C’è una perla nella letteratura francese dell’Ottocento: Avatar, di Théophile Gautier, un racconto lungo (o romanzo breve) pubblicato la prima volta nel 1856. Molti ricorderanno la dedica che Baudelaire appone all’inizio de Les Fleurs du Mal: “Al poeta impeccabile, al perfetto mago delle lettere francesi al diletto e venerato maestro e amico” e compagno di fumate che doveva essere stato Theophile Gautier, noto all’epoca per un’attività di scrittura intensa che andava dalla critica d’arte, alla poesia, ai racconti e romanzi brevi, ai diari di viaggio in Italia, Egitto, Spagna, Inghilterra, Russia) – una prosa ricca, anzi quasi opulenta, senza mai essere soverchiante per il lettore, ma generosa di descrizioni capillari, minuziose, e allo stesso tempo immaginifica e raffinata, ironica e affabulatrice.
Perdonate, caro dottore, questa descrizione che sembra presa da un giornale di moda a un amante per il quale questi minuti ricordi rivestono un’importanza enorme; due folte ciocche bionde e inanellate, i cui riccioli formavano come delle onde di luce, scendevano opulente ai lati della fronte più bianca e più pura della neve vergine caduta durante la notte sulla cima più alta delle Alpi; ciglia lunghe e separate come quei filamenti d’oro che i miniaturisti del medioevo fanno irradiare dalle teste dei loro angeli, velavano per metà due pupille di un verdeazzurro simile ai bagliori che mandano i ghiacci sotto una luce obliqua.
Gautier fu, tra l’altro, scrittore di racconti fantastici, tra i quali La caffettiera, Piede di mummia, Jettatura, Il cavaliere doppio, tra gli altri. Avatar si colloca nel genere ampio e variegato del racconto fantastico nello stile inaugurato da E.T.A. Hoffmann il cui romanzo Gli Elisir del diavolo e il famoso racconto L’orco insabbia avrebbero per sempre stabilito un punto di riferimento per la letteratura del soprannaturale. Il racconto di Gautier deve molto allo stile di Hoffmann (che per lo scrittore francese fu sempre un modello a cui fare riferimento) ma si colloca soprattutto nella linea del romanticismo francese e di quell’orientalismo che tanta fortuna avrà nello stile degli scrittori successivi a Gautier (tra cui Huysmans), anticipando, con le descrizioni dei personaggi, quella sensibilità malinconica che troverà successivamente una sua strada più sulfurea e angosciante nei decenni successivi dell’Ottocento evolvendosi alla luce delle tendenze scientifiche nello studio della depressione che già sembrano riflettersi in quel gioiello che è L’Horla di Guy de Maupassant (in Russia, Il sosia di Dostoevskij, con le descrizioni dello sdoppiamento psicologico, quasi psicotico del suo protagonista è già sulla strada di una sensibilità decisamente moderna). Certo è che bisognerà aspettare la prima metà del Novecento per trovare teorie scientifiche sullo sdoppiamento della personalità indicato con il termine generico di psicosi, non ultimo il bellissimo saggio di Eugène Minkowski La schizofrenia. Sul rapporto tra psicoanalisi e letteratura, ovviamente non si possono non citare i saggi di Freud sull’arte, la letteratura, e il linguaggio (per esempio Personaggi psicopatici sulla scena) e in particolare il saggio sul perturbante, dedicato in gran parte proprio all’analisi di Der Sandmann di Hoffmann. Quello del doppio è insomma un tema fantastico (nella, non a caso, doppia accezione del termine) da esplorare per uno scrittore, un tema che dà la possibilità di elaborare il personaggio in maniera da creare risvolti inaspettati e inediti, e di lavorare all’interno e all’esterno della trama, in quelle che chiamerei le pieghe contigue tra racconto e realtà, tra percezione e oggettività,richiamando continuamente l’attenzione del lettore sui risvolti della trama e sulle implicazioni della storia. La possibilità di modulare il racconto in chiave ironica, inquietante, perturbante o assurda a seconda dell’abilità stilistica dello scrittore si protrae fino ai nostri giorni con esempi notevoli tra cui quelli di Nabokov (nel Novecento e nel postmoderno, questi confini conflagreranno tra l’altro con l’irruzione conclamata della paranoia come strumento di percezione di una realtà sfuggente e inspiegabile nei termini razionalmente oggettivi del common sense).
Tornando al racconto di Gautier e all’impiego di un leitmotiv tipico del fantastico, come quello del doppio, esso si declina però con un’originalità meno evidente a un primo sguardo, perché sovrastato dall’atmosfera e dallo stile sfarzoso della scrittura descrittiva, cesellata e cristallina al punto da far risultare il corpo un artificio prima di tutto linguistico e poi carnale. Immergendosi più a fondo, però, il racconto contiene già elementi che lo distaccano dal puro romanticismo per proiettarlo già in una fase liminale in cui si avverte il limite della pura fantasticheria e l’irruzione della realtà materiale che permea la vita quotidiana.
Ho parlato spesso in questo blog di doppelgänger in letteratura e nel cinema e confesso di avere una vera passione per il tema e per le possibilità narrative che può ispirare. Diversi grandi scrittori della letteratura si sono cimentati con il tema. Ma Avatar di Théophile Gautier non è soltanto un racconto sul doppio e sugli snodi della trama a cui questa figura può far tendere, quanto un capolavoro di descrizioni e di stile, una delizia per gli occhi della mente. C’è poi il fatto che tutti i personaggi di questo racconto sono simpatici e ti verrebbe voglia di frequentarli, se fossero veri – una cosa poco ortodossa da dire in termini critici, ma che rende bene l’idea nel caso di certi scrittori – e Gautier è uno di questi: quando lo leggi, ti verrebbe voglia non solo di diventarci amico, di “far parte del suo giro”, ma di entrare direttamente in quel mondo di descrizioni minuziose che già è tanto visivamente stimolante e così abile nel trasmettere l’atmosfera del tempo, il suo spirito orientalista e le inclinazioni di una moda più ricca e composita che mai.
In un bel saggio, Mieke Bal* cita, in apertura, Bertrand Russell sulla descrizione, definita come: “enunciazione di pensieri su particolari situazioni, oggetti e individui, espressi nella forma soggetto-predicato” avviando la sua riflessione narratologica sul romanzo proprio sul seguente principio: malgrado la descrizione sia considerata come un “supplemento” e una sorta di interruzione nel motore della trama e degli avvenimenti, essa ha invece un ruolo “naturale” nella narrazione, facendone parte a pieno titolo come le azioni. Sembrerà banale ribadire questa importanza (più banale per gli scrittori che per i lettori, probabilmente), ma proprio in un tempo di racconti fattuali come è il nostro (in cui la trama deve prevalere sullo stile e ai fatti è conferita la funzione di orientare il genere narrativo e tenere alta la soglia d’attenzione di un lettore ormai disattento allo stile), il discorso sul tema della descrizione può tornare utile per comprendere le differenze tra la grande letteratura e quella che grande non è (pur risultando piacevole alla luce del principio dell’intrattenimento). Avatar è un gioiellino di stile che integra perfettamente le descrizioni con la trama e gli avvenimenti, risultando divertente e modernissimo proprio nell’intersecazione di questi due movimenti perché ne risulta un’ironia raffinatissima proprio rispetto alla trama.
Avatar è al contempo un capolavoro di descrizioni e una prova eccellente di come esse si integrano nella trama arricchendo le implicazioni psicologiche dei personaggi, disegnandone la personalità e l’ambiente (lo sfarzo dei nobili, dagli arredi delle loro dimore ai particolari minuziosamente resi dalla penna dei loro abiti e delle loro movenze e la sobria eleganza del borghese e della scansione del suo tempo quotidiano). Le descrizioni forniscono, tra l’altro, uno spaccato storicamente accurato della moda e delle tendenze dell’epoca, e informano una trama perfettamente ascrivibile all’epoca romantica: la passione non corrisposta, le differenze sociali, la malinconia come male di vivere, con quella sua tendenza all’orientalismo, come mistero e magia. Ovviamente Gautier è figlio della sua epoca per la quale l’orientalismo era già un elemento presente nel gusto estetico della moda e negli elementi narrativi da essa permeati (l’arredamento, la provenienza degli oggetti, le decorazioni, le atmosfere – ricordo di Gautier anche il racconto Il piede di Mummia); nota era l’abitudine sua e di altri scrittori e poeti, tra i quali ovviamente Baudelaire, al consumo di hashish, consumato all’epoca sotto forma di dawamesk, una sostanza proveniente da quel medio oriente nel quale si svilupperà la leggenda di Hassan Al Sabbah, capo della setta degli assassini (o hashishin) di cui racconterà nel Novecento in piena epoca Beat un scrittore come William Burroughs.
In Avatar, un certo orientalismo non a caso viene già evocato dal titolo iconico e leggermente futurista (se guardato con gli occhi di oggi…): termine sanscrito, dal significato complesso perché rimanda al concetto induista della “discesa”, dell’apparizione materiale o di un’incarnazione della deità sulla Terra. Nel linguaggio comune e impoverito di oggi, tra l’altro, il termine è legato all’idea di un alter ego dietro al quale ci celiamo o, semplicemente, decidiamo di presentarci in pubblico.
Gautier, che era profondamente calato nella sua epoca e particolarmente sensibile alle sfumature, intitola il suo racconto con il termine sanscrito per raccontare, in fondo, gli esiti ironici di una pena d’amore devastante e le complicate conseguenze che già nella società sfrigolante di trasformazioni sociali come è quella francese del 1850, presenta la borghesia inquieta ma consapevole della propria posizione sociale, stretta tra il bisogno di affermazione di un io romantico e deragliato dalla passione non corrisposta, e lo scontro con una realtà oggettiva in cui i vincoli sociali vengono al pettine come i nodi di un mondo in cui la magia ha ormai più rischi che possibilità e semmai costituisce uno stilema attraverso il quale riflettere sull’identità sociale dell’individuo e sulla frizione che un passaggio “artificiale” di classe sociale può comportare in termini non tanto psicologici, quanto inevitabilmente materiali.
Il racconto si apre con la descrizione della “malattia” del protagonista, Octave, un giovane bello e apparentemente spensierato, affetto però da una forma di inedia che nessun medico è in grado di decifrare. La descrizione del deperimento di Octave farebbe pensare, dapprima, alla possibilità che sia all’opera un vampiro o, per lo meno, uno spirito ctonio e pernicioso che sta mirando all’anima del giovane, attraverso un misterioso quanto distruttivo intervento sul corpo. In realtà, la descrizione del male che ha colpito Octave sembra corrispondere con quel “sole nero” che descrive molto bene il termine assai meno poetico di depressione e che fino ai primi decenni del Novecento si chiamava malinconia
Nessuno riusciva a capire nulla della strana malattia che minava lentamente Octave de Saville. Non stava a letto, faceva la solita vita, dalle labbra non gli usciva mai un lamento, eppure deperiva a vista d’occhio. Interrogato dai medici che la sollecitudine di amici e parenti lo costringeva a consultare, non accusava nessun sintomo preciso e la scienza non riscontrava nessun disturbo allarmante: il petto, auscultato, non rivelava niente di anormale e l’orecchio, appoggiandosi al cuore, sorprendeva a malapena un battito troppo lento o troppo accelerato; non tossiva, non aveva febbre, ma la vita si ritirava da lui sfuggendo da una di quelle crepe invisibili di cui, a detta di Terenzio, l’uomo è pieno. […] un viaggio a Napoli non aveva sortito risultati migliori. Il bel sole, tanto decantato, gli era sembrato nero come quello dell’incisione di Albrecht Durer; il pipistrello che porta incisa sull’ala la parola melancholia sferzava quell’azzurro abbagliante con le sue membrane polverose e svolazzava tra la luce e lui […]
L’incontro con il dottor Balthazar Cherbonneau, che ha vissuto in India e ha appreso metodi di meditazione e di trasmigrazione dell’anima, lo induce ad aprirsi e a confidare la natura del suo male: un innamoramento disperato per un donna bellissima e nobile, la contessa Praskovie Labinska, incontrata casualmente alle Cascine, della quale Octave è diventato frequentatore e amico prima a Firenze e poi a Parigi. La donna, però, è talmente innamorata del marito, il conte Olaf Labinski, da annullare qualsiasi speranza che Octave possa diventare il suo amante. Conoscendo questi precedenti della vita di Octave, il medico gli propone un esperimento insolito: uno scambio di personalità in cui l’identità di Octave possa trasferirsi nel corpo di Olaf Labinski e giungere, così travestito, al cuore della contessa. L’esperimento riesce con il raggiro del conte Labinski, capitato nello studio di Cherbonneau e trasferito nel corpo di Octave.
Lo scambio di personalità a opera di un agente esterno è ovviamente un espediente poco canonico nel racconto fantastico e in questo acquisisce una sua peculiarità dovuta proprio alla presenza di un medico orientalista che utilizza principi che sfuggono alla scienza europea “standard”. I due personaggi non scambiano soltanto i corpi ma anche i ruoli sociali. Pur restando proprietari della propria vita psichica, si trovano a vivere ciascuno la vita dell’altro, con effetti e conseguenze che si rivelano particolarmente sconvolgenti e persino grottesche per il conte Labinski. Derubato della sua vita, del suo onore e della moglie amatissima, Labinski viene costretto a vivere la vita di un borghese di cui non sa nulla e solo quando ne indaga l’identità sociale, leggendone le lettere e alcuni certificati di proprietà (!) capisce di dover passare al contrattacco e si trasforma nel persecutore di Octave, rivendicando il diritto alla propria vita e soprattutto invocando la vendetta nei confronti dell’usurpatore. Octave, dal canto suo, pur vestendo i panni del suo rivale, non riesce in alcun modo ad aggirare la diffidenza della contessa, messa in guardia da un’intuizione dopo aver visto lo sguardo ardente dell’uomo che, pur avendo le sembianze del marito, non sembra corrispondere a quello che lei ha sempre visto in lui. Praskovie si fa sempre più sfuggente fino a quando non si trova faccia a faccia con Octave-Labinski a colazione e gli parla in polacco, la lingua che i due hanno sempre usato nell’intimità e nella vita familiare. Tuttavia, il “marito” non solo non le risponde, ovviamente non capendo una parola, ma si giustifica goffamente dicendo di aver dimenticato quella lingua, provocando nella donna un’indignazione tale da farla rinchiudere in se stessa. Disperato da questa ennesima défaillance, Octave riceve prima una lettera e poi la visita Labinski che, dopo un confronto duro e brutale a parole, lo sfida a duello.
Al di là della minuziosa descrizione dei personaggi attraverso una scrittura elegantissima e, a tratti, inarrivabile, che richiede nel lettore un’attenzione quasi impossibile oggi, ma ben consolidata in un’epoca in cui la fotografia era ancora un esperimento (che avrebbe avuto conseguenze dirompenti per l’intera società), il racconto di Gautier merita di essere letto se non altro per la raffinata ironia di cui è infuso. In parte, questa ironia passa per quella che chiamerei l’allure dei toni e dello stile nel presentarci un personaggio – Octave – che è consapevole, nonostante il disperato tentativo dello scambio di corpi, che la personalità psichica è qualcosa di inalienabile. Avatar mostra che l’identità dell’individuo, l’io, per dirla in termini ben noti all’occidente, è qualcosa che, nell’epoca che si sta aprendo alla riproducibilità tecnica, possiede un’unicità che non può tuttavia sganciarci dai vincoli sociali che sono come bastioni invalicabili quando l’individuo esce dal proprio isolamento psichico (in questo caso la malattia di Octave all’inizio del racconto) per (ri)trovarsi in pubblico come individuo sociale, visto ed esperito dagli altri. L’illusione di poter passare per un altro può persistere per un po’ ma è destinata a durare poco perché lo stratagemma del Dottor Cherbonneau, a metà tra soprannaturale e mistero orientale, non farà che scontrarsi con l’evidenza che la vita di un altro non può essere posseduta se non per un tempo breve e ingannevole, ovviamente in bilico per essere smascherata. Quando Octave si ritrova nel palazzo dei Labinski, Gautier ci offre una visione ai limiti del comico: l’imbarazzo del giovane, incapace di trovare la propria stanza nella dimora labirintica, dove si trova celata dietro i suoi minuziosi rituali quotidiani la donna inarrivabile e bellissima è l’ostacolo principale con cui, nei toni da commedia deliziosa, lo scrittore ci fornisce realisticamente ciò che potrebbe accadere a chiunque di noi in una situazione analoga. Octave decide di dissimulare tutto il suo imbarazzo e cerca persino di vestire i panni dell’altro (letteralmente) con tutta la nonchalance possibile, fallendo però proprio sul controllo emotivo e psichico che traspare dal suo sguardo appassionato quando rende evidente a Praskovie Labinska il suo prorompente e indecente desiderio mentre la donna si sta preparando nella sua camera. Gautier è eccezionale qui: lo sguardo del lettore è catapultato nello sguardo di Octave che guarda Praskovie e, di rimando, nello sguardo quest’ultima che si accorge che qualcosa non va nell’uomo che sembra suo marito ma ha lo sguardo di un altro.
La conclusione del racconto rivela la profonda sensibilità di Octave nei confronti del conte Labinski e sorprende per la riconciliazione che sembra soddisfare tutti, a partire dal Dottor Cherbonneau le cui anziane spoglie conosceranno nuovo vigore grazie all’antica sapienza di trasmigrazione delle anime che il dottore mette a proprio vantaggio con un atto generoso che salva in primo luogo se stesso. Ma la realtà reclama un prezzo che né la sapienza di Cherbonneau, né la generosità di Octave possono davvero contrastare. Il corpo, involucro dell’io e della passione, è per Gautier inscindibile dal suo contenuto, ribadendo quella profonda unità con anima che è al centro della moderna idea di mente, del concetto fenomenologico di coscienza e che è già assodata nella filosofia illuministica perlomeno dai tempi di Condorcet.
L’oggetto del desiderio resta in fin dei conti irraggiungibile anche attraverso la “magia” e il cuore altrui è una fortezza inespugnabile che può distruggere l’anima più sensibile, come nel caso di Octave, rendendola evanescente, annullandone proprio ciò che la rendeva reale e materiale attraverso il male dell’epoca che un secolo dopo si chiamerà “depressione”. Un racconto bellissimo che può essere letto trascendendo il fantastico per proiettarlo tra gli esempi di quella profonda unità di ragione e passione di cui i francesi sono maestri impareggiabili.
Nel 1963 venne realizzato un film per la TV francese dal racconto:
