Soldado di Stefano Sollima

Per anni ho faticato a interpretare il reale tenore delle parole di Kurtz nell’ultima parte di Cuore di tenebra quando dice “Kill them all”, uccideteli tutti, ma poi ho visto Soldado di Stefano Sollima (sceneggiatura di Taylor Sheridan) e le parole tanto ambivalenti dello scrittore naturalizzato inglese hanno fornito una spinta emotiva sgradevole e necessaria di fronte alle vicende narrate nel film di prossima uscita in Italia. E il sentimento, che definirei più come un’ondata, non mi è piaciuto anche se il film l’ho guardato con interesse. Soldado  racconta un’operazione militare simile a quelle narrate nei libri di Don Winslow (The Cartel) sullo sfondo di quello che accade al confine tra Messico e Stati Uniti con il traffico di migranti. È in qualche modo il secondo capitolo di quello che era iniziato con Sicario di Denis Villeneuve, un film di grande tenuta drammatica che affiancava magistralmente azione e cronaca e faceva riflettere sullo stato delle cose, suscitando alcuni dilemmi morali non proprio ordinari . Il film di Sollima è fondamentalmente un’opera di altrettanta tenuta drammatica ma molto più cinico dell’opera di Villeneuve. Se Sicario parlava del traffico della droga, dei cartelli che lo controllano in Messico, della spietatezza inimmaginabile delle bande di assassini e trafficanti che scorrazzano al di qua e al di là del confine, e illustrava il dilemma morale di alcuni personaggi, in particolare quello interpretato da Emily Blunt, il secondo capitolo del regista italiano dà per scontato lo stato di conflitto permanente la necessità dell’intervento per contrastare il terrorismo che si infiltra tra le fila dell’immigrazione clandestina. Il problema delle modalità di intervento delle autorità americane diventa in questo film solo un problema di tempi e modi, in pratica di real politik, e abbraccia senza se e senza ma l’idea che sì, se non c’è legge e tutto è permesso, tanto vale che chi nella guerra ha più mezzi li usi anche a costo di trascendere totalmente ogni principio di diritto internazionale, etica giuridica, e sollecitare nello spettatore un sentimento uguale per crudeltà ma contrario per destinazione che equivale a ripetere la nota inquietante, disperata e sconvolta di Kurtz “Ma sì, uccideteli tutti”. Se il contrasto ai trafficanti è uno stato di guerra permanente per arrestare il dilagare di una sostanza che sempre più si rivela l’ultima merce  (come la chiamava William S. Burroughs) che ha invaso gli Stati Uniti (e il mondo) come un’epidemia, la nuova piaga di questi e degli anni a venire – in realtà già in corso da alcuni decenni – è diventata ormai il traffico di esseri umani. Lo sconfinamento anche a prezzo della vita, della massa di disperati che attendono di essere caricati e poi accompagnati attraverso il confine per ritrovarsi clandestini negli Usa e sperare di trovare una nuova vita, come si vede nelle scene in notturna del film, crude, livide e scabre, è l’altro remunerativo business delle terre senza legge, di cui il confine messicano offre da decenni un valido esempio. I volti senza nome che ogni giorno attraversano questo e altri confini, potrebbero nascondere terroristi e criminali, ponendo un problema di intervento e controllo necessari.  I trafficanti di questo movimento si chiamano nel gergo locale “coyote”: fiancheggiatori, facilitatori, falsificatori di documenti.

Su questo scenario, la storia del film, che traccerò per sommi capi, è quella di Matt (Josh Brolin) funzionario della Cia che assolda Alejandro (Benicio del Toro) dopo che a Kansas City un attentato in un supermercato ha fatto quindici vittime e richiama le autorità a un intervento immediato. Sospettando che i terroristi vengano trasbordati oltre confine tra la massa di clandestini che entrano negli Stati Uniti, aiutati da un sistema rozzo ma efficace di fiancheggiatori e trafficanti vari, la task force, in cui opera Alejandro sotto copertura, decide di iniziare una nuova guerra ai cartelli della droga per creare scompiglio, mettendo a soqquadro gli equilibri già complicati e utilizzando metodi che sconfinano ogni etica, con un’operazione che prevede il rapimento della figlia (Isabela Moner) di uno dei capi del cartello, per far credere che il mandante sia un rivale del padre. Durante il tragitto per portare la ragazzina in Messico, con l’intento di lasciarla in un territorio controllato dal cartello rivale della famiglia, la polizia messicana tende un agguato agli americani che a loro volta uccidono i loro colleghi messicani mentre la ragazza fugge terrorizzata. Alejandro la ritrova poco dopo nel deserto messicano ma siccome le autorità americane scoprono che gli autori dell’attentato sono terroristi interni al paese, e non migranti dal Messico, decidono di abbandonare le operazioni, temendo ripercussioni politiche troppo gravi, e Alejandro si ritrova da solo con la ragazza a dover organizzare il suo rientro negli Stati Uniti. L’operazione è complicata e rischiosa, nel momento in cui viene a mancare l’aiuto della Cia e lui è costretto a procedere da solo, fingendosi un immigrato clandestino e pagando i trafficanti al confine per entrare nel paese.

Mexican border crossing
Attraverso il confine Messico Stati Uniti – Foto tratta da ProPublica

Sollima, regista di Gomorra, ha già ottenuto il suo successo con la saga dei camorristi nostrani, e con questo film percorre le grandi distese del sudovest americano privandolo di qualsiasi fascino epico, innestando la sua regia su vicende note già con il libro di Don Winslow The Cartel ma portando la narrazione su un piano asciutto e concreto, fattuale e crudo in cui ad azione corrisponde reazione e viceversa. L’atmosfera claustrofobica che ispira la serie italiana, con i suoi personaggi insopportabili ma dalla drammaturgia efficace,  ha fornito al regista una bella palestra per realizzare un film che nemmeno si pone il problema di indagare perché i personaggi siano tanto orribili e lascia lo spettatore completamente solo, con ben poco spazio per porsi dilemmi morali. Il film ha notevoli scene di azione e la tensione drammatica non si stempera nemmeno nei (pochi) momenti di stasi, nei quali il paesaggio non offre alcun conforto ma anzi, grazie all’impiego di una musica cupa e incombente (di Hildur Guðnadottir) che rimbomba per tutto il film, si presenta duro e selvaggio, perfetto contraltare all’epica di morte che è quella parte di mondo. Come i tamburi martellanti nel libro di Conrad segnano l’angoscioso livore del cuore di tenebra dell’Africa coloniale e incupiscono il paesaggio, i colori scabri e l’aridità del paesaggio nel film sono un ovvio correlativo al deserto dis-umano in cui la fuga è solo un mercanteggiamento.

Il confine nevralgico del Messico è il cuore di tenebra del ventunesimo secolo (a mio parere non avrebbe mai smesso di esserlo, come si può ben ricordare se si sono letti Blood Meridian e The Crossing di Cormac McCarthy) che forse giustifica i mezzi brutali che vediamo adottare dai personaggi del film. La violenza infame dei trafficanti giustifica la violenza brutale delle autorità? Forse sì, anche se Alejandro, trovandosi solo a scavarsi la via di fuga, deve combattere a suo modo la sua guerra. Quello che mi chiedo, da spettatrice, è se tutto ciò possa contribuire a farci desiderare un mondo migliore o se, date le condizioni in cui viviamo nella realtà fattuale, non ci basti ricevere la conferma che, di fronte ai barbari (quali che essi siano), provare un sentimento violento di “Uccideteli tutti”, non sia in fondo la capitolazione più misera della miseria in cui viviamo. Il film di Sollima si ferma al di qua di questa domanda e non si pone minimamente la possibilità di illustrare una via diversa perché in un mondo cinico, violento e brutale, la guerra al narcotraffico e ai suoi effetti collaterali non ha nessun intento di salvare l’umanità da se stessa; quando si parla di guerra alla droga non se ne affronta minimamente la dimensione sociale e politica e non ci si pone la domanda più logica e ovvia: quella secondo cui sarebbe proprio la guerra al narcotraffico a formare la base dei cartelli e l’immane costo sociale che la droga stessa causa alla società (e da questo punto di vista si coglie tutta la differenza in termini di profondità critica tra questo film e un romanzo come The Cartel). La guerra alla droga, così come viene rappresentata qui, è semplicemente pura reazione brutale di fronte alla brutalità della sua controparte. La disumanità, in un film così, è condannata a rimanere se stessa – e a perpetuare il più orrendo dei principi: se Dio c’è, ha deciso di tacere, ma senza la legge, tutto è permesso.


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