Poesia senza fine, l’ultimo film di Jodorowsky (presentato a Cannes nel 2016 e visto a Roma solo un anno dopo al cine Detour) è un miracolo visivo emozionante e gioioso quasi unico nel panorama del cinema contemporaneo. Ancora più miracoloso è il basso budget con cui il film è stato fatto: 300 mila dollari circa raccolti con il crowdfounding e la collaborazione di amici e parenti che rendono il lavoro ancora più incredibile se si pensa all’inventiva, alla creatività e al calore che è in grado di trasmettere. Le musiche sono di Adan Jodorowsky, figlio del regista (che nel film interpreta il giovane Alejandro), il padre del giovane Alejandro è interpretato dall’altro figlio del regista, Brontis Jodorowsky; gran bella fotografia di Christopher Doyle (se avete visto Hero e In the Mood for Love, ricorderete…).
Jodorowsky è un surrealista dell’ultima ora e anche un grande poeta dell’immaginazione che a ottantasette anni riesce a trasmettere un entusiasmo che ti aspetteresti forse in un giovane ancora a digiuno del cinismo che contamina la vita oggi. Per Jodorowsky non c’è fine alla poesia che la vita può riservare e alla possibilità di rappresentarla attraverso il connubio tra immagine e parola in cui confluiscono movimenti scenici, suoni, personaggi e situazioni che sono teatrali e letterarie, pittoriche e poetiche, evocative di una memoria inarrestabile e di un’energia che trasmette un grande amore per la vita.
Diretta continuazione de La danza della realtà uscito nel 2013 e primo capitolo di una serie di film autobiografici, Poesia sin fin racconta l’apprendistato artistico di uno Jodorowsky adolescente fino al momento in cui, ormai giovane adulto, lascia il Cile per andare a Parigi dove incontrerà Breton. Il film è ambientato in una Santiago ricostruita seguendo il filo della memoria del Barrìo in cui viveva il giovane Alejandro negli anni Trenta (Jodorowsky è nato nel 1929): il set si anima di fronte allo spettatore che guarda i fondali alzarsi direttamente sulla scena, e i personaggi animarsi sullo sfondo in un brulichio di situazioni da quartiere popolare. Il padre di Alejandro è un uomo rigoroso e opprimente, poco affettuoso con il figlio, al quale impone di lavorare nel negozio che possiede e sogna per lui un futuro da medico. La madre, invece, lo vorrebbe violinista. Intorno c’è aria di dittatura e Jodorowsky la rappresenta sullo schermo come un circo beffardo:

Il giovane, però, scopre la poesia di Garcia Lorca, si ribella contro l’orribile famiglia (nonna, zia e tutta l’agra compagnia che ne fa parte) e, aiutato dal cugino che gli confessa la sua omosessualità, viene introdotto in un circolo di artisti che vivono in una casa comune. Il giovane Alejandro scopre la libertà dei ballerini simbiotici, il polipittore, il tenore in altalena, il pianista totale e comincia il suo percorso di artista in mezzo a un’umanità anarchica e solidale, calorosa e protettiva.

Ricevuta la profezia su un incontro con una “mariposa que arde”, incontra una poetessa capricciosa e volitiva di nome Stella Diaz (interpretata da Pamela FLores, che recita anche la parte della madre di Alejandro), al Café Iris, un locale frequentato da avventori sonnacchiosi e servito da camerieri ottuagenari in frac e cilindro che si muovono lentissimi tra i tavoli. La donna, una virago dai folti capelli di fuoco, passionale e violenta, si offre al giovane Alejandro (in una scena insolita e molto bella) bendandolo prima e offrendogli il corpo di fronte a uno specchio, ricordandogli che Orfeo non deve guardare la sua donna togliersi i vestiti.

La donna decide così di amarlo suggellando il patto con il gesto di tenerlo per l’inguine ogni volta che cammineranno insieme per strada – un gesto bizzarro che ha un chiaro valore simbolico. Alejandro, novello Orfeo, la ama. Un giorno i due, trovato il Café Iris chiuso per lutto, vanno a bere in un locale malfamato e Alejandro viene assalito dopo aver cercato candidamente di domare un branco di gaglioffi con una poesia. Stella lo difende picchiando selvaggiamente i gaglioffi e una volta uscita scoppia in una risata liberatoria e potente. Ma il giovane Alejandro, sentendosi soverchiato, decide di lasciarla per mettere di nuovo insieme i pezzi di se stesso, e si chiude a creare marionette che venderà a una bellissima donna bionda che è l’amante di un vecchio generoso. L’uomo, in partenza per Parigi, lascia ad Alejandro il suo studio come atto di generosità, mentre la donna compra una marionetta che le assomiglia. Alejandro è felice e celebra una festa con gli amici poeti e gli artisti che ha incontrato. Conosce quello che diventerà il suo amico e insieme intraprendono una passeggiata in linea retta lungo la città (una scena divertente che fa pensare alla follia poetica di un Bunuel o di un Dalì quando, vestiti da suore, salivano sugli autobus per palpeggiare gli uomini) che è anche un atto politico contro la linea retta inaugurata dal dittatore Ibanez per combattere la corruzione.
Con l’amico poeta, Alejandro inaugura il momento surrealista e provocatore della sua vita di artista, quando i due, invitati a una lettura pubblica delle proprie poesie, cominciano a lanciare uova e pezzi di carne cruda al pubblico in un happening folle e provocatorio che solleva un putiferio inaspettato.
Ci sono momenti gioiosi e momenti commoventi in questo film rutilante che è una danza della memoria, come quando Alejandro riceve la lettura dei tarocchi da Maria Lefevre (Carolyn Carson) e apprende il suo destino di artista. Jodorowsky ripercorre le tappe della sua vita, inframmezzando questo film che è allo stesso tempo teatro, happening, operetta, opera poetica, con scene collettive che sono un inno alla vita e alla sua caducità ma anche alla possibilità di una continua rinascita (la farfalla ne è simbolo, ed è l’immagine evocata nella profezia che Alejandro giovane riceve): una festa che forse è un carnevale o forse una danza collettiva, raduna centinaia di persone mascherate da scheletri e altre centinaia mascherate da diavoli rossi che danzano per la strada mescolandosi in una panoplia di colori simbolici che rimandano anche alla carta che Alejandro ha visto estrarre dal mazzo dei tarocchi: il diavolo, carta ambivalente dalle tante energie che può rimandare all’erotismo e alla sensualità. La festa dei diavoli è un controcanto gioioso a un’altra scena collettiva che racconta l’ascesa di Ibanez al potere, visto come un neo-nazista con tanto di svastiche e un codazzo di persone dal volto coperto di maschere inespressive. In un’altra scena significativa, il giovane Alejandro, vestito da mimo pierrot (Jodorowsky ha lavorato con Marcel Marceau e la scena ripercorre un altro passaggio importante della sua vita) incontra il suo alter ego vecchio (interpretato dal regista che parla a se stesso e al pubblico) che fa una dichiarazione di poetica ricordando che in vecchiaia “si diventa farfalle” al suo io più giovane vestito da Icaro/Pierrot. Alejandro decide di partire e sulla banchina in attesa della barca che lo porterà a Parigi, incontra per l’ultima volta il padre che cerca di dissuaderlo parandogli innanzi lo spettro della povertà a cui andrà incontro in un paese straniero in cui non sa nemmeno la lingua. In un gesto simbolico in cui rade i capelli al padre, rendendolo fragile e umano, Alejandro gli confessa quanto il mancato affetto del padre sia stato utile a fargli amare ancora di più e a fargli capire come imparare ad amare. I legami familiari devono essere recisi per trovare il proprio io interiore.
Non c’è inquadratura, scena o sequenza che non contenga un qualche elemento simbolico che fa riferimento alla biografia del regista o al percorso intellettuale e poetico da lui intrapreso. C’è la poesia di Neruda, il sangue, il sesso, la nudità, il metatesto della rappresentazione nella rappresentazione, la simbologia dei Tarocchi (tra l’altro usati per condurre delle letture personalizzate a tutti coloro che avevano finanziato il film tramite kickstarter), il mito di Orfeo, l’immagine di Icaro, la festa come evento collettivo e liberatorio, il circo e la performance estemporanea, il costume come maschera e il corpo svelato dell’attore, la paternità e la maternità di cui disfarsi per diventare altro, e l’amore che tutto questo ispira.

Tra le scene più belle: Alejandro ancora adolescente che cerca di abbattere a colpi d’ascia l’albero nel giardino dell’orribile zia (un gesto che allude all’albero genealogico familiare); la scena d’amore con la poetessa Stella mentre Alejandro arruffa i suoi capelli di fuoco. La mia preferita è quella dell’addio struggente delle due marionette prima che Alejandro riceva in dono lo studio dal vecchio.
Una gioia per gli occhi e una dichiarazione d’amore per la vita, è questo il film di Jodorowsky, o se si vuole una scatola cinese di riferimenti simbolici. Il regista pittore, disegnatore, lettore di Tarocchi e poeta è l’ultimo dei surrealisti e forse l’ultimo dei grandi vecchi visionari immaginifici con cui possiamo ancora ridere e commuoverci.