Si avvicina la fine di novembre e soffia un vento gelido. Le foglie cadono arrossate e imbiondite dai bagliori del sole autunnale e con quest’atmosfera non c’è niente di meglio che fare un viaggio molto lontano rileggendo le storie giapponesi di Lafcadio Hearn alias Koizumi Yakumo, viaggiatore, scrittore, traduttore e conoscitore profondo della cultura giapponese (e di molto altro). Una personalità unica che ebbe una vita complicata: nato a Leucade su un’isola del Mare Ionio, si trasferì a Dublino per poi essere mandato ancora bambino in Francia e poi ancora a Durham poi a Londra e, trascorsa una vita da fame, lascia l’Inghilterra per trasferirsi via New York a Cincinnati dove, a ventidue anni scopre che scrivere è la sua vocazione. Comincia a fare il redattore e il giornalista e ottiene una certa fama con la pubblicazione di un pezzo in prima pagina sul resoconto di un delitto The Tanyard Murder che fa scalpore. Continua a scrivere pezzi forti, dedicati al macabro e al violento, si trasferisce a New Orleans dove resta dieci anni; va a Manhattan e poi in Martinica poi torna in America a Filadelfia, si sposta ancora a New York e nel 1890 parte per il Giappone, dove vi resterà per tutta la vita: insegna inglese all’università di Tokyo e conduce una vita di ricerca, meditazione, scoperta linguistica e filologica.
Lafcadio Hearn ci ha lasciato diversi scritti sul Giappone, circa dodici, tra i quali Glimpses of Unfamiliar Japan, 1894; Out of the East, 1895; Kokoro, 1896; Gleanings in Buddha Fields, 1897 pubblicati da Houghton Mifflin; Exotics and Retrospectives, 1898; In Ghostly Japan, 1899; Shadowings, 1900; A Japanese Miscellany, 1901 per Little Brown & Co.; Kottō, 1992, Macmillan; Kwaidan 1904 Houghton Mifflin; Japan, 1904 MacMillan; The Romance of the Milky way, Houghton Mifflin, 1905.
La bella edizione italiana di Theoria, con l’introduzione di Ottavio Fatica presenta 39 racconti più o meno brevi, a volte inquietanti, a volte malinconici, spesso terrificanti: spettri, teste piccate dalla katana, samurai, vedute di regni incantati, folletti maligni dalla forma di animali, fanciulle innamorate che si sdoppiano, granchi che recano sul guscio volti umani e sono ritenuti gli spiriti dei guerrieri morti in una feroce battaglia; parabole sulla morte e sull’ineffabile della vita; interrogativi zen. Letti insieme, tutti i racconti compongono una fantasmagoria (è proprio il caso di dirlo!) di immagini in cui paura, ironia, orrore, macabro e mistero, fantastico e meraviglioso si intrecciano per restituire un mondo lontano e vicino allo stesso tempo. C’è la storia di un wakatō che vede la faccia di un fantasma in una tazza di tè, inghiotte la bevanda e reagisce alla provocazione; un virtuoso suonatore cieco di biwa che viene tormentato dai fantasmi dei guerrieri che agli occhi dei vivi si presentano come Oni-bi, fuochi fatui; i fantasmi senza volto in un bosco che tormentano un viandante; la sposa innamorata che si sdoppia per non abbandonare la casa familiare; il fantolino che parla come un adulto ricordando le colpe al padre; la donna abbandonata che diventa un cadavere terrificante; l’uomo condannato a morte che promette vendetta, scambi di persone a opera del Dio-Peste, la vendetta di una moglie sulla giovane donna che prenderà il suo posto e leggende millenarie di regni incantati, viaggi nel tempo, sogni mirabolanti che confinano con il meraviglioso.
Vendetta, morte, dispetto, sdoppiamento, e puro terrore ma anche riconciliazione e tormento animano queste storie. Grazie allo strabiliante lavoro di Hearn che dedicò i suoi anni di studio in Giappone ad ascoltare, documentare, riascoltare, ricomporre e riscrivere le storie per offrircele come un viaggio nell’immaginario popolare e culturale dell’Estremo Oriente esse ci appaiono strane eppure riconoscibili nei motivi e nei temi. Grazie al suo lavoro, i lettori occidentali hanno avuto una chiave di accesso a un mondo popolato di figure che potrebbero essere fuoriuscite dalla mente immaginifica di un disegnatore di tavole su carta di riso o di cotone, con la loro qualità visiva, quasi pittorica e il loro carattere straniante, evanescente proprio come le ombre che si muovono dietro un paravento. Molti dei temi sono presenti nel teatro Kabuki e fanno parte di una tradizione millenaria. Altri sono leggende narrate più volte. Lontano e vicino appare il Giappone del fantastico e del prodigioso, dell’insolito e dell’orrorifico. Lontano perché a volte cerchiamo di ricondurre queste storie al nostro immaginario del fantastico e proprio quando sembrano avvicinarvisi, se ne discostano per interrompersi o lasciare un sospeso, un interrogativo. Altre attingono a una specie di immaginario collettivo in cui la morte assume aspetti e conseguenze che appaiono comuni anche all’Occidente, come gli spiriti maligni, o i fuochi fatui che poi sono i morti dei guerrieri come in “Mimi-nashi-Höïshi”: proiezione di un senso di colpa o semplicemente dell’ingiustizia subita in vita.

C’è un carattere tutto speciale nell’orrore suscitato dai fantasmi giapponesi, un orrore che oggi ci è più “familiare” grazie al cinema e alla rivisitazione di alcuni motivi (nel senso in cui lo indica Propp nel suo Morfologia della fiaba) caratteristici dei racconti di fantasmi cattivi (in giapponese, il termine è onryō per definire un tipo di Yūrei, termine più generale con il quale si indicano gli spiriti – per una retrospettiva completa dei fantasmi in Giappone si veda qui). “Ing-wa banashi”, è un esempio di questo tipo, che su una scala di terrore da uno a dieci metterei a sette: letteralmente è una storia di ingwa che nel buddismo giapponese indica un karma maligno, ossia le conseguenze perniciose di errori commessi in uno stadio anteriore di esistenza. Dice la nota di Hearn che il titolo del brano trae migliore spiegazione dall’insegnamento buddista stando al quale i morti hanno il potere di nuocere ai vivi solo in conseguenza di cattive azioni commesse dalle loro vittime in una vita precedente. “Ing-wa banashi” fa parte di quel gruppo di racconti in cui includerei anche “Una promessa infranta” e “Il cavalcacadaveri”, nei quali il fantasma, o spettro che sia, si manifesta vestita di bianco, i lunghi capelli neri copiosamente riversi di fronte al volto e dall’aria decisamente poco amichevole (chi ha visto The Grudge e Ringu sa di cosa parlo e la rappresentazione è debitrice agli stilemi scenici e di trucco usati dagli attori nel kabuki).
“Una promessa infranta” è il più terrificante, nella scala suggerita prima lo metterei a nove virgola sette, insieme a “Mujina”, personalmente quello che mi aveva spaventato di più la prima volta che lo lessi (più che altro perché inquieta il pensiero di cosa succederà al viandante, dopo quella conclusione). Il dieci lo prende decisamente “La leggenda di Yurei Daki” perché è spaventoso, terrificante e profondamente doloroso: un racconto densamente simbolico dalla struttura coesa e impeccabile, con un finale scioccante.
Qui sotto cito un passaggio da Una promessa infranta, racconto del terrore puro che consiglio di leggere nell’ora del Bue, ossia intorno alle due e mezzo del mattino quando gli spettri, nella tradizione nipponica, si manifestano di più:
[Siamo nella casa della giovane sposa di un Samurai al settimo giorno di matrimonio, l’uomo è in missione altrove; la donna è nella stanza da letto, sola] Verso l’Ora del Bue sentì nella notte, il suono di una campanella, come quelle dei pellegrini buddhisti; e si chiese quale pellegrino potesse mai attraversare il quartiere dei samurai a quell’ora. DI lì a poco, dopp una pausa, la campanella risuonò assai più vicina. Evidentemente il pellegrino si stava avvicinando alla casa, ma perché farlo dal retro, dove non c’era la strada? … All’improvviso i cani cominciarono a uggiolare e a ululare in modo insolito e orribile; e fu assalita da una paura simile a quella che prende nei sogni… […] Cercò di alzarsi pr svegliare qualcuno della servitù. Ma si accorse che non poteva sollevarsi, non poteva muoversi, non poteva chiamare… E più vicino, sempre più vicino si faceva lo scampanellio; e come ululavano i cani!…Poi, muovendosi con la levità di un’ombra, scivolò nella stanza una Donna, benché le porte fossero sprangate e i paraventi non si fossero mossi: una Donna avvolta nella veste sepolcrale, con in pugno una campanella da pellegrino. Avanzò priva di occhi […] i capelli sciolti le ricadevano sul viso. [Ombre giapponesi, traduzione di Ottavio Fatica, Theoria, Biblioteca di letteratura fantastica, 1992, p. 160]
Meno terrificante è “La fanciulla dello specchio” che fa parte del gruppo dei racconti con fantasmi meno arrabbiati e appartiene più all’ordine del magico e del meraviglioso (i cui caratteri potrebbero assomigliare per tono a quelli delle fiabe di magia della nostra tradizione). In questo racconto in particolare c’è un luogo iconico di ogni racconto di fantasmi che si rispetti: la casa che porta sfortuna (che belli i referenti universali!) nel cui giardino c’è un pozzo dal quale si vede il volto di una ragazza, che si farà presenza proprio come in Ringu ma con uno svolgimento ben diverso… Lo specchio, oggetto magico e veicolare ricompare come oggetto della memoria anche in un altro, breve racconto “Lo specchio di Matsuyama” che tra quelli dedicati alla morte, all’affetto e alla memoria è il più bello. In questo gruppo metterei pure “Jikininki” e “Di fronte alla corte suprema” dove il motivo dominante è la riconciliazione dei morti con i vivi.
Tra i racconti di leggende “Urashima” è bellissimo perché i motivi della scatola magica e dello sdoppiamento di realtà ci restituiscono un mondo animista in cui la morte è un passaggio o un sogno ineffabile che bisognerebbe accettare dimenticando il dolore della vita precedente.
E prima di lasciare la parola a uno di questi racconti “Hōrai”, che ho scelto dall’edizione in mio possesso, voglio accennare al gruppo di racconti di tipo favolistico, popolati da folletti più o meno malvagi e beffardi, a cui appartengono, tra gli altri, “Il ragazzo che disegnava gatti” e “Il ragno-folletto” o contenenti oggetti magici, come “Furisodé” o che alludono a separazioni dolorose come “Oshidori” e “La fonte della giovinezza”. Ovviamente la mia classificazione si basa su categorie occidentali un po’ influenzate da Propp.
Da questa classificazione sfuggono alcuni racconti, che definirei ineffabili, e dall’inequivocabile simbologia orientale che non cesserà mai di farci interrogare sul mondo misterioso e affabulatorio che Lafcadio Hearn ci ha regalato con le sue traduzioni. Appartengono all’ineffabile “L’anima di una peonia” e “La fanciulla del paravento” nei quali le figure femminili si fondono simbolicamente su superfici di carta, lo stesso materiale che imprigiona immagini e parole e ce le restituisce poi fantasmatiche e bellissime affinché le possiamo ricordare ogni volta che lo desideriamo come miraggi, visioni dell’intangibile, apparizioni di Horai.
L’edizione Theoria raccoglie i seguenti racconti: La storia di Mimi-nashi-Höïchi, Diplomazia, Rokuro-Kubi, Mujina, In una tazza di tè, La fonte della giovinezza, Urashima, Il sogno di Akinosuké, La storia di Chūgorō, La storia di Kogi il sacerdote,, Il ragazzo che disegnava gatti, La storia di Kwashin Koji, La fanciulla del paravento, La comprensione di Benten, Davanti alla corte suprema, Un interrogativo nei testi Zen, Il settimo figlio, Un karma passionale, Ingwa-banashi, Una promessa infranta, Il cavalca cadaveri, Jikininki, La fanciulla dello specchio, Furisodé, Il ragno-folletto, Oshidori, Yuki-Onna, La storia di Aoyagi, L’anima di una peonia, La storia di Umétsu Chūbei, La riconciliazione, Una promessa mantenuta, Sul ponte, La monaca del tempio di Amida, Tempo di colera, Hi-mawari, Hōrai, Lo specchio di Matsuyama.
HŌRAI
Celeste visione di profondità persa in altezza – mare e cielo commisti per entro la caligine lucente. È un giorno di primavera; l’ora mattutina.
Soltanto cielo e mare – un’unica enormità cerulea… In primo piano, increspature captano un lucore argenteo, bave di spuma fanno mulinelli. Ma appena un po’ più in là non si riscontra moto, né altro che non sia colore: dell’acqua il teporoso cilestrino si spande sino a trasfondersi nell’azzurrità dell’aria. Orizzonte non v’è: solo distanza che si libra in seno allo spazio – concavità infinita che s’infossa a te dinanzi e su di te s’inarca immensamente – intanto che il colore s’addensa con l’altezza. Ma lontano, in mezzo al blu, è sospesa una vaghissima visione di turrita reggia, dagli alti tetti curvi a mezzaluna, adombramento di splendore antico e strano, lumeggiata da un solo come la memoria lene.
… Questo mio è il tentativo di descrivere un kakémono – vale a dire un dipinto giapponese su seta, appeso alla parete della nicchia – che ha il titolo Shinkirō: significa “Miraggio”. Ma le parvenze del miraggio non lasciano dubbi. Sono quelli i portali lucidi di Hōrai, la città sacra; quelli i tetti lunati del Palazzo del Re Drago; e la loro foggia (pur tracciata da un pennello giapponese d’oggi) è quella delle opere cinesi, ventun secoli orsono…
Ecco quanto raccontano del sito in questione i testi cinesi dell’epoca:
In Hōrai non si dà morte né dolore; e neanche inverno. Ivi i fiori mai appassiscono, né mai mancano i frutti; e se un uomo assaggia di quei frutti anche una volta sola, non sentir mai più né fame né sete. Crescono in Hōrai le piante miracolose So-rin-shi, Riku-gō-aoi e Ban-kon-tō, che curano ogni sorta di malanno; vi cresce inoltre l’erba magica Yō-shin-shi, che i morti ridesta; erba magica irrorata da un’acqua fatata della quale basta un sorso a conferire eterna giovinezza. Il popolo di Hōrai mangia il riso in ciotole piccole, piccolissime; ma il riso mai non scema nelle ciotole – per quanto se ne ingurgiti – finché chi mangia non si senta sazio. E il popolo di Hōrai beve il vino in coppe piccole, piccolissime; ma nessuno ha modo di vuotarle – per quanto ci dia dentro a tracannare – finché non sopravviene il grato torpore dell’ebbrezza.
Questo e altro raccontan le leggende risalenti all’epoca della dinastia Shin. Ma che chi messo per iscritto tali leggende abbia mai visto Hōrai, sia pure un miraggio, non è credibile. Poiché una cosa certa: non esistono miracolosi frutti che a chi ne mangia diano sazietà perenne; né erbe magiche che i morti richiamino in vita; né fonti di acqua fatata; né ciotole giammai scevre di riso; né coppe mai di vino. No è vero che dolore e morte mai accedano in Hōrai; né che mai vi faccia inverno. L’inverno in quel di Hōrai è gelido; e allora i venti addentano il midollo; e immane è il coacervo di neve sui tetti de Re Drago.
Nondimeno, meravigliose cose sono in Hōrai; e di tutte la più meravigliosa non è menzionata in nessuno scrittore cinese. Mi riferisco all’atmosfera di Hōrai. È un’atmosfera questa che pertiene al luogo; e a cagione di ciò, la luce del sole a Hōrai è più bianca che ovunque altrove – lattea luce mai abbacinante – stupefacentemente tersa, e pur pastosa. Atmosfera che non attiene a questo nostro tempo umano: è di una antichità remota, remotissima, tanto che se provo a divinarla ne spauro; e non è mescolanza di azoto e ossigeno. Non è affatto composta d’aria, bensì di spirito – la sostanza di generazioni d’anime a quintilioni, circonfuse in un’unica grandiosa translucidità; anime di genti che pensavano in modo mai e poi mai simile al nostro. Sol che un mortale aspiri l’atmosfera e il sangue è corso dal palpito di quegli spiriti; i quali gli trasmutano nell’intimo i sensi – riplasmandone i concettivi Spazio e di Tempo – talché quegli vedrà soltanto come essi vedevano, e sentirà soltanto come essi sentivano, e penserà soltanto come essi pensavano. Soave come sonno è il trasmutar dei sensi; e Hōrai, percepita loro tramite, così può essere descritta:
Poiché in Hōrai non si ha cognizione del grande male, il cuore della gente non invecchia. E, per il fatto d’esser sempre giovani nel cuore, gli abitanti di Hōrai sorridono dalla nascita alla morte, tranne quando gli Dèi inviano il dolore in mezzo a loro; allora finché il dolore non va via sono i volti velati. Tutti in Hōrai si amano e si stimano a vicenda, quasi fossero membri di un’unica famiglia; e l’eloquio delle donne è come il canto degli uccelli, poiché come anime di uccelli son lievi i loro cuori; e le maniche ondeggianti delle fanciulle intente ai giochi dànno il battito attutito di ampie ali. In Hōrai non si tien nascosto nulla tranne l’afflizione, poiché non v’è ragione di vergogna; e nulla è sotto chiave, poiché non potrebbe esservi alcun furto; e di notte come di giorno non c’è chiavistello alle porte, poiché non si ha ragione di temere. E poiché gli abitanti di Hōrai soo esseri fatati – ancorché mortali – tutte le cose a Hōrai, salvo il Palazzo del Re Drago, sono piccole curiose strampalate; e il suo popolo fatato mangia davvero il riso in ciotole piccolissime e beve il vino in coppe ancor più piccole…
Molto di tal parvenza sarà da attribuire all’ispirazione di quell’atmosfera fantasmatica, ma non tutto. Dacché la malia ordinta dai morti altro non è che l’incanto di un Ideale, il fascino di una speranza antica; speranza che ha trovato in parte esaudimento in molti cuori, nella bellezza semplice di esistenze disinteressate, nella dolcezza della Donna…
Venti malvagi da Occidente soffiano su Hōrai; e la magica atmosfera, ahimé!, recede innanzi a loro. S’attarda ormai soltanto in lembi e strie, come le lunghe tumescenti strie che lasciano una scia attraverso i paesaggi dei pittori giapponesi. Sotto i lacerti di elfico vapore potrai sempre trovare Hōrai – ma non altrove… Rammenta che Hōrai è anche detta Shinkirō, che significa Miraggio: la Visione dell’Intangibile. E la Visione stinge – per non più riapparire fuorché nei dipinti e le poesie e i sogni…
(Traduzione: Ottavio Fatica, edizione Theoria, 1992, pp. 245-248)
Grazie, mi ha fatto davvero piacere rileggere di Lafcadio Hearn, che era davvero un fico. Una domanda: credi che la presenza così forte dei fantasmi nella cultura giapponese possa avere a che fare con la loro visione del mondo shintoista, vale a dire fondamentalmente animista?
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Penso di sì, anche se non sono così addentro alla cultura giapponese da poterlo confermare con certezza. Sicuramente i fantasmi della tradizione orale e teatrale giapponese sono parecchio spaventosi e si suddividono in diverse categorie, alcuni folletti sono legati a luoghi speciali, come si può vedere anche nei racconti di Hearn. Molto interessante è per esempio la presenza di draghi e animali fantastici a custodia di laghi o fiumi.
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