Lo zeitgeist di True Detective: città senza mappa, noir e destino

Quando sono passata da True Detective 1 a True Detective 2 non è stato facile. Ho dovuto scontare il distacco affettivo che ogni spettatore ormai fidelizzato a una storia, ai suoi personaggi e all’ambientazione deve maturare per tuffarsi in una nuova avventura dello stesso autore. E l’ho fatto immergendomi subito nell’atmosfera: non ho voluto sapere nulla, né leggere commenti, evitando ogni speculazione preventiva. Ma come succede con i romanzi di uno stesso scrittore che si ama tanto, passare dall’uno all’altro  pone qualche domanda: quale è il migliore? Guardare un Tv drama non è la stessa cosa che leggere un romanzo, oppure un po’ sì?. La diffidenza iniziale delle prime due puntate di TD 2, che mi aveva un po’ raffreddato gli entusiasmi iniziali, ha lasciato lentamente il posto a una certa ammirazione. Sono tra quelle a cui True D 2 è piaciuto molto, per ragioni diverse rispetto ai motivi per cui ho amato True D 1, che tuttavia mi portano a pensare al grande lavoro fatto da Pizzolatto sulla sceneggiatura e sulla realizzazione scenica dal regista Cary Fukunaga in entrambi i capitoli.

Rendere le atmosfere misteriose e inquietanti di quel territorio insidioso che è la Louisiana rurale integrando magistralmente i dialoghi, la cadenza della lingua, una recitazione che resterà negli annali, ha avuto il risultato di generare una storia che non è soltanto una detective story, ma una riflessione a tutto tondo su elementi che vanno al di là del genere: integrare le influenze letterarie, creare un mondo narrativo, riflettere sullo stato delle cose, dare alla narrazione una dilatazione temporale spostando i piani del racconto, integrare le musiche e il suono accrescendo la tensione delle scene e l’aspettativa che ne deriva sono tutte qualità importate dal cinema all’interno del medium televisivo con il risultato, per Pizzolatto, di aver creato qualcosa di iconico. Non si è trattato, qui, di raccontare dei fatti costruendo la storia con degli snodi narrativi che mettessero lo spettatore a proprio agio in attesa di sciogliere l’intreccio con qualche artificio di mestiere, svelando l’assassino, come siamo abituati a vedere in buoni film che rispettano i criteri del genere a cui appartengono. SI è trattato, invece, di dare respiro alla narrazione  creando una vera e propria atmosfera che comprendesse anche una certa visione del mondo, proprio come accade nei romanzi. In questo senso, trovo che entrambi i capitoli siano riusciti ma per motivi diversi.

Il pessimismo nichilista di True Detective 1 come espressione dello zeitgeist

Dal pessimismo nichilista del primo capitolo perfettamente integrato nell’ambientazione evocativa di orrori e misteri si è passati al pessimismo della città postmoderna “senza mappa” riflesso della miseria della globalizzazione dove la disperazione esistenziale è la cifra espressiva più consona a raccontare un apparente poliziesco che vira nel noir più cupo e svela dei personaggi, intrappolati in un destino dall’esito tragico. Entrambi i capitoli, seppur separandosi per ambientazione, raccontano la vita quotidiana del più iconico dei personaggi sia in letteratura che nel cinema: il detective. Non credo sia un caso che la maggior parte delle fiction oggi in circolazione abbiano il detective come protagonista, l’“occhio” (in inglese si dice anche “private eye” per indicare il detective privato, per esempio) in grado di gettare lo sguardo su una realtà di superficie che richiede un tuffo nei suoi aspetti più profondi e nascosti. E poi il detective è, grazie al suo status, l’unico in grado di bucare la superficie delle cose, di interpretare i fatti, di dipanare la rete aggrovigliata di eventi attraverso la possibilità di muoversi nei diversi strati della società. Il detective è personaggio ma soprattutto punto di vista. Ne sapevano qualcosa già i maestri: Hammett e Chandler, i quali avevano conferito ai loro protagonisti l’abilità di smascherare l’ipocrisia della società e scoperchiare la pentola dei vermi che vi si nasconde sotto attraverso trame complesse a ambientazioni ormai considerate seminali. Siamo diventati lettori spregiudicati e spettatori attenti anche grazie alla quantità di storie che ormai da decenni vengono pubblicate e messe in scena; la letteratura mainstrem è piena di gialli e noir con detective di vario tipo. Ma i due detective del ventesimo secolo, le due figure fondative del noir, archetipi inquieti e pessimisti, caustici e disincantati sono solo due:  Philip Marlowe e Sam Spade.

È con queste premesse che True D 2 ha dovuto fare in conti, in qualche modo, quando Pizzollatto ha intrapreso la stesura delle sue storie decidendo di ambientarle in Louisiana una e in California l’altra, terre iconiche già da sole, con la conseguenza di affrontare un compito difficile: come dare spessore e originalità a un pattern narrativo consolidato e così ricco di precedenti di successo, soprattutto letterari. Il cinema ci ha offerto così tanti detective e così tante situazioni da creare un canone tutto proprio, a cui è possibile ricondurre film iconici come The Maltese Falcon (John Huston1941) e In the Heat of the Night (La calda notte dell’ispettore Tibbs, Norman Jewison, 1967) con Sidney Poitier, ambientato in Mississippi e capace di intercettare bene le questioni dei diritti civili offrendo un personaggio indimenticabile come Tibbs. Nella storia del canone della detective fiction, alcune opere risultano a tal punto seminali, da rappresentare un vero punto di svolta, in grado di intercettare le correnti telluriche della società e interpretandone quello che con parola molto intellettuale chiameremmo lo zeitgeist. Spesso il noir si interseca con la detective story proprio a testimoniare un aspetto fondamentale del primo: non si tratta di un genere, quanto di uno stile che attraversa epoche diverse, una visione che intercetta le inquietudini e le contraddizioni, ribaltando spesso gli stereotipi di genere, creando tensioni drammatiche direttamente connesse all’ambiguità dei personaggi. Noir e detective fiction, consentono di intercettare l’inquietudine dei nostri tempi e di restituire un’immagine corrotta della società che sentiamo più consona alla nostra sensibilità contemporanea.

In True Detective lo zeitgeist viene espresso al suo massimo grado: i dialoghi catturano alla grande questo spirito dei tempi e non si fanno scrupoli a mostrare quello che ormai, anche senza che ce ne accorgiamo, va avanti da quattro secoli e che potremmo definire, con un termine molto generico, come lo sguardo rivelatore sul mondo: l’ironia malinconica e il pessimismo cosmico, qualcosa che la letteratura elabora da tempo immemorabile.

Trovo tutt’altro che casuale, anzi decisamente sorprendente il fatto che oggi le narrazioni più riuscite e più illuminanti sul mondo che viviamo e in cui viviamo siano quelle che colgono una sostanziale falla, un difetto cosmico, esistenziale e lo fanno senza risparmiarci la più amara e profonda delle verità: il mondo in cui viviamo, e di conseguenza la vita che viviamo, appaiono sempre di più come “narrative” in forma di circoli viziosi nei quali siamo destinati a ritrovarci sempre più avviluppati, senza possibilità di uscita e dove il male assume le forme banali della violenza, dell’avidità, della protervia, della perversione. In ultima analisi: i vizi di cui parlavano i morality play medievali e che oggi ritornano, articolati e confezionati, spesso bellissimi, sotto forma di serie televisive. Per citare l’ultimo discorso di Robert Ford, il “padre” di Westworld, dietro cui si cela un Prospero del ventunesimo secolo, le grandi storie sono bugie che raccontano una verità più profonda.

Since I was a child, I’ve always loved a good story. I believed that stories helped us to ennoble ourselves, to fix what was broken in us and to help us become the people we dreamed of being. Lies that told a deeper truth. (Westworld, I serie, ultimo episodio)

Qualcosa, verrebbe da aggiungere, che può farci aprire gli occhi sulla grande ur-finzione in cui ci troviamo. Il fatto che questa nuova consapevolezza stia trovando strada attraverso uno dei media più popolari e più diffusi della nostra vita, entrando nella nostra percezione e generando così tante versioni di una comune visione del mondo è qualcosa che non deve sorprenderci più di tanto: il medium è solo uno strumento, quello che conta è la narrazione, la quale a sua volta affonda le radici in una necessità più universale e profonda, che a volte sembriamo dimenticare o che diamo per scontata: la necessità di trovare la verità della vita non attraverso la realtà che viviamo, ma attraverso la sua rappresentazione.

La rappresentazione della violenza e delle sue dinamiche, la rappresentazione della natura come indifferente e altro da noi, l’uomo come coscienza infelice e separato da se stesso, consapevole della sua condizione di “errore” eppure deciso a ripetere l’errore ancora e ancora, il viaggio circolare che termina nella scoperta che il male è più profondo e radicato di quanto i fatti non facciano supporre, anche quando vengono risolti, sono elementi che entrano in una narrazione di portata più alta, tragica, si potrebbe osare definirla, rispetto a tutto quello a cui eravamo abituati sul piccolo schermo. In questo senso potremmo tracciare una linea di continuità che va dal cinema alla televisione e che oggi appare molto meno netta, addirittura quasi insignificante nella misura in cui il medium televisivo consente una migliore dilatazione narrativa: Twin Peaks, i Soprano, Breaking Bad, True Detective, Westword… tutti si prendono il tempo di raccontare più distesamente e più approfonditamente.

Malinconia e pessimismo cosmico in TD 1

Tornando a True Detective, e come anticipato nel post precedente, voglio citare il famoso dialogo della prima puntata come esempio di questa visione malinconica (nel senso che viene attribuito a questo termine non nella sua connotazione di umore, ma di condizione esistenziale, così come indagata per esempio da Starobinski in Saturno e la malinconia e da secoli di riflessioni sul tema). Il malinconico è colui che secerne l’umor nero, ed è governato da Saturno (da cui il termine “temperamento saturnino” per indicare un ben preciso carattere psicologico), sotto la cui influenza sviluppa uno sguardo intriso di ironia tragica, quella stessa ironia che traspare per esempio nelle parole di Amleto e trova il suo trattato più completo nell’Anatomy of Melancholy di Robert Burton (un caposaldo del tema che influenzò generazioni di poeti e scrittori) e arriva alle porte del nichilismo esistenziale nell’Ottocento con l’uomo del sottosuolo di Dostoevsky, alla poesia di Baudelaire, alla filosofia di Schopenauer e, nel Novecento, all’esistenzialismo di Camus e Cioran e al nichilismo dei personaggi di Cormac McCarthy e dei suoi romanzi tragici (penso a Blood Meridian e alla Trilogia della frontiera soprattutto).

Ed ecco il dialogo tra Cohle e Hart, che in macchina parlano per la prima volta apertamente dopo il sopralluogo in cui è stato trovato il cadavere di Dora Lange:

NT – MARTY’S CAR

COHLE: Might as well be living on the fucking moon.

HART: There’s all kinds of ghettos in the world.

COHLE: It’s all one ghetto, man. Giant gutter in outer space.

[beat]

HART: Today, that scene… That is the most fucked up thing I ever caught. Can I ask you something? You’re Christian, yeah?

COHLE: No.

HART: Well what do you got the cross for in your apartment?

COHLE: That’s a form of meditation.

Hart is knee-jerk offended at Cohle’s nonchalance about the Son of Man–

HART: How’s that?

COHLE: I contemplate the moment in the garden. The idea of allowing your own crucifixion.

HART: But you’re not a Christian so what do you believe?

COHLE: I believe that people shouldn’t talk about this type of shit at work.

HART: Hold on, hold on. Three months we been together I get nothing from you. Today, what we’re into now, do me a courtesy ok, I’m not trying to convert you.

COHLE: I’d consider myself a realist, but in philosophical terms I’m what’s called a pessimist.

HART: Ok, what’s that mean?

COHLE: It means I’m bad at parties.

HART: *laughs* let me tell you, you ain’t great outside of parties either.

Hart scowls at Cohle, prodding him on. Cohle continues, relucant–

COHLE: I think human consciousness is a tragic misstep in evolution. We became too self aware. Nature created an aspect separated from itself, we are creatures that should not exist by natural law.

HART: Well that sounds god-fucking-awful, Rust.

COHLE: We are things that labor under the illusion that having a self. This secretion of sensory, experience, and feeling. Programmed, with total assurance, that we’re each somebody. When, in fact, everybody’s nobody.

HART: I wouldn’t go around spouting that shit if I was you, people around here don’t think that way. I don’t think that way.

COHLE: I think the honorable thing for our species to do is deny our programming. Stop reproducing. Walk hand-in-hand into extinction.

A beat where Cohle seems almost wistful–

COHLE: One last midnight, brothers and sisters opting out of a raw deal.

HART: So, what’s the point of getting out of bed in the morning?

Cohle looks out the window as he speaks, almost to himself–

COHLE: I tell myself I bear witness. The real answer is that it’s obviously my programming. And I lack the constitution for suicide.

HART: My luck I pick today to get to know you. Three months, I don’t hear a word from you and…

COHLE: You asked.

HART: Yeah. Now I’m begging you to shut the fuck up.

Il pianeta in cui viviamo come un “giant gutter”, il definirsi, da parte di Cohle, un “realista” più che un pessimista, perché in grado di guardare alla realtà e vederne con apparente cinismo il suo aspetto più vero (quell’attimo congelato nel tempo in cui si vede davvero quello che c’è sulla punta della forchetta, disse una volta William Burroughs parlando del titolo del suo romanzo seminale Il Pasto Nudo, alludendo alla rivelazione della cosa come è e non a come sembra); il fatto che la coscienza umana sia un tragico sbaglio nella storia dell’evoluzione perché ha dato all’uomo la convinzione di essere qualcuno, quando ognuno è in realtà nessuno sono considerazioni che Cohle esprime con tono apodittico, tipico del personaggio malinconico che, attraverso il suo cinismo, vuole provocare la reazione dell’interlocutore e, ovviamente, dello spettatore. Più avanti nella storia, sarà di nuovo Cohle a parlare del circolo esistenziale, quel “loop” in cui sembra intrappolata la vita di ognuno e in particolare la sua, costellata di errori che lo porteranno tuttavia ad assumere quell’atteggiamento iperrazionale e riflessivo che lo caratterizza. E’ interessante, tra l’altro, che l’immagine e la struttura narrativa del “loop” torna anche in Westworld, nell’immagine del labirinto e dello schema di programmazione degli host e, come chiaramente evidente, è alla base della narrazione circolare di Twin Peaks.

Il detective e il punto di vista

Ovviamente non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa avrebbe detto Chandler a sentire dialoghi di questo tipo, lo stesso Chandler che, con la sua ironia, aveva scritto queste parole descrivendo un sopralluogo di Marlowe in Playback:

A couple of dozen cars, no more. I looked them over. One hunch at least had paid off. The Buick roadmaster solid top bore a license number I had in my pocket. It was parked almost at the entrance and newt to it in the very last space near the the entrance was a pale green and ivory Cadillac convertible wity oyster-white leather seats, a plaid travelling rug thrown over the front seat to keep it dry, and all the gadgets a dealer could think of, including two enormous spotlights with mirrors on them, a radio aerial almost long enough for a tuna boat, a folding chromium luggage rack to help out the boot if you wanted to travel far and in syle, a sun visor, a prism reflector to pick up traffic lights obscured by the visor, a radio with enough knobs on it for a control panel, a cigarette lighter into which you dropped your cigarette and it smoked it for you, and various other trifles which made me wonder how long it would be before they installed radar, sound-recording equipment, a bar, and anti-aircraft battery. (Payback, Random House, 1988, pagg. 42-43)

Ovviamente la descrizione dell’automobile ha la chiara funzione di descrivere il suo proprietario e di fornire lo sfondo in cui si sta muovendo il detective, un posto chiamato Esmeralda, California, il prototipo del luogo artificiale per ricchi dove tutto è a misura dei suoi ospiti. Quello che leggiamo è una descrizione ironica che in un film sarebbe sostituita dallo scorrimento della macchina da presa su un oggetto che oggi riusciamo faticosamente a immaginare ma il cui equivalente, in termini economici, ci è ben chiaro quando lo vediamo rappresentato, anzi presentato sulla scena. Questo per dire che l’occhio del detective trascende la realtà sensibile e si situa negli interstizi, in grado così di collegare gli strati della società e rivelarne i nessi anche dannosi in cui si muovono vittime e colpevoli. Anche per Marlowe la realtà è un luogo sudicio in cui si muovono personaggi opachi e si dispiegano situazioni morbose, malate, ma tutto è ancora nei canoni del realismo puro e fattuale.

In True Detective, le incursioni letterarie si fondono nell’atmosfera Southern e l’ironia non è più quella scanzonata di Marlowe ma quella tragica e incupita che si muove in un ambientazione imbevuta di rimosso e decadenza che proviene dalle pagine di Faulkner ma si diluisce in un immaginario che coglie il Sud come un luogo misterioso e morboso. Persino la mascolinità del detective è sotto scacco: sia Rusty che Cohle sono esemplari molto lontani dalla mascolinità di Marlowe (non entro qui in diatribe femministe che mi interessano poco e rimando a questo articolo del Guardian, molto interessante per chi vuole approfondire questo aspetto) e nonostante tutto soccombenti rispetto alla possibilità di avere successo con le donne perché appaiono entrambi come due reduci: della vita, delle circostanze, persino di loro stessi. E non uso a caso questo termine perché in un’intervista a Pizzolatto, in Entertainment Weekly, lo scrittore chiarisce il fatto che entrambi i detective finiscono a vivere vite desolate, sconfitte, in qualche modo e che rimandano più a una riflessione sull’antieroe che alla costruzione di una mascolinità prominente. Non ci sono Capitan America che salvano il mondo, ma due personaggi dalla vita realistica che devono affrontare la loro sconfitta e comunque continuare a cercare il colpevole in un mondo contaminato dal male.

Non so fino a che punto Pizzolatto abbia ricalcato le parole di Thomas Ligotti nel costruire il sostrato filosofico di Cohle (molti fan lo avevano accusato di plagio, ma a questo punto è quasi irrilevante la questione). A sua volta, Ligotti si rifà a Schopenauer, Nietzsche, Cioran, Kafka, persino William Burroughs, inserendosi in una linea tragica che sconfina con il nichilismo esistenziale tanto di moda in questi anni. Non parlo del Ligotti dei racconti dell’orrore e del grottesco, iconoclasta, distruttivo, inquietante, il cui mondo patologico è illustrato con descrizioni ossessive che vanno ben oltre la psicopatologia del quotidiano e sfondano il terreno del perturbante. Le tracce di queste riflessioni sono rintracciabili in La cospirazione contro la razza umana.

Credo, invece, che Pizzolatto si sia semplicemente ispirato a uno scrittore dallo stile fortemente connotato e dalle idee molto dirette, per poi scostarsene rimanendo nei confini porosi della detective fiction: Cohle sembra schizoide e allucinato, e per un momento appare persino sull’orlo di una mania ossessiva mentre la sua è l’estrema follia dell’individuo iperrazionale, quello che, anche a costo di rischiare di soccombere e di travalicare i poteri conferiti dal suo status (a cui peraltro rinuncia perché si dimette dalla polizia e continua le sue ricerche da solo, rinunciando alla possibilità di uno straccio di carriera), mette tutto se stesso pur di giungere a scoprire se il male esistente sia soprannaturale o meno. Ovviamente non lo è e nel finale il personaggio si rivela colui in grado di guardare le cose con quello che chiameremmo “pensiero laterale” o contro intuitivo o, semplicemente, poetico e lungimirante. La luce che vince sulle tenebre è la possibilità di guardare il mondo con uno sguardo che abbandoni il nichilismo cosmico per abbracciare una visione più realistica e in fondo finalmente priva di hybris.

Evoluzione del detective

Tutta la cupezza di True D 1 si risolve in un finale nonostante tutto più conciliato di quanto non appaia il secondo capitolo, molto più tragico. Le  contrastanti sensazioni di assurdo, umanità, disperazione, pervertito divertimento, ironia che si prova di fronte ai dialoghi tra Cohle e Hart sono come un gioco di ironia speculativa sul mondo e sul male.  In True D 1  c’è una sensibilità tutta speciale che ci colpisce come spettatori e consiste nel fatto che:

1. Il detective è bello ma malinconico e non ha tempo di pensare alle donne perché ha cose più importanti per la testa (in questo è un’evoluzione di Philip Marlowe, ancora convinto della proprio mascolinità);

2. È intelligente, sensibile, amareggiato dalla vita ma ancora capace di elaborare il lutto dell’esistenza con l’ironia tragica della parola che disprezza il mondo e mostra un distacco che è in realtà consapevolezza del tragico nell’esistenza umana;

3. Parla con un’eleganza ellittica e una laconicità che se la capisci, buon per te, se no torna a guardare la partita di calcio, va’ che forse è meglio.

4. A un certo punto manda a fare in culo tutto quanto, se ne va in Alaska e poi torna in Louisiana a fare il barman… e affronta lo scacco della propria vita proprio come uno di noi. Ma è ostinato, deciso e dotato di un’etica, la stessa etica che appartiene a tutti gli eroi anche in un mondo che non ne vuole o nemmeno li riconosce. Risolve il caso agendo al di fuori del quadro giuridico, commettendo in un certo senso un abuso: soltanto in questo modo può giungere alla radice di quel male che ha contaminato tutto, di cui fanno parte gli impianti industriali che si vedono sullo sfondo, le mescolanze familiari e gli imbricamenti del potere, la perversione delle sette religiose locali, la pedopornografia, la corruzione e la connivenza della polizia, il marciume generato dall’omertà.

Altro che soprannaturale: il male è molto vicino e banalmente nascosto in una casa nella foresta, dove regnano la follia, l’incesto, le perversioni familiari.

Nell’articolo precedente avevo parlato del Southern Gothic come cifra narrativa del primo TD, concentrandomi sull’ambientazione e le influenze iconiche della letteratura del Sud degli Stati Uniti, in particolare William Faulkner, peraltro citato varie volte da Nic Pizzolatto tra gli scrittori che lo avevano ispirato di più. Nel secondo capitolo, lo spostamento avviene a mio parere più sul piano formale perché la narrazione è più corale e anche i punti di vista sono più compositi. Come spettatori abbiamo quattro personaggi di cui seguire le vicende, oltre a cercare di capire chi è l’assassino, se ancora ci interessa davvero.  Credo che il senso della seconda stagione di True Detective sia tutta nella descrizione di un mondo, questa volta quello della California, dove l’omicidio di Caspere è l’innesco per qualcosa di più grande, che contamina, anche qui, tutto il mondo intorno.

Anche nel secondo capitolo, vedo un debito profondo che Pizzolatto paga non solo alla letteratura, ma soprattutto al cinema: per lo spettatore, i quattro personaggi di cui seguiamo le vicende sono riconoscibili in quanto tipi e si dispiegano via via con il loro vissuto; Ray è un alcolista e mezzo cocainomane con una storia familiare complicata e qualche legame a dir poco ambiguo con un criminale che sta cercando riulirsi ed entrare nel giro degli imprenditori cittadini; Antigone (qualche rimembranza, qui?) Bezzerides è una donna volitiva e apparentemente molto forte anche se ha anche lei una propensione alla solitudine e una storia familiare complicata da un padre che ha abbracciato un percorso che sembra uscito direttamente da un romanzo di Thomas Pynchon (evidentemente la California si presta bene a questo tipo di cose); Paul è un poliziotto con una madre prevaricatrice, ex ballerina e ormai ridotta in povertà e per di più ha anche il problema di non riuscire a fare i conti fino in fondo con la propria sessualità. Ci vuole mano per scrivere così e una certa scaltrezza per non cadere nel luogo comune. E qui gioca il ruolo di scrittore di Pizzolatto, che aveva insegnato scrittura creativa in un college, pubblicato una raccolta di racconti Between Here and the Yellow Sea, un romanzo Galveston, e un paio di puntate di The Killing. Galveston è un noir molto apprezzato da Denis Lehane che sul NY Times ne scrisse una bella recensione. Ma il libro non aveva venduto bene e il suo autore decise di andarsene a Los Angeles a cercare opportunità di lavoro con la Tv, un settore dell’industria in pieno fermento. Scrive un paio di episodi di The Killing ma si accorge di preferire scrivere da solo (per i dettagli, si veda l’intervista a Vanity Fair qui). Diventa showrunner della serie che ottiene un successo clamoroso e fa la seconda che lui realizza mettendo molta più cupezza che nella prima. Perché se il primo True Detective ci immerge nel lividore gotico della Louisiana, il secondo capitolo ci tuffa direttamente nei miasmi della città industriale di Vinci, California ispirata alla reale Vernon, un posto di corruzione, lavoro illegale, immigrazione clandestina e inquinamento industriale (per un approfondimento si veda questo articolo di Vulture.

Vernon,_California
Amenità a Vernon, California (foto reperita qui)

Il secondo TD ha una struttura più corale a mio parere e anche se la trama è molto complessa, a volte persino troppo macchinosa, si riesce a seguirla comunque con un po’ di attenzione. Lo scenario, per chi ricorda Città di quarzo di Mike Davis e tutte le riflessioni sulle città senza mappa di postmoderna memoria, non lo troverà così nuovo. Lo scenario rurale lascia il posto alla città marginale, il gotico è sostituito dal noir e dal racconto poliziesco, con chiari riferimenti a Ellroy più che a Chandler (la corruzione della polizia, gli scheletri nell’armadio che risalgono a un passato relativamente recente dei riot del ’92), i poliziotti diventano tre e la California appare piuttosto brutta. La fotografia coglie un’aria giallognola e grigiastra, un ambiente metallico e polveroso, vedute stranianti di strade che sembrano avvolgersi su se stesse, col traffico di automobili continuamente in moto e una deriva umana di esseri invisibili che si muovono continuamente senza che si sappia dove. È una California priva della sgargiante luminosità con cui ci viene presentata nelle commedie. L’uso di questo tipo di fotografia contribuisce a illustrare l’ambiente in cui si muovono, vivono e muoiono i personaggi, fino a culminare nella puntata di chiusura, con la morte iconica e tragica nel deserto di Frank Semyon o tra la solitudine delle grandi sequoie di Ray (si muore sempre soli in questi posti, come ci ricorda Dix Handley in Giungla d’asfalto).

TD 2 Vinci
La bella città di Vinci, sullo sfondo

In TD il paesaggio ha un ruolo importantissimo ed è per questo che ho aperto il primo articolo parlando prima di tutto dei luoghi in cui sarà girato il terzo capitolo della serie, la grande area degli Ozark, tra Missouri, Arkansas, Oklahoma e Kansas. Un’area molto estesa e quasi misteriosa per l’urbanizzata America delle due coste che, come mi disse un giorno Gurney Norman, rappresenta davvero il mistero, un cuore oscuro, per la maggior parte degli americani stessi. Chiunque abbia percorso un po’  questo immenso continente e abbia letto i romanzi fondamentali, sa quanto il territorio sia determinante per l’immaginario che ha modellato il cinema e la letteratura, quanto spesso l’essere umano (come ben sapevano Jack London e John Steinbeck) sia solo una figura piccina e vulnerabile di fronte a una natura tragica e maestosa. Gli Stati Uniti sono ancora un paese in cui il territorio può essere personaggio e sfondo e influire sull’interiorità dei personaggi umani, rivelarne la natura tragica e grottesca, l’esito senza via d’uscita di una vita che è una lotta per la sopravvivenza. Nonostante la sua estensione, il deserto o la foresta, sono luoghi che intrappolano l’animale braccato e lo consegnano al suo destino tragico.

Il realismo tragico di True Detective 2

Nella seconda serie, i riferimenti letterari impliciti sono molto forti anche se il lavoro più notevole è sullo scioglimento della trama. Se nella prima serie si è assistito a un grosso lavoro sui piani temporali del racconto, nella seconda i piani temporali sono lineari (ce n’è soltanto uno, fondamentalmente) e la storia si mantiene sempre sulla stessa linea narrativa adottando molti stilemi del noir, soprattutto contemporanei, non ultimo quello di David Lynch in Mulholland Drive (un altro film che offre una visione destrutturante del mito di Hollywood e del suo sogno). L’uso del noir e l’uso di un realismo crudo e disperato hanno consentito di portare l’esito del racconto su un piano tragico in cui tutti vengono annientati, distrutti, e in cui il destino dei personaggi non consente vie d’uscita, anche se lo spettatore si trova a sperarlo fino alla fine. Nella conclusione, non c’è altra possibilità, per i personaggi  se non il compimento del loro destino. Paul Woodrugh (Taylor Kitsch) viene ammazzato dopo aver tentato il tutto per tutto per sfuggire ai suoi aguzzini, nonostante avesse dovuto capire di essere stato incastrato da un ricatto che a che fare con la sua bisessualità. Nonostante Frank Semyon (Vince Vaughn) riesca a concludere il suo piano, lo fa dimenticando la possibilità che la banda di mafiosi messicani si possa vendicare e si trova abbandonato nel deserto mentre cerca di strisciare verso un’improbabile salvezza – una scena che ricorda la desolazione di Billy in The Border di Cormac McCarthy; Ray (Colin Farrell), in una fuga disperata prima in macchina e poi a piedi nella foresta, è ormai spacciato e soccombe crivellato dai suoi colleghi aguzzini. L’unica rigenerazione offerta dalla violenza di Vinci e dalla corruzione del suo establishment è quella della morte dei capi a tutti i livelli: muore ammazzato il sindaco, muoiono i poliziotti, esplodono i casino per mano di Semyon che prepara la sua fuga, muore l’assassino di Ben Caspere che poi è il figlio che non sapeva di essere, in una sparatoria all’interno della stazione. La carneficina azzera un’intera generazione e chiude un ciclo, mano a mano che la storia tende verso la conclusione, per dare avvio a un ciclo tutto nuovo, dove il sindaco della città diventerà il figlio di Chessani, il peggiore di tutti. L’unica che si salva è Antigone Bezzerides (Rachel McAdams) perché riesce a fuggire, raggiunge la moglie di Semyon in Venezuela dove si perde tra la folla in festa con il bambino avuto da Ray.

Non so perché, ma anche se la serie ha tanti difetti e il pubblico ha lamentato l’assurdità di tanti comportamenti dei personaggi (tra cui la decisione di Ray di deviare per andare a vedere un’ultima il volta il figlio a scuola, una decisione che invece io trovo assolutamente coerente con il personaggio e perfettamente costruita), trovo che la struttura ricordi molto quella della tragedia classica, in cui tutti muoiono, anche quelli che non vorremmo. E soprattutto questi ultimi muoiono perché, come in tutte le tragedie che si rispettano, l’eroe soccombe per una circostanza dovuta al suo carattere e a un errore originario attribuibile alla sua incapacità di leggere il destino, ammesso che sia in grado di farlo: non accade così per Macbeth, per Lear, per Amleto? Ma qui siamo nel ventunesimo secolo, e le motivazioni dei personaggi possono persino apparire come futili e irrazionali.

TD 2 Frank
Frank Semyon nel deserto, ferito e in fin di vita

In fondo Frank Semyon non vuole togliersi il vestito perché dentro ci sono i diamanti e perché tenta il tutto per tutto fino alla fine, sperando che il milione tondo tondo che gli estorcono i Messicani basti a comprargli una via d’uscita. Ray decide di perdersi nella foresta tentando una fuga che sa di non poter concludere se non con la morte, e tutti ci siamo chiesti perché finisce proprio in quel posto così solitario quando avrebbe potuto tentare una fuga per le strade tentacolari della città senza mappa: ma Ray sa di non potercela fare e si affida alla sorte come un animale braccato.

Paul cede alla paura di essere sputtanato perché omosessuale ma dà prova di resistenza quando cerca di scavarsi una via d’uscita in una sparatoria che sembra citare Vivere  e morire a Los Angeles. Finirà con il nome celebrato su una targa commemorativa dell’autostrada.

Tutti e tre commettono un errore dovuto a un vizio di carattere, a un’ostinazione insita nella loro stessa natura che li porta a deviare da quello che l’osservatore esterno – lo spettatore, noi – sa essere razionalmente sbagliato, privo di buonsenso, ma fondamentalmente inevitabile per la coerenza emozionale e caratteriale del personaggio. Perché Lear si ostina a non riconoscere la profonda umiltà delle parole di Cordelia e perché Otello non capisce di essere incastrato da Iago? Perché Ray non porta fino in fondo il piano di fuga e invece si ferma per dare un’ultima occhiata al figlio? E Frank che non cede quando dovrebbe: togliersi il vestito, tuttavia, significherebbe non solo spogliarsi letteralmente, ma perdere su tutta la linea. La disperazione è la nota tragica dei tre personaggi a cui la possibilità di una fuga e di una rigenerazione è completamente negata. E forse la loro hybris è proprio in questo: pensare di sfuggire al proprio destino.

Sempre più spesso la tragedia che un tempo era forma dominante oggi viene soppiantata da una struttura narrativa che ne contiene ancora le tracce ma le declina in una forma che sia adatta al modulo televisivo. Molti hanno criticato questo secondo capitolo di True Detective perché si perde un po’ il senso dell’indagine e perché in fondo l’omicidio di Ben Caspere passa quasi in secondo piano. Credo, tuttavia, che l’intento di True D 2 fosse più dimostrare che il mondo è intriso di corruzione, la società disgraziata e in caduta libera, con personaggi disperatamente aggrappati all’idea di non soccombere al proprio destino (quello di Semyon è particolarmente evidente) invece di preoccuparsi della coerenza formale con una struttura narrativa coesa che potesse rispondere ai canoni di scrittura della serie poliziesca con lo svelamento del colpevole e il sollazzo dello spettatore. Qui non c’è sollazzo e non c’è nemmeno l’ironia malinconica del primo capitolo di True Detective. I personaggi sono davvero disperati e con delle storie talmente ingarbugliate da risultare davvero anti eroi sotto tutti i punti di vista.

Il realismo tragico a cui abbiamo assistito e che a questo punto ci chiediamo in che forma tornerà nel terzo capitolo (previsto, pare, per il 2019) è solo un’altra versione in grado di cogliere quello zeitgeist che gettando luce sul mondo in cui viviamo, ci rcorda che la più grande di tutte le bugie, l’invenzione narrativa di cui abbiamo tanto bisogno, è forse la menzogna meglio congegnata per arrivare a un briciolo di verità o, per lo meno, per prendere coscienza di poterci arrivare. Sia come sia, credo che True Detective resterà negli annali della bella tv che, per fortuna, ci toglie dall’imbarazzo di riconoscere che esistono personaggi veri in quello schermetto impertinente, veri e propri mostri che parlano e camminano tra noi. E ovviamente, tra mostri finti e mostri veri, indovinate chi preferisco?

 

La foto di apertura è di Vernon, California ed è tratta da questo indirizzo: http://latimesblogs.latimes.com/lanow/2012/06/state-audit-vernon-finances-in-dire-condition.html

Leave a comment