Auguri per la tua morte di Christopher B. Landon

Vado al cinema per vedere The Place ma i biglietti sono quasi esauriti e la sala ancora quasi vuota dove proiettano Auguri per la tua morte mi sembra la scelta migliore per passare un sabato sera post adolescenziale fuori tempo massimo. Non voglio sapere niente della trama, anche se trapela uno slogan: Groundhog day meets Scream, che l’horror sia servito (in realtà è definito come uno slasher movie); mi lascio guidare dal caso come una surfista che non vede il mare da molto tempo (il mare, in questo caso, è il film). Entro in sala, mi guardo intorno: della ventina di persone che sono già sedute, pochissime hanno superato la post adolescenza o sono entrate nell’età adulta da un pezzo. Premetto che l’horror è un genere che frequento da quando avevo quattro anni e che, con alti e bassi, ho continuato a guardare con un certo interesse “politico”, con un picco negli anni Novanta, quando si scriveva di postmoderno. (Nel post successivo cercherò di fare un elenco sragionato sui migliori horror movie che ho visto). Tempo venti minuti, la solida ridda di pubblicità, e la sala si riempie di gremlins di età compresa tra 10 e 16 anni, tutti rumorosissimi, muniti di cellulare e di enormi bicchieri di pop corn, bottigliette di coca cola, occhiali e felpe. I più piccini, senza accompagnamento, prendono posto, cercando di sedersi a grappoli. La scena mi diverte e mi riporta all’infanzia, quando, con mio padre andavamo in un cinema chiamato Splendor a guardare film come L’isola del Dottor Moreau di Don Taylor o vecchie retrospettive di Dracula e L’uomo lupo, con Lon Chaney (fantastico, detto per inciso). A film iniziato, altri gremlins arrivano in sala, eccitatissimi i maschi, più scettiche le ragazze che si siedono accanto ai rispettivi fidanzati sussurrando cose del tipo “ma farà paura?”. Me lo auguro, penso io, sperando in realtà un po’ ipocritamente, e con una certa nostalgia molto anni novanta che il film sia divertente e intelligente magari come Scream anche se non pretendo troppo, basta che non mi faccia rivoltare lo stomaco e non sia troppo gore, ossia iperviolentemente idiota. Mi accontento di un horror simpatico che mi faccia fare qualche sdolzo sulla poltrona, che non abbia protagonisti completamente idioti come spesso capita nei film di questo tipo, facendomi scoprire magari una buona sceneggiatura e qualche incursione meta testuale, che non guasta mai quando si tratta di horror. Ma già dopo cinque minuti capisco che si tratta di un film molto più intelligente e strutturato di quanto non ci si aspetti.

Nella prima scena Tree, la protagonista, bionda, egocentrica e auto consapevole della sua assertività un po’ irritante, si sveglia nella stanza di un dormitorio maschile di un college e comincia a fare la stronza autentica con il timido ragazzetto che l’ha ospitata, tra l’altro gentile, disponibile ed estremamente a modo. Lei lo tratta malissimo, così come fanno le ragazze con quelli che, con un termine odioso tanto in voga oggi, appaiono degli “sfigati”. Lui è talmente carino e spiazzato da non avere nemmeno la forza di risponderle per le rime, perché tra l’altro è così politicamente corretto e comprensivo con la tipa, da sembrare quasi un gentiluomo d’altri tempi (non abbiamo fatto niente, le dice, perché eri ubriaca) cosa che a lei suscita una reazione ancora più esasperata. Ne ho conosciute tante di americane così, giovani e meno giovani, e posso assicurarvi che la scena è davvero ben fatta.

Attraversando il campus, Tree si imbatte in una serie di scene di ordinaria quotidianità: ragazzi seduti sul prato con i libri, un capannello di maschi che parlano tra loro, i banchetti con le maschere delle mascotte, l’irrigazione del prato che parte – non sono dettagli banali perché torneranno in parecchie scene. Lei, vestita ancora con la canotta di paiettes, i leggings e le scarpe rosse (ah, le scarpe rosse pare che dal Mago di Oz non facciano che ossessionare i registi americani) incontra un tipo che la tampina e, ovviamente, lei lo tratta malissimo, minando la sua sicurezza virile con una battuta che avrebbe massacrato pure Weinstein. In sala cominciano i commenti “che troia!”, “ammazza che stronza, questa!”, “bastarda….”. Eh sì. Effettivamente la ragazza è abbastanza insopportabile, per non parlare delle compagne di associazione con cui inanella una serie di botta e risposta sulle conseguenze della notte brava e sulla necessità di darsi una regolata perché non si può essere delle vere Alpha Beta e vattelappesca se non si ha contezza dei rischi che si corrono a ubriacarsi e a fare sesso non protetto, se non si partecipa puntuali alle riunioni, eccetera eccetera – la vita da college americano con i suoi luoghi comuni e i suoi stereotipi si dispiega come un prologo per quello che accadrà successivamente. Invitata a una festa tutta alcool, marijuana e balli in uno dei caseggiati del college, Tree viene seguita dalla macchina da presa al buio (!) mentre tutta agghindata e consapevole di se stessa se ne va a piedi alla festa, passa sotto un ponticello dove trova una torta con le candeline e, attratta dallo strano oggetto, viene raggiunta da un tipo con una maschera (si veda foto)  che la fa fuori a colpi di coltello in pieno stile “Scream incontra Funny Games”.  Applausi in sala.

L’atmosfera si fa interessante. I gremlins si agitano tifando per l’assassino e inneggiando alla morte dell’antipaticona come se stessero tifando a una partita rionale. Per una generazione alla quale il concetto di Nemesi deve sembrare una marca di scarpe vendute su Amazon o il brand di una pistola giocattolo, la scena della bionda antipatica e sgradevole, sicura di sé e dell’ambiente a cui appartiene, che viene prima terrorizzata e poi ammazzata con il coltellaccio, al buio, sotto un ponticello solitario, da un assassino in pantaloni neri e felpa col cappuccio, mascherato à la Scream ma più grottesco ancora perché sembra un bambolotto, è la risposta migliore al bisogno di punizione del personaggio, colpevole di aver peccato di hybris e quindi meritevole di morte.

Happy Death Day
La maschera è stata disegnata dallo stesso che ha fatto quella di Scream Tony Gardner

Mi godo l’evento con occhio antropologico e mi sprofondo nella poltrona divertita perché una reazione del pubblico in sala così vibrante e coinvolta (e non sono ironica) non la vedevo da quando, ormai diversi anni fa, uscì Avatar ad Amsterdam e vidi il pubblico applaudire alla disfatta degli umani sul pianeta azzurro (era in corso la Guerra del Golfo n. 2 e la reazione al film era in qualche modo più che comprensibile). In Auguri per la tua morte, la protagonista rivive il giorno del suo compleanno e della sua morte, più e più volte, un po’ come capita a Bill Murray in Groundhog Day (Ricomincio da capo). Tree comincia con il mostrarsi antipatica, scostante, verbalmente aggressiva e a tratti spiacevole (in realtà cercando di attenersi alla parte della ragazza alfa per assumere un ruolo dominante nel contesto del college in cui studia) nell’arco di una giornata in cui: si sveglia nella stanza di un ragazzo con cui pare abbia passato la notte, attraversa il campus e incontra uno dei suoi spasimanti che tratta malissimo, torna al dormitorio delle ragazze, ha uno scambio con l’antipaticissima presidentessa dell’associazione, una sua coetanea querula e piena di sé, parla con la sua compagna di stanza che studia medicina e le regala un mini cupcake che Tree butta nel cestino, si prepara per andare alla lezione del professore con cui ha una storia clandestina, si prepara per andare alla festa e poi viene ammazzata dal misterioso assassino con la maschera. Solo che ogni volta si sveglia per ricominciare daccapo ossia rivivere ogni volta la stessa giornata in un loop temporale di cui ha memoria ma che non riesce a modificare perché finisce sempre ammazzata. Come nel film con Bill Murray* anche Tree è molto antipatica all’inizio ma la sua antipatia è la facciata esteriore della personalità egocentrica femminile tipicamente americana; il personaggio però è destinato a modificarsi loop dopo loop, e ogni volta che si risveglia la situazione si ripropone con una serie di varianti assai godibili e divertenti. Una volta che capisce che così le cose non vanno, che c’è qualche problema, che deve scoprire chi la vuole morta il film si fa sempre migliore e la componente horror lascia più spazio a quella thriller (c’è pure una citazione scenica da Vertigo di Hitchcock). Jessica Rothe, che fa Tree, è un’attrice notevole che riesce a impersonare benissimo le sfumature della storia e a modulare i cambi di prospettiva offrendoci un personaggio che, in perfetto stile americano, alla fine deve risolvere da sola il suo problema e sciogliere tutti i nodi.

Happy Death Day 3

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Evoluzione della protagonista nell’arco della narrazione in loop

Tutto il film, lungi dall’essere un horror vero e proprio e attingendo all’immaginario di Scream (col quale condivide molto ma meno di quanto si pensi) è incentrato in realtà sull’evoluzione della protagonista che diventa non solo migliore e più simpatica, attirandosi la solidarietà degli spettatori, ma anche capace di capire chi le sta intorno. In sostanza, è un film sulla consapevolezza, sulla necessità di guardarsi dentro, sull’eterno ritorno di un sé che abbandona il modo in cui cerchiamo di essere visti dai nostri simili antropologici (le compagne dell’associazione, lo stereotipo della tough girl tanto in voga nella upper-middle class americana) per abbracciare un sé finalmente più maturo, più aperto e, in sostanza, più democratico e inclusivo. Alla fine Tree taglia i rami secchi della sua vita (il fatto che il nome in italiano significhi “albero” ha forse provocato il mio gioco di parole interlinguistico), manda a quel paese il professore che è un furbetto squallido e meschino, fa i conti con suo padre e con se stessa, smette di trattare Carter come un imbecille (cosa che ovviamente non è, proponendosi così anche lui come un’evoluzione del maschio medio americano, finalmente) e capisce perché il suo compleanno è in loop. Ovviamente la scoperta è molto ben congegnata e il semina raccogli della sceneggiatura avrà depistato quasi tutti. Insomma, si sopravvive alla propria morte solo se si capisce qual è il punto di svolta della propria vita, se si prende coscienza dell’importanza di non fissarsi in un ruolo ma di evolvere e diventare migliori per vivere in una società che può includere tutti e ammettere che certe stronze sono proprio tali.

Alla fine del film, con l’immancabile bacio e scioglimento relativo del loop, la sala si è illuminata non delle luci, ma di un applauso scrosciante in tutta la sala, proprio dagli stessi gremlins con cui ho condiviso queste due ore di puro divertimento, che si erano tanto imbufaliti per l’antipatia di Tree e che finalmente l’hanno vista cambiare nell’eroina che sentivano più appropriata e più autentica, capace di abbandonare il linguaggio dello stereotipo, per abbracciare una personalità più propriamente giusta. Perché Tree fa la cosa giusta: si evolve, prende coscienza che il suo gruppo è pieno di odiose borghesotte piene di sé, capisce deve prendere in mano la sua vita, che le persone si guardano per quello che sono e non per quello che sembrano o pretendono di essere e prende persino coscienza dell’importanza della politica ambientalista (scena molto importante, quando firma la petizione della militante nel campus, se pensiamo che l’attuale presidente Usa è anti ambientalista). Il vociare in sala, le risate compiaciute, gli “evviva evviva” gridati con gratitudine alla fine, mi hanno offerto un quadro che nemmeno saggi di antropologia sociale o psicologia dell’adolescenza avrebbero potuto illustrare meglio. Perché ai giovani spettatori di questo film curato, girato, e recitato bene, annunciato in rete prima che sulla stampa vecchia e stantia, la protagonista tosta, consapevole, volitiva, ha trasmesso una bella energia ed è, in fin dei conti, quella che tutte vorrebbero essere. Un segno che vedo come un’evoluzione dei tempi. C’è bisogno di ragazze toste, di ragazze consapevoli, e soprattutto di film che scardinino lo stereotipo che vede la donna solo come vittima o puttanella. Tree è figlia delle tante eroine tough e indomite che da Kill Bill in poi ci piacciono tanto; c’è bisogno di ragazze intelligenti, argute, (alla faccia delle autentiche falsone che popolano i nostri piccoli schermi TV e pontificano sul ruolo che la donna dovrebbe assumere per fare carriera con la falsa coscienza di chi è solo una raccomandata).

Io me ne sono uscita sorridendo, scuotendo un po’ la testa all’incredulità degli anni che passano, al mio sempiterno amore per il cinema di genere, alle sceneggiature ben congegnate, alle messe in scena divertenti e alla sorpresa di constatare che, nonostante la rozza, insopportabile patina di cretineria che avvolge la nostra vita disegnata dai media (TV e giornali di casa nostra in particolare), è possibile scovare più intelligenza in un piccolo film di genere (costato 4,8 milioni di $ che ne ha incassati oltre 100) di quanta non se ne trovi in certe squallide esemplari di falsa coscienza femminile che costellano i nostri schermi tv – pretenziose nel guardare in macchina, capaci di distorcere le cose ed egocentriche come le compagne stronze della protagonista del film che, abbandonato il trucco composto, la figuretta ben vestita e l’appartenenza di classe, scende in campo come un’eroina combattente – sicuramente un ruolo che si addice alla maggior parte delle donne (e degli uomini) ogni volta che, come in un loop, devono rivivere l’incubo quotidiano di trovarsi in mezzo all’imbecillità imperante degli stereotipi che le circondano.

Nota tecnica finale: il regista Christopher Landon ha scritto anche Paranormal Activity, la casa di produzione è la Blumhouse (Whiplash di Damien Chazelle, Get Out di Jordan Peele e Split di Night Shyamalan), specializzata in film che costano poco e incassano tanto, tantissimo per il più improbabile dei motivi: hanno qualcosa da dire.

* Rifatto in versione italiana con il titolo E’ già ieri con Antonio Albanese, dove si mantiene sostanzialmente la stessa dinamica narrativa con il personaggio che a mano a mano cerca di migliorarsi quando scopre di essere intrappolato in un loop spazio-temporale.

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