Enemy di Denis Villeneuve Il cinema e il suo doppio

Ogni volta che guardo film tratti da libri mi viene in mente una risposta plausibile alla domanda “A che serve la letteratura oggi?”, ah, sì, a ispirare storie inquietanti al cinema.  In realtà mi viene da pensare che il cinema sarebbe molto più povero senza la letteratura e senza una fonte di ispirazione narrativa. Lo sapevano bene Truffaut, Godard & Co. e pure Rivette (il cui Storia di Marie e Julien deve moltissimo ai fantasmi letterari che ispirano i due protagonisti per non parlare di Robbe-Grillet e Alain Resnais che con L’année dernière a Marienbad ci hanno offerto la versione del rapporto tra memoria, cinema, letteratura come mai prima) e lo sanno pure tanti scrittori che al cinema guardano come a una possibilità di estensione narrativa, un completamento che può fornire un’interpretazione ulteriore delle parole che hanno usato per costruire il loro intreccio. In fin dei conti il cinema riesce a creare ancora più confusione e a moltiplicare le possibilità interpretative quando rinuncia alle parole e lavora sulle immagini.

Saremo pure in pochi ad aver letto i libri da cui sono stati tratti dei film o ad accorgerci che tanti soggetti originali per inventiva, risultato, procedimento narrativo, sceneggiatura, sono ispirati dai loro doppi letterari. Non sarò certo qui a promuovere il primato di un medium sull’altro perché non ho mai detto di un film che fosse meglio del libro o di un libro che fosse meglio del film. Leggere un libro e guardare il film che ne è stato tratto sono per me due esperienze completamente diverse soprattutto per due motivi: la carnalità fantasmatica (bell’ossimoro, eh?!) del cinema la letteratura non può possederla (nel senso che non solo non ce l’ha ma non riesce nemmeno ad acchiapparla perché le parole sono fisse e ineffabili nella memoria verbale mentre le immagini del cinema sono esse stesse fantasmi proiettati e visibili dall’occhio) mentre al cinema manca quell’estensione verbale e quel tempo narrativo che invece la letteratura, per statuto ontologico suo proprio, possiede fin dalla sua nascita (già in Gilgamesh, ma chissà, magari ancora più indietro nel tempo… quando si narravano storie di caccia e di morte sotto le stelle del cielo preistorico). Il cinema ha gli attori che sono (o sono stati) in carne e ossa, danno un volto ai personaggi e ne interpretano col corpo le emozioni, muovono il corpo e danno voce alle parole. C’è un corpo astratto, nel cinema, un corpo che è presente e assente allo stesso tempo, ineffabile eppure tangibile, fatto forse di tutte le proiezioni del desiderio che suscita; un corpo in grado di accendere una miccia nell’immaginazione e queste proiezioni possono anche essere di ripulsa, di rifiuto, un po’ come le cose che a volte si vedono riflesse in uno specchio e forse proprio per questo ancora più attraenti.

Guardando Enemy di Villeneuve ci si rende conto che i film davvero interessanti, enigmatici e stranianti (a parte rarissime eccezioni di soggetti originali) sono storie adattate da romanzi o racconti che però riescono a elaborare in qualcosa di altro, un doppio oscuro, insondabile, engmatico. Tutti i registi che si rispettano, per un motivo o per un altro, devono prima o poi cimentarsi sullo schermo con una storia più letteraria, una di quelle raccontate in un medium più antico e oggi un po’ soverchiato da una assai più scarsa considerazione di quanto non accadesse in passato; detto in altre parole: oggi la letteratura appare ancella di altri medium, e gli scrittori sembrano fare a gara per finire sullo schermo, adattati, interpretati, persino cannibalizzati talvolta. Potenza dell’economia che relega la letteratura a un ruolo secondario nell’immaginario collettivo o ricchezza della letteratura e dell’immaginazione che vi è connessa, senza la quale sarebbe impossibile pensare il mondo? Propendo per la seconda e anzi, alzo il tiro ancora di più: il cinema, oggi, senza letteratura, sarebbe davvero poca cosa. E quelle figure fondamentali che scrivono per noi e ci consegnano spesso lavori ben fatti, frutto di sforzo e di costanza, di conoscenza e abilità che si chiamano sceneggiatori (e che meriterebbero molta più visibilità e riconoscimento, oggi che la tecnica è migliorata così tanto) sanno bene quanto sia fondamentale leggere e conoscere la letteratura per scrivere un buon film. E il pubblico dovrebbe ricordarlo, ogni volta che guarda un film e si sorprende della sua originalità narrativa. Ricordo che quando a David Lynch è stato chiesto perché nell’ufficio di Gordon Cole c’è una foto di Kafka, lui abbia risposto “finalmente qualcuno me l’ha chiesto!”. Il cinema e il suo doppio più grande e più potente, non possono restare separati a lungo…

Ecco qua, l’ho detto finalmente. Adesso posso passare a parlare di Enemy tratto dal romanzo di José Saramago L’uomo duplicato (pubblicato in italiano da Einaudi, 2003, traduzione di Rita Desti) a sua volta romanzo su un doppio, un doppelganger, figura importante in letteratura e trasversale a tutte le tradizioni e a tutte le epoche. Ne scrive Plauto nella Roma repubblicana (sì proprio quello dell’Anfitrione che raddoppia addirittura il gioco dei sosia) e saltando alla modernità troviamo celebri doppi in Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffman; tra i russi il sosia è quasi un’ossessione:  Il naso di Gogol’ è incentrato sul doppio, e poi c’è il celebre Il sosia di Dostoevskij; in Disperazione, e La doppia vita di Sebastian Knight di Nabokov, i doppi si sprecano (senza tenere conto della circostanza biografica di Nabokov, il cui padre venne assassinato perché assomigliava a un altro, vero destinatario dell’attentato); nella letteratura mitteleuropea vorrei ricordare Il cavaliere svedese di Leo Perutz mentre in America William Wilson di Poe è un piccolo capolavoro in questo senso; Stevenson ci dona il famigerato Dottor Jekyll e Mr Hyde ispirando tutta una genia di doppi letterari (e film celebri notevoli). E poi vogliamo ricordare l’ossessione per i doppi di Murakami Haruki, La ragazza dello Sputnik? O “L’altro” di Borges (ne Il libro di sabbia). Nel cinema i doppi si sprecano: per una lista completa, rimando alla voce doppelgänger di Wikipedia.

Il romanzo di Saramago è un tributo al doppelgänger e alle possibilità narrative e psicologiche che questa presenza può dare alla storia; il romanzo viene descritto in genere come quello più cinematografico che lo scrittore portoghese abbia scritto. Partendo dalla storia di Tertuliano Maximo Alfonso, il protagonista scopre, guardando una videocassetta, che un attore assomiglia in tutto e per tutto a lui; nel film di Villeneuve il protagonista è sempre un professore di storia (ma all’università) e si chiama Adam Bell; e la storia adattata da Javier Gullon rielabora benissimo l’inquieta sensazione di scoperta del protagonista, lavorando su un leitmotiv tradizionale e moltiplicando abilmente le interpretazioni possibili. Villeneuve costruisce con le immagini la sensazione straniata e straniante che porta il protagonista a intricarsi nella vita dell’altro e forse a non distinguerla più dalla propria. Il film è sostanzialmente una variazione sul tema del perturbante: non a caso compaiono personaggi deformati, immagini stranianti, e i ragni hanno una parte non indifferente a popolare una realtà apparentemente fattuale, ma di fatto onirica, proiettata, sfuggente che non si distingue dal suo doppio possibile. Tutti i racconti di sosia sono incentrati sullo sgomento della scoperta del proprio doppio e le disastrose, assurde, a volte tragiche conseguenze dell’incontro. Magari il doppio è solo una proiezione di se stessi, o forse semplicemente una biforcazione della propria personalità divisa in un mondo dove la propria identità è inafferrabile. Magari è una forma di schizofrenia o semplicemente la manifestazione di una presenza demoniaca. Certamente il doppio si perde nella storia dei tempi e della letteratura e il primo poema epico dell’umanità è una storia di gemelli e di doppi: Gilgamesh. Il mito è fondativo, si sa; come la letteratura, non potremo mai liberarcene davvero: è un eterno ritorno nell’immaginario collettivo della paura di restare soli? o semplicemente del bisogno di vedersi diversi, più potenti, più sfuggenti?

Una piccola considerazione a margine: è interessante che la traduzione inglese del romanzo di Saramago sia The Double mentre l’originale sia intitolato L’uomo sdoppiato implicando che effettivamente il protagonista stia vivendo proprio uno sdoppiamento tanto psicologico quanto inverosimile sul piano della realtà. Il fatto è tanto più curioso dal momento che il protagonista scopre l’altro su una videocassetta che è essa stessa copia, doppione di un originale.

La fotografia virata al seppia e la musica inquietante in sottofondo di Daniel Bensi e Saunder Jurriaans nel film di Villeneuve contribuiscono all’atmosfera generale di straniamento che già dall’apertura del film non fa sconti: nella sala buia di un club alcuni uomini guardano su un palco lucido come uno specchio delle donne nude dal volto nascosto che si cimentano in una strana performance sessuale (e come potrebbe essere altrimenti?) fino a che non viene portato un piatto d’argento con un coperchio sopra che nasconde un enorme ragno femmina; il piede calzato in un sandalo a zeppa sta per schiacciarlo… Il ragno è un correlativo importante nel film, e rimanda a una serie di elementi simbolici che tornano spesso, inclusa l’immagine dell’enorme ragno scultura di Louise Bourgoise sullo sfondo di una caliginosa Toronto.

Giorno e cambio di scena. All’università il professore di storia Adam Bell sta tenendo una lezione sul rapporto tra potere e controllo nella Storia. È un uomo tranquillo, dalla vita monotona. Un giorno un collega, tentando una goffa conversazione, gli consiglia di guardare un film. Adam Bell lo fa e scopre che un attore secondario nel film ha una somiglianza impressionante con lui e decide di iniziare la ricerca dell’uomo che appare, anche dalle foto dell’agenzia di scouting, dotato di una somiglianza inequivocabile, confermata anche dal fatto che quelli che conoscono l’attore, scambiano il professore per lui. L’atmosfera straniante delle scene, il rapporto introverso di Adam con quelli che lo circondano e la spinta a presentarsi al sosia sono tutti affidati a Jake Gyllenhall che con una recitazione sfumata e misuratissima riesce a  trasmettere il carattere del personaggio sia come Adam Bell siacome Anthony Claire che sullo schermo usa tra l’altro il nome di Daniel St. Claire. I due (Adam e Anthony) si conoscono, ovviamente, e si parlano, e sentono persino una certa attrazione / repulsione per quello che scoprono e tutta la storia va avanti intono al gioco di rimpiattino che si fanno i due. C’è una scena particolarmente indicativa del rapporto tra identità e doppio che è quella di Anthony/Daniel attore che si guarda allo specchio mentre sembra che stia provando delle battute ma non si sa ancora se in un possibile film che deve girare o per se stesso o perché, come poi avverrà, sono destinate al suo antagonista/doppio/sosia Adam che le subisce passivamente mentre l’altro le pronuncia con aggressività. Ma è quando si innesca il gioco perverso di vedere che effetto fa scambiarsi le parti (in realtà è Anthony quello più propenso e più perverso) che il film diventa davvero enigmatico e la realtà potrebbe anche suggerire che Adam e Anthony sono in realtà speculari o che la vita vissuta da Adam passi continuamente tra il sogno e la veglia, senza soluzione di continuità. Per questo appaiono tanto importanti le scene con gli specchi e davanti a uno specchio sembrano trovarsi i due personaggi, ormai in pieno riconoscimento della propria somiglianza.

enemy

È quasi superfluo ricordare quanto gli specchi siano cruciali nel cinema; non c’è film serio che non abbia un personaggio (e l’attore che lo interpreta) che ci si guardi  e guardi magari attraverso la quarta parete a noi che stiamo guardando l’attore che si specchia mentre recita il personaggio. Quanti saranno i film in cui addirittura gli specchi non si rompono e l’immagine non va in frantumi? L’apoteosi dell’immagine riflessa è nella scena famosissima  de La signora di Shangai. Lo specchio è la superficie riflettente, così come lo schermo è la superficie su cui sono proiettati, proprio come in uno specchio oscuro e misterioso, i fantasmi che escono da una macchina, impressi a loro volta su una pellicola che ha intrappolato per sempre persone reali che fanno finta di essere altri, ossia i loro doppi sullo schermo. Il paradosso dell’attore è anche questo: recitare con il proprio corpo e la propria voce la storia di un altro, dare un corpo a quello che finché il film non comincia è soltanto un’idea sulla carta, un blueprint dell’immaginario e che a volte resta talmente attaccato addosso da creare una vera e propria psicosi. Specchi che riflettono, specchi che si rompono, specchi che raddoppiano l’immagine, la moltiplicano, la frantumano.

La signora di Shangai
Orson Welles e Rita Hayworth nella famosa scena degli specchi di La signora di Shangai 

In Enemy, tutto fa pensare che i due personaggi siano particolarmente simili, identici si potrebbe dire: la cicatrice sul fianco di Anthony e persino la voce che la moglie, incinta, non distingue quando è Adam a chiamare la prima volta quando cerca di mettersi in contatto con Anthony. Anche David Cronenberg si era cimentato con una storia di doppi (Inseparabili) e bisogna ammettere che quanto a straniamento e vertigine dell’inafferrabile i registi canadesi non sono secondi a nessuno. In Cronenberg, però, i due sono gemelli e ben consapevoli della confusione in cui gettano le persone che gli si avvicinano. A differenza del film di Villeneuve, la componente sessuale del film di Cronenberg è molto più dirompente e inquietante, confermando un’impressione che ho da tempo: il cinema degli anni Duemila rappresenta il sesso in maniera pudica, a volte vicina alla ritrosia, nonostante la presunta libertà di espressione di cui gode. Cronenberg è molto più eversivo con i suoi doppi di quanto Villeneuve non sia con il suo uomo sdoppiato, confuso, un po’ immaturo. In Cronenberg gli uomini non sono più figli, mentre nel film di Villeneuve (sarà l’aria dei tempi?) Adam torna alla madre per comprendere quello che gli sta succedendo. E quasi gli dispiace, dopo che la donna gli conferma che lui è uno e solo. Possibile che abbia immaginato tutto? Non sarebbe meglio avere un compagno segreto?

Confermando l’atmosfera algida, enigmatica e straniante di molto cinema canadese, Villeneuve conclude il suo film con una scena sorprendente e cronenberghiana, non so se volutamente o di sfuggita. Certo è che, per dirla con gli americani che ogni volta che guardano qualcosa di autenticamente inquietante e straniato lo definiscono con l’unico aggettivo di cui sono capaci e cioè kafkiano, il finale del film è la parte migliore di una storia già di per sé ben rappresentata, ben recitata e molto affascinante. Il cinema che rincorre il suo doppio, la letteratura, lo fa con consapevolezza di mezzi lasciando ampio spazio all’interpretazione, una cosa che romanzi e racconti fanno da migliaia di anni riuscendo ogni volta a sorprenderci, irretirci, affascinarci e a farci riconoscere ancora di più le immagini riflesse nello specchio dello schermo.


Leave a comment