Numero zero di Umberto Eco

L’ironia è la figura retorica più raffinata e profonda nella storia culturale del mondo. E’ una figura di pensiero che può fornire la base strutturale di un romanzo, di un poema, di un’opera teatrale.

Numero zero è l’ultimo romanzo di Umberto Eco (Bompiani, 2015): un’operetta sagace e affilata su questo paese, raccontata in maniera breve, scorrevole, in una lingua impeccabile, colta e arguta senza risultare pedante. Con la sua struttura narrativa asciutta ed elegante, il libro può essere preso anche come un manuale di stile per capire l’ironia. Flawless, come direbbero gli anglosassoni alludendo al fatto che non ci si possono trovare difetti formali di alcun genere, per come, cioè,  il racconto è strutturato e articolato dall’inizio alla fine guidando il lettore con il filo rosso della satira e dell’amarezza dell’ironia in essa contenuta: linguistica, stilistica, formale, storica, culturale. Tuttavia, molti lettori abituati ai copiosi romanzi del professore, potrebbero aver trovato lo smilzo e amarognolo Numero Zero un po’ deludente rispetto alle grandi narrazioni particolareggiate a cui ci aveva abituato (per non parlare dei bei saggi di semiotica su cui ci siamo fatti le ossa durante l’università). In realtà, scrivere un romanzo così sintetico e con una lingua così elegante e strutturata non è cosa facile, anzi. Richiede anni di pratica e una conoscenza profonda delle strutture del linguaggio: un lavoro più nelle corde del semiologo studioso di stile che di narratore, forse. Se invece si tratta di ricostruire le paranoie e i fatti degli ultimi cinquanta anni (andando a ritroso partendo dal 1992) di un paese oscuro come l’Italia, in poche pagine, affidando il tutto al racconto nel racconto di uno dei personaggi, l’impresa può risultare in una carrellata storica il cui intento non è dare lo spazio necessario a fatti che tutti dovremmo conoscere, ma a presentarla con un’ironia quasi dovuta: feroce, spietata, senza affetto. Un’ironia che colpisce non tanto i fatti e i misfatti degli ultimi cinquant’anni raccontati come il racconto di un paranoico, ma gli anni che vanno dal 1992 (anno del racconto) ai nostri cupi, sudici e cinici anni del secondo decennio del 2000 che ovviamente non compaiono ma di cui siamo ben consapevoli avendone memoria recente.

È il 1992, Milano. Colonna, il narratore, ha cinquant’anni, non si è mai laureato, ha fatto il traduttore dal tedesco, il redattore, il ghost writer e sente di essere un “perdente” ma nel frattempo, sogna “quello che sognano tutti i perdenti, di scrivere un giorno un libro che mi avrebbe dato gloria e ricchezza.”. Un giorno Colonna viene chiamato a far parte della redazione di un progetto editoriale il cui direttore è un certo Simei, di cui “non potevi ricordare la faccia perché sembrava quella di qualcuno che non era lui”. Il giornale che deve venir fuori dal progetto, ma che forse non uscirà mai, è finanziato da un Commendatore che vuole entrare nei salotti buoni dell’alta finanza con un quotidiano disposto a “dire la verità su tutto” e così ricattare quelli che, per mettere a tacere eventuali scandali, chiederanno al Commendatore di rinunciare all’idea in cambio del permesso (e di un lauto scambio di partecipazioni azionarie) di entrare nel salotto buono. I colleghi di Colonna sono Maia, una giornalista colta e intelligente ma presentata come un’arguta ragazza che non ne azzecca una in redazione, Braggadocio, un paranoico ossessivo che sta conducendo una ricerca sugli ultimi giorni di Mussolini e sulla possibilità che ci sia stato un doppio al suo posto che ancora infesta l’immaginario di una certa Italia, Lucidi, un mezzo infiltrato, Palatino, un correttore di bozze il cui lavoro non era più necessario in un mondo dove si sbaglia l’ortografia e si è felici così, e Cambria che passava le notti nei commissariati per beccare la notizia fresca e che ora è approdato al Domani.

Attraverso la parodia del “vero” giornalismo e della sua etica (parodia fino a un certo punto perché le riunioni del libro sembrano proprio come quelle a cui mi è capitato di partecipare), Eco offre un quadro decisamente feroce degli ultimi venticinque anni dell’Italia, attraverso la strategia narrativa dello spostamento indietro del racconto e con la creazione di un’assenza storica (dal 1992 al 2015 sono avvenute molte cose eppure il paese è pure peggio di quanto già non fosse allora). Ambientandolo a Milano nel 1992, infatti, subito dopo lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio e con l’inchiesta di Mani pulite alle porte, non solo riesce a riposizionare il punto di vista in modo da mettere in luce le magagne mediatiche, culturali e, come sempre, implicitamente ed esplicitamente politiche dell’Italia, ma, così facendo, innesca anche un gioco di riconoscimento con il lettore e con la sua memoria storica recente (o quasi recente, a partire dal ‘45).

L’aspetto interessante del libro è duplice: da una parte si tratta di un esperimento ben riuscito in cui l’autore costruisce un romanzo impiegando i criteri dei generi che vengono a loro volta citati nella trama con uno stile elegante e la lingua limpida di un italiano colto che non risulta mai affettato. Una sfida vinta facilmente perché Eco è un conoscitore raffinato sia della sua lingua che degli stili impiegati nella letteratura (alta, media o bassa che sia) e riesce a prendere in giro proprio chi di questa lingua e di questi stili abusa con la coscienza sporca o semplicemente, senza coscienza alcuna. I piccoli e grandi stratagemmi dei vari generi, noir, romanzo storico, storia sentimentale, commedia all’italiana (perché in alcune scene si citano di nascosto anche i vizi italiani così bene esposti nel cinema) si tessono con leggerezza e abilità e con economia di mezzi, tutte caratteristiche applicate ormai come in una catena di montaggio ai libri di consumo pubblicati oggi ma di cui Eco satireggia l’uso dell’industria culturale nel momento in cui li impiega per il suo scopo. Memorabili sono le riunioni di redazione per decidere il linguaggio da usare e le parole da escludere nei pezzi di Domani, preferendo così una lingua sciatta, falsificata, mistificata perché riflesso di una cattiva coscienza spacciata per giornalismo onesto.

L’altro aspetto interessante è la scelta dei protagonisti che si autodefiniscono dei perdenti. Eco li va a pescare proprio tra quei tipi di cui è piena l’industria culturale e che oggi possiamo definire proletariato intellettuale (viene in mente La vita agra di Bianciardi): ghost writer, redattori al servizio di un giornale di quart’ordine, persone che sbarcano il lunario producendo quotidianamente un lavoro intellettuale bistrattato, che essi stessi disprezzano, e che viene consumato distrattamente come un panino qualsiasi in mezzo alla strada, dallo schermo di un telefonino, tra una fermata d’autobus e l’attesa in fila alle poste del nostro mondo reale.

Numero zero poggia su una distanza che contiene un’amarezza implicita, quella stessa che è alla base della satira come genere, (l’amarezza, il distacco e il disincanto sono parti integranti della satira autentica) e si mostra partecipe soltanto mettendo in bocca ai suoi personaggi favoriti (Maia e Colonna) il senso di una sconfitta culturale che ha colpito tutti: il paese, la politica, la speranza, la decenza. Nemmeno l’esilio o la fuga possono dare sollievo perché, nonostante gli scandali, la corruzione e l’indecenza siano in certi paesi alla luce del sole e quindi più riconoscibili e trasparenti (anche in questo le considerazioni di Maia danno voce a un cinismo che è l’ultima risorsa dell’amarezza generale), e quindi in qualche modo più accettabili, Colonna smaschera anche l’ultima illusione, quella appunto del cinismo che preferisce guardare alle cose e non nascondere la polvere sotto il tappeto. Quando Maia gli propone di andarsene via in un paese del Sud America dove “si sa chi appartiene al cartello della droga, chi dirige le bande rivoluzionarie, ti siedi al ristorante, passa un gruppo di amici e ti presentano un tale come il boss del contrabbando d’armi, tutto bello, rasato e profumato […] Sono paesi senza misteri, tutto avviene alla luce del sole, la polizia pretende di essere corrotta per regolamento, governo e malavita coincidono per dettato costituzionale, le banche campano sul riciclo di denaro sporco.”

Colonna risponde:

“Non stai considerando che piano piano anche l’Italia sta diventando come i paesi di sogno in cui vuoi esiliarti. … Ci stiamo abituando a perdere il senso della vergogna. Non hai visto come tutti gli intervistati di stasera raccontavano tranquillamente che avevano fatto questo o quello, e quasi si aspettavano una medaglia? Niente più chiaroscuri in barocco, cose da Controriforma, i traffici emergeranno en plein air, come se li dipingessero gli impressionisti: corruzione autorizzata, il mafioso ufficialmente in parlamento, l’evasore al governo, e in galera solo i ladri di pollame albanesi. Le persone per bene continueranno a votare per i furfanti perché non crederanno alla BBC o on vedranno programmi come quelli di stasera perché saranno incollati a qualcosa di più trash, forse finiranno in prima serata le televendite di Vimercate, se ammazzeranno qualcuno di importante, funerali di stato. Basta solo aspettare: una volta diventato definitivamente terzo mondo, il nostro paese sarà pienamente vivibile come se tutto fosse Copacabana la donna è regina la donna è sovrana”. […] La vita è sopportabile, basta accontentarsi.

Ecco l’ironia: perché in realtà la vita è (in)sopportabile. Ma basta accontentarsi. O no?


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