trovare soltanto negli Stati Uniti e soltanto in certe parti degli Stati Uniti ma hanno una personalità tutta propria che sfugge a ogni possibilità di inquadramento o in uno stereotipo, pur essendo profondamente cinematografici e profondamente finzionali perché rispondono a certe aspettative emotive dello spettatore e hanno un’ovvia funzione all’interno della storia. In realtà, risultano tutti profondamente lynchiani, perché sono ispirati a tipi reali, provenienti da luoghi reali in cui si parla proprio con quegli accenti un po’ arcaici e quelle espressioni meravigliosamente locali e tuttavia possiedono tutti una intrinseca caratterizzazione che li rende unici, inequivocabili all’interno dell’universo narrativo di TP. Lynch sposta continuamente i piani rendendo le sue situazioni e i suoi personaggi realistici, iperrealistici, surreali, perturbanti, grotteschi, orrorifici, malinconici, nostalgici, iconici e innovativi all’interno di un mondo dove il male ha spesso la meglio ma dove è molto chiaro il giusto e lo sbagliato, il moralmente distorto, con l’orrore che produce; un mondo in cui la ricerca di un’autenticità e di una correttezza morali che possono operare per il bene è espressa con un sorprendente candore.

Truman, Bobby, Hawk e Andy nella foresta trovano una donna
Woodsmen fuori dal Convenience store

Forse Lynch non ha mai abbandonato un’idea di morality play; certamente l’ha resa comprensibile a un pubblico contemporaneo pur mantenendo uno stile proprio, con pochi compromessi a favore della facilità di fruizione, utilizzando stratagemmi narrativi che attingono al mondo fantastico delle favole, a principi trascendentali, a un dualismo morale che è il punto nevralgico della società umana da sempre, all’idea che la fragilità e la caduta, la violenza e il male, la corruzione siano condizioni che possono essere raccontate e rappresentate ancora una volta spostando i piani narrativi e utilizzando la macchina da presa come se fosse una scatola magica produttrice di mitopoiesi: i personaggi malvagi sono tali per l’azione di una madre originaria malefica o lo sono perché è nella loro natura? Perché Dale Cooper deve riportare a casa Laura Palmer? Qual è il senso della sua ricerca ostinata e del suo tentativo salvifico? Un destino preordinato o una scelta dettata da una vocazione? La condizione ontologica di Dale è un io diviso e spaccato oppure un tutto che tende alla scissione per poi tornare alla sua unitarietà? E questa unitarietà è comunque problematica, conflittuale, spiritualmente tormentata perché il personaggio è davvero ambivalente o perché è in aperta lotta contro una forza misteriosa che va trovata con mezzi razionali? Perché Laura Palmer “is the one”? Se la dimensione onirica è più vera del vero essa è, per dirla con Chuang-Tse, il sogno di una farfalla di essere Chuang-Tse o Chuang-tse che sognava di essere una farfalla? Se tutto è un sogno e il sognatore è irreperibile, qual è lo statuto ontologico del mondo narrativo che si chiama Twin Peaks?

Chion aveva già intuito questo a proposito del primo Twin Peaks, quando afferma che “la struttura è folle ma TP resta mitico ed epico perché somma con decisione tutti i livelli senza fonderli l’uno con l’altro e si definisce proprio per questa capacità di somma.” Epica e mito si assommano in Twin Peaks producendo l’unitarietà che era stata solo del racconto fantastico.

Raramente un regista (e uno sceneggiature come Mark Frost con lui) era riuscito a tenere in piedi così tanti piani  e così tanti stratagemmi stilistici giustapponendoli in un unicum in grado di rendere lo spettatore cosciente del gioco e affascinato contemporaneamente dalla fluidità con cui questo si svolge. Persino la violenza, in Lynch, richiede sempre un piano assiologico ben preciso e non si ferma a puro esercizio estetizzante e gratuito; la violenza in Lynch si connota sempre come qualcosa di fatalmente ingiusto, insopportabile.

In Twin Peaks The Return, il regista va ancora oltre quello che aveva fatto con la prima serie, quando fa esplodere le potenzialità del tv drama, rompendo gli schemi e introducendo elementi che erano stati appannaggio soltanto della letteratura e di un certo tipo di narrativa finzionale (fiction) postmoderna (la struttura narrativa estesa, la storia potenzialmente perpetua, la circolarità del ricordo). I riferimenti letterari del primo Twin Peaks sono stati discussi (anche da Chion, in David Lynch) e sono ben evidenti, così come quelli di Wild At Heart (Il mago di Oz) o di Mulholland Drive (il noir rovesciato ispirato a Chandler) per non parlare di quelli del cinema (Hitchcock, Wilder, persino Tourner con Out of the Past, l’espressionismo tedesco, il cinema surrealista) e della pittura. In The Return, tuttavia, sono evidenti anche elementi quasi arcaici e archetipici propri del mito: il ritorno, la paternità, la maternità originaria, la lealtà, la profezia, il ricongiungimento, la perdita definitiva – tutti si innestano sui diversi generi del racconto e soprattutto su registri narrativi che trapassano dall’uno all’altro senza soluzione di continuità come nella scena in cui Dale Cooper si ritrova nei panni di Dougie, catatonico, svanito in uno stato di stupefazione, creando un contrasto che è drammatico, grottesco, patetico e profondamente tragico, dal momento in cui il personaggio si ritrova in una realtà non sua e alla mercé delle persone che lo circondano; oppure la scena al casino quando il direttore, ritenuto responsabile della vincita esagerata, viene malmenato come in un film di gangster per poi saltare alla scena in cui il catatonico e stralunato Dougie è portato, con effetti assai comici, a casa con la moglie che prima lo aggredisce verbalmente e poi lo perdona senza capire cosa sia accaduto (la sequenza mette lo spettatore in uno stato di vantaggio ma anche di profonda prostrazione).

Fondamentalmente, in TP The Return Lynch sceglie di attingere ancora una volta all’immaginario americano della provincia, fatto di tall tales, piccole città ordinate e pulite perché antropizzate solo in parte, uomini retti e donne volitive, forti, luoghi dove resta pervasiva l’idea di wilderness (la foresta) ma lo fa rendendo questi luoghi universali e iconici anche per chi americano non è.

I luoghi iconici comprendono la foresta che è un luogo vivo, un altrove diverso dagli spazi umani, che trasmette un’idea di trascendenza (ci sono delle inquadrature nelle puntate 14 e 15 che trasmettono le sensazioni che ho trovato in Hawthorne quando descrive la foresta in The Scarlet Letter); l’ufficio dello sceriffo con le sue regole di ordine e cura che lo rende un luogo rassicurante; le montagne avvolte dalla nebbia dove avviene il mutamento nel tono degli eventi; il deserto del New Mexico che invece è la piana sterile, la waste land dove si dispiega la tecnologia della morte; e poi i luoghi fantasma (il convenience store, i benzinai abbandonati, le vecchie rimesse) di una frontiera che si è consumata due volte e non è più quella dei pionieri e dei nativi – una geografia nella quale allargare le pertinenze federali, ma quella più obsoleta e rimossa dei luoghi degli esperimenti nucleari e dei rimasugli del petrolio e quindi ormai vuota e distrutta dalla mano dell’uomo, riempita da una greedyness e da una desolazione transumane, ontologiche. In Twin Peaks il fuoco nero, distruttivo e residuale che contamina i personaggi che ne sono succubi, provenendo dall’ultramondano o forse semplicemente rimandando ad esso, si diffonde come una malattia che invade gli individui e li corrompe (Bob e Leland Palmer, ma anche Laura e tutti i ragazzi posseduti dal demone della dissolutezza, tossicodipendenti, allucinati, alterati, violenti e irredimibili) e le piantagioni di mais; in Twin Peaks, la mappa di Hawk rimanda alla simbologia del mais contaminato e distrutto dal fuoco nero e a un’entità malvagia che sovrintende tutto; il residuo nero che si ricollega alla nube cosmica e a quella sulla Terra sembra la stessa sostanza che ricopre di morchia gli agenti materiali del male che torneranno più e più volte dal buio e dalla desolazione per uccidere le vittime designate o per salvare il malvagio. E ancora, il casinò (Las Vegas è una delle città più iconiche degli Stati Uniti) come luogo della fortuna e della corruzione; il penitenziario dove si contiene il pericolo ma senza riuscirvi fino in fondo (Bad Cooper fugge e Hastings viene ucciso quando è portato fuori dal carcere proprio all’insaputa di chi doveva proteggerlo), il trailer park come la periferia della cittadina dove emergono i problemi reali ed esistono i personaggi più realistici, il Road house dove si beve e si suonano canzoni malinconiche e si raccordano i racconti della piccola città, universo fantasmatico di una memoria recente e volatile costellata di strane storie narrate due volte e di aggressività sottostante; la casa infestata (quante case infestate possiamo contare nella letteratura americana fin dalle origini, per non pensare a quelle del cinema?)[2] come luogo del rimosso, della colpa, del mancato ritorno e della chiusura; e le strade ovunque a perdita d’occhio, lungo le quali corrono i fili dell’alta tensione e si perdono le praterie intorno che rimandano all’immagine di uno spazio vuoto dove può sempre accadere o presiedere qualcosa di misterioso, di angosciante.

Lynch trasforma i luoghi dell’immaginario americano non urbanizzato e rurale nei luoghi iconici di una favola moderna, cupa e violenta, straniante e paurosa, ricolma di misteri irrisolvibili dove, tuttavia, forze benevole e personaggi adorabili la rendono a volte familiare, rassicurante, per dirla in inglese cosy, in cui tenere lontane le forze oscure del caso.

Diversamente dal primo Twin Peaks, in questa nuova serie David Lynch sembra avere una visione più definita e totalizzante del male e dell’orrore che esso produce, una visione che si fonda in una concezione di tipo gnostico ma si riversa sul mondo come qualcosa che condanna gli individui che non scelgono il bene, ma si consegnano alla propria natura malevola senza opposizione, per debolezza, per sciatteria (Richard Horne, Chantal e Hutch, Stephen, il nano sicario, il poliziotto corrotto). La quotidianità è sempre il luogo di destinazione delle presenze malevole e delle casualità che esse favoriscono ed è per questo che è così perturbante anche di giorno, alla luce del sole, quando avvengono cose strane e misteriose (un bambino che viene investito è al tempo stesso una fatalità inevitabile ma anche il segno dello zampino di qualche demonio; un mug che vola dalla finestra di una roulotte rimanda a una situazione familiare violenta che avrà un finale terribile; una donna con gli occhi cuciti viene ritrovata nella foresta presso un luogo di confine con la realtà parallela ma non riesce a parlare; una catapecchia abbandonata è popolata da una donna orribile di nome Buella; un cavo elettrico sfrigolante è il canale di passaggio di entità negative).

Come le favole della foresta nera o la Persia delle Mille e una notte anche i boschi di Twin Peaks o le strade infinite nelle praterie del Midwest e i luoghi fantasmatici che appaiono e scompaiono e che rimandano all’America del vecchio ovest e alle sue ghost town, sono diventati gli spazi di una favola nera che è entrata nella mitografia dei nostri tempi, e Twin Peaks si colloca come un tall tale raccontato in forma di film, capace di generare una mitopoiesi che attinge a un immaginario collettivo intriso di paure ataviche e paranoie contemporanee. Lynch (con Robert Frost) ha scelto di estendere questo sogno oscuro e indecifrabile ma anche estremamente godibile e divertente, per una durata non convenzionale per il cinema canonico da sala, potendo così permettersi di tessere una struttura narrativa composita, in cui tutti gli eventi prendono il loro tempo, e le scene hanno una durata che rompe i criteri del tempo scenico pur essendo il tempo interno alla narrazione circolare e lineare simultaneamente: c’è un tempo circolare, onirico e un tempo lineare lungo il quale si dispiega l’intera vicenda e che comprende alcuni giorni. La decina di trame diverse, collegate di volta in volta per ellissi, per contiguità, per relazione di causa effetto, si giustappongono nel finale e, tuttavia, lo fanno in maniera da lasciare aperta la possibilità di una narrazione infinita o semplicemente asintotica.

Lynch e Frost lavorano con una sorprendente originalità, unica nel suo genere per il medium televisivo, che consiste nell’affidare molti snodi narrativi e raccordi a racconti narrati due volte, a ricordi raccontati dai personaggi, evocati attraverso una giustapposizione di immagine e suono. Quando Diane racconta dell’ultima, inquietante visita di Cooper a casa sua, noi vediamo Cooper con gli occhi di Diane attraverso la sua voce e il suo racconto (peraltro un momento di recitazione molto intenso); quando Ray, tenuto in scacco da Bad Cooper che gli punta la pistola, racconta come è entrato in possesso dell’anello magico, riportando le parole di un uomo al quale qualcun altro aveva detto delle cose il racconto è affidato alla parola sulla scena, mentre gli altri guardano attraverso il vetro che è uno schermo e che raddoppia la visione di noi spettatori che guardiamo qualcuno guardare qualcun altro che racconta di qualcuno che gli ha detto delle cose; il ragazzo inglese che racconta a James la storia di come ha trovato il guanto magico è tutta una prova di tall tale (in cockney, peraltro) e così in tante altre scene.

Il tempo del racconto appare dunque in certi momenti dilatato per rispettare il tempo reale della trasmissione orale. Lo spettatore assiste a un doppio scenario: quello dell’immagine che scorre con i suoi suoni evocativi, il suo sottofondo e quello della voce, con la sua grana, la sua emotività, la sua vividezza quando rende la storia esperienza, vissuto, racconto. Sono continui i momenti di questo tipo con le dilazioni dell’azione a favore di una scena in cui la voce che racconta è al centro, come quando Bushnell, il capo di Dougie nell’ufficio di Las Vegas, ripercorre la trama sinistra delle polizze falsificate e del giro di loschi affari, e lo fa raccontandolo a Dougie sul quale specchiamo la nostra incredulità per quello che è successo, mentre il narratore sta richiamando l’attenzione del personaggio (muto ma che ascolta) e dello spettatore che è il destinatario finale della storia. L’effetto di raccordo narrativo con la trasmissione orale è , invece, in un’altra scena, dalla madre di Bobby, quando quest’ultimo, Hawk e Truman vanno a chiedere alla donna di un episodio risalente a venticinque anni prima (la memoria dei personaggi di TP è formidabile) e lei racconta di quello che le aveva detto il defunto marito e padre di Bobby, il Maggiore Garland Briggs così da confermare una profezia che si è avverata. Questo effetto è ancora più potente raggiungendo una vetta di metestualità nell’episodio di Gordon Cole che racconta il suo sogno e lo interseca con il ricordo di un episodio del vecchio Twin Peaks, rompendo allo stesso tempo l’unità di tempo del racconto per mostrare la contiguità dei piani temporali e lo fa parlando ai suoi interlocutori sulla scena (Albert e Tammy) ma soprattutto allo spettatore, a cui è riservato lo sguardo in macchina. Il racconto è circolare e segue l’andamento del ricordo ma è anche un racconto destinato a più interlocutori, dentro e fuori della scena.

Si sa che Lynch non ama le trame lineari; e la circolarità delle sue storie ha un andamento contro intuitivo perché spiazza sempre lo spettatore, anche il più accorto. Un’indeterminatezza così esplicitamente evidente è però il risultato di una drammaturgia molto rigorosa e di una struttura narrativa coesa, che si permette di rompere le regole della narrazione convenzionale per riaffermare la tradizione del mito e della favola come reinvenzione nel mondo possibile della fiction spinta al suo massimo potenziale. E se il finale di TP lascia inquieti, è perché lo spettatore percepisce l’impossibilità di una fine, intuendo la presenza di un’auto generatività della storia all’interno della sua cornice narrativa e questo genera inquietudine.

Se questo TP è stato ancora più innovativo, visionario, inquietante, onirico del precedente esso è anche molto più classico sul piano della riconoscibilità dei luoghi. È anche sorprendentemente letterario per il modo di costruire i personaggi e la loro voce. Lynch è maestro quando si tratta di rendere persino gli oggetti più banali e quotidiani, o una bella giornata tra gli alberi e l’ingresso di un casinò sulla strip di Las Vegas in pieno giorno, inquietanti e deformati utilizzando semplicemente una tecnica che chiamerei del doppio sguardo, prolungando l’inquadratura su un particolare che acquista una funzione straniante (una macchia sul ciglio della strada, le persone che giocano alle slot machine senza accorgersi che c’è un uomo completamente sperduto che si aggira come un sonnambulo). Il suo modo di rendere perturbanti cose e situazioni, micidiale quando fa vedere entità malefiche o scoppi di violenza, è però particolarmente raffinato quando rappresenta momenti e situazioni normali come se fossero stati alterati da una patina di surrealtà. Seppure inverosimile, tutto appare plausibile. Che il deserto americano sia desolato e che lo scenario nucleare sia qualcosa che tutti ricordiamo sono cose evidenti; e il nostro atavismo ci induce a sentire ancora che la foresta può essere insidiosa. Ma trasformare queste cose in elementi intrinseci di un mondo narrativo come se fossero assolutamente normali e plausibili per i suoi abitanti equivale a far entrare lo spettatore dentro lo statuto narrativo di una favola trascendentale.  Il  carattere, già un po’ estraniato di per sé, di quel vuoto che sono le pianure, il deserto, e l’America rurale con i suoi personaggi un po’ strani è reso nella sua pura e letterale normalità, plain as it is. E come sono desolati gli spazi naturali, lo diventano, per effetto anche gli spazi urbani, persino quando sono pieni di luci: la New York dei primi due episodi, offerta in un breve e intenso piano lungo sui mille bagliori notturni che la caratterizzano è un luogo straniato come tanti, insondabile, così come il mistero che circonda il vuoto spazio interno del bunker, dove un ragazzo solitario deve svolgere un lavoro che non ha quasi alcun senso. Quasi. Perché anche lì c’è una macchina trasparente, una scatola, una gabbia che assomiglia a una lanterna magica ma che catalizza forse oscure, che vengono da un fuori indeterminato. Rispetto a questo fuori indeterminato, resta rassicurante anche la stranezza degli abitanti di Twin Peaks, coi loro tic e le loro paranoie, la loro semplicità e la loro umanità a cui siamo affezionati; una umanità che forse trascende la scatola che ne ha generato il sogno.

[1] Come riportato in Chion, David Lynch, il regista non vede grandi differenze tra cinema e televisione, se non sotto gli aspetti della qualità del suono e delle immagini, che nella tv sono inferiori, ovviamente. Quanto al contenitore televisivo, Lynch ritiene che permetta una maggiore estensione prolungando la durata del racconto consentita dalla formula della serie. David Lynch, Michel Chion, pag. 118

[2] The House of the Seven Gables, N. Hawthorne; The Fall of the House of Usher, The Black Cat E.A.Poe; The Turn of the Screw, H. James; The Haunting of Hill House Shirley Jackson; Beloved, T. Morrison; The yellow Wallpaper, C. P. Gilman; The Shunned House, H.P. Lovecraft; Grimsley Winter Dream. E la casa è un luogo perturbante anche se non abitato necessariamente da fantasmi o entità maligne in A Rose for Emily, Absalom! Absalom! W. Faulkner; We Have Always Lived in the Castle Shirley Jackson;


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