Diario dalla città fantasma

Prima che iniziasse questo disastro, volevo tornare a scrivere di libri e film, e avevo anche una folta lista di cui occuparmi. Invece, quello che sto vivendo, che stiamo vivendo, è un incubo collettivo che richiederà un enorme sforzo di elaborazione nel prossimo futuro; un incubo che mette sullo sfondo tutta la letteratura e i film che mi piacevano tanto. Mi auguro che sia una reazione emotiva temporanea, anche se comincio a vedere una trasformazione della percezione collettiva attraverso questo bisbiglio globale che percorre i nostri social fortemente influenzata da un’ansia pervasiva e, ho l’impressione, di lunga durata.

L’aspetto che più mi atterrisce è il pensiero di aver letto romanzi distopici, racconti di disastri e virus letali, di aver visto film apocalittici più o meno verosimili, ma di non essere minimamente preparata a fronteggiare la risposta emotiva e psicologica di questa nuova situazione in cui talvolta mi sembra tutto irreale. In un bel passaggio di Mrs. Dalloway Virginia Woolf considera quanto dolore gli esseri umani debbano sopportare nel corso della propria vita. Ci ho pensato perché pochi minuti prima avevo avuto una telefonata con mia madre che mi aveva raccontato, con una precisione e una chiarezza che raramente le avevo sentito negli anni, del bombardamento di Roma e di come la sua casa venne rasa al suolo e sua sorella di 17 anni perse la vita per gli effetti dell’esplosione mentre giaceva nel letto con la tubercolosi.

A parte il terrore della guerra fredda, e i continui tentativi di intimidirsi a vicenda da parte dei leader dei due blocchi che governavano il mondo, a parte l’11 settembre, le guerre del Golfo, e la maledetta crisi finanziaria del 2008 che ci ha incasinato la vita lavorativa, a quelli della mia generazione era stata risparmiata la tragedia di una guerra mondiale. In fondo, ci era andata bene. A parte qualche film apocalittico sul futuro prossimo e gli scenari possibili, i nemici ce li siamo fabbricati da soli o ce li hanno un po’ creati a tavolino. E lo spettro della povertà, nelle meravigliose società occidentali, resta comunque in fantasma di cui tutti sanno ma che nessuno vuole affrontare.

Poi è arrivata questa cosa un po’ arcaica e un po’ pericolosa che si chiama epidemia.

Quando mio padre era in isolamento qualche tempo fa per una meningite, ha contratto un super batterio.  Visitarlo con una bardatura di guanti, cuffia, maschere e grembiule verde era diventato normale. Ci lavavamo le mani prima di entrare, usavamo il gel prima di indossare i guanti e facevamo lo stesso dopo la visita. All’inizio, non ci eravamo tanto simpatici con gli infermieri, perché i parenti dei malati sono spesso dei rompiscatole; ma nel giro di qualche giorno e qualche confidenza personale (avevo insegnato per sei anni in un dipartimento di medicina quando ero più giovane) si era trovato un terreno comune di solidarietà. Quando vedo che adesso, negli ospedali di tutta Italia e presto anche in altri paesi, tutti indossano quel tipo di protezione è come se questo mondo si fosse trasformato in un enorme scenario di contaminazione e di guerra. Mi piacerebbe dare una mano, aiutare a fare qualcosa invece di starmene qui a casa ad attendere che passi “’a nuttata”, per citare una famosa battuta di Eduardo, ma dicono che la cosa migliore per chi non è medico o infermiere sia restare a casa e fare il proprio dovere evitando al massimo rischi di propagazione. E così sono qui ferma a scrivere davanti a questo oggetto che se non ce lo avessi sarei già psicologicamente deceduta.

L’altro giorno, seguendo le regole che ci dicono di stare a casa e non uscire se non per stretta necessità, ho preso la macchina per una piccola commissione ma ho fatto il giro largo prima di tornare in isolamento come un detenuto in permesso speciale.  Volevo dare un’occhiata ai luoghi che solo pochi giorni fa percorrevo, o in cui ho sostato in mezzo alla folla centinaia, migliaia di volte nella mia vita, i luoghi di passaggio e di sosta, di aggregazione e di svago che ho persino sognato, tramutati e trasformati come solo capita nei sogni, per cogliere la differenza tra un prima che non sarà mai più tale e il dopo dell’adesso, nella fila dei giorni dell’emergenza.

Vedrai, mi sono ripetuta, non sarà poi così traumatico vedere la città vuota; quante volte lo hai fatto quando lavoravi di notte e attraversavi la metropoli in solitaria, guidando rilassata e sognante? Ci sono tante parole per descrivere la solitudine e la desolazione dei luoghi, tra i quali quello più connotato di tutti: deserto. Nome e aggettivo hanno la stessa forma in italiano ed etimologicamente significa “luogo abbandonato”. Anche usando il nome come metafora del vuoto e della solitudine dei luoghi, non si rende l’idea di quello che ho visto il giorno 1 del blocco richiesto dalla pandemia nel tentativo di arginare un disastro peggiore di quello che tutti ci aspettavamo. Roma così vuota non può essere reale, è tutta un’allucinazione, un bad trip… Invece no. Non è un luogo abbandonato, però e nemmeno desolato. E’ un luogo che non è più lo stesso di prima: trasfigurato, astratto, sospeso, inimmaginabile… E allora capisci anche la differenza tra le parole: il deserto è un posto di sabbia e rocce, sassi e dune o sale e pietre; è un luogo di silenzio quasi mistico. Quando dici: questa città è un deserto, stai usando una metafora persino limitante rispetto alla sensazione di desolazione e tristezza e angoscia che stai provando in quel momento, e tutto questo non ha niente a che fare con l’uso figurato delle parole perché interiormente senti che a un’esperienza di questo genere proprio non eri preparato. Non ci sono nubi purpuree, gli altri sono vivi; è solo che non ci sono più, non si vedono più.

Piazza S. Cosimato

Soltanto dieci giorni fa, eravamo a prendere il caffè e a fare battute un po’ ciniche e beffarde alla Ennio Flaiano in quei rapidi istanti che ci separano dall’inizio dell’attività quotidiana, quegli istanti in cui si incontrano gli avventori abituali del bar o del caffè e si scambiano chiacchiere rapide e a volte fulminanti, per cui questa città è famosa. Ricordo persino l’ultima lezione, una paio di settimane fa, in un ufficio dell’Eur da cui si vedono le prospettive dei palazzi modernisti e uno scorcio di quello che qui chiamiamo il Colosseo quadrato. Nella luce morbida e soave del pomeriggio romano, il marmo bianco e il grigio dell’asfalto giocavano a creare un contrasto elegante e sorprendente con il cielo azzurro intenso, mentre il solito rumore del traffico faceva da familiare sfondo sonoro alle chiacchiere prima di iniziare la lezione. In quei cinque preziosi minuti in cui si sono accorciate le distanze tra me e il gruppetto che mi stava vicino, mi sono messa a raccontare di un film girato proprio in quelle strade e nei dintorni di un quartiere ancora in fieri, con atmosfere metafisiche e spaesanti.

È un film che pochi appassionati di fantascienza avranno visto: L’ultimo uomo della terra, 1964, con Vincent Price diretto da Ubaldo Ragona, girato in gran parte in un Eur deserto che coglie molto bene l’angoscia trasmessa da I Am Legend di Richard Matheson . Price è un medico assediato da una torma di post umani che, dopo aver contratto un virus, si sono trasformati in zombie un po’ goffi e caracollanti. Il medico si aggira per le vie deserte di una città cantiere, in cui si intravedono luoghi lasciati a metà e i palazzi che finiranno per ridisegnare tutto il profilo del celebre quartiere. Si sveglia la mattina, prende il caffè, prepara la casa con specchi e aglio (oggetti che gli zombie repellono), carica il carburante del gruppo elettrogeno e poi sale in macchina a fare la spesa in un supermercato abbandonato ancora pieno di beni e cibarie. La strada è costellata di cadaveri, ogni tanto ne prende uno se lo carica e lo butta in una grande, gigantesca fossa comune piena di altri zombie che andranno a bruciare. Niente male la scena della voragine scavata, probabilmente parte di un cantiere  che faceva parte della zona in costruzione.

In un romanzo post apocalittico La Nube Purpurea di M. P. Shiel, un ultimo essere umano, a dir vero piuttosto antipatico e miserabile, si trova a “ereditare” tutto il mondo, inclusi soprattutto beni di lusso e risorse preziose, che però appaiono ormai svuotati di ogni senso, dal momento che sparita l’umanità ne sono spariti anche i rapporti economici, il valore di scambio e tutto quello che caratterizzava la vita collettiva. Nel romanzo di Shiel, la causa è l’eruzione del Vesuvio con la propagazione di una nube profumata altamente tossica che ammazza tutti. L’unico a restare vivo è l’antipaticissimo protagonista. La nube purpurea è un libro angoscioso e a tratti fastidioso, ma interessante solo per l’intuizione sull’inutilità dei beni in un mondo deserto di umani.

Nel traffico di quel bel pomeriggio romano, nella rassicurante presenza degli altri umani intorno a me, che come me tornavano a casa o andavano a qualche appuntamento, ho ripensato a quel film e a quel libro con la gioia che io, in fondo, ero viva, che avrei potuto rivedere quel film dieci volte senza provare anche solo minimamente l’angoscia che avevo provato anni prima quando, ancora piccola, non mi avevano fatto dormire. Ancora non sapevo, due settimane fa, ancora non mi rendevo conto, di cosa stesse succedendo.

Ancora non sapevo che tutta quella tranquillità e quell’anomalia nell’assenza di traffico su una delle strade più trafficate di Roma non era che il preludio che qualcosa sarebbe cambiato e cambiato parecchio. Ora dopo ora, giorno dopo giorno sono cominciate a fioccare telefonate e messaggi in cui venivano cancellati appuntamenti di lavoro, riunioni, lezioni, spostati a data da definire colloqui e incontri; nei bar e in tutti i luoghi pubblici non si parlava d’altro che dell’imminente decreto che avrebbe ristretto i movimenti e delle nuove misure, rese necessarie da un’emergenza sempre più pressante, perché c’è questo virus che sta cominciando a diffondersi a macchia d’olio e un paese intero, al nord, un paese di 10.000  anime ma che ha più fabbriche di tutta Via Tiburtina messa insieme, era già entrato tutto intero in quarantena. Quarantena: una parola che fino a poco tempo si sarebbe riferita a due cose soltanto: virus letali in zone ancora problematiche del mondo o racconti distopici legati a disastri cosiddetti human-made. Era dai tempi di Chernobyl che non sentivo la parola quarantena riferita a qualcosa di reale.

Persino il caffè con un’amica, il bicchiere del venerdì e la passeggiata del fine settimana sono diventate quasi un lusso che, misteriosamente, sembrava sempre più inappropriato e incongruo, sempre più destinato a diventare qualcosa di surreale e forzato, come in un film di Bunuel. Avete presente, quando ne Il Fascino Discreto della Borghesia la compagnia degli amici se ne va a piedi per raggiungere non si sa bene quale destinazione mentre intorno c’è un’aria di straniamento che non si sa bene come interpretare e tutto è vuoto, deserto? Ah, i geniali film di Bunuel… non si mai come interpretare certe azioni e certe situazioni, eppure tornano sempre utili nella vita, perché prima o poi a tutti noi capiterà di trovarsi in una situazione alla Bunuel.

Senza indossare la mascherina, peraltro introvabile, ho cominciato ad andare a piedi e a evitare i mezzi pubblici, a distanziarmi sempre di più dalle persone che incontravo per strada e a trovarmi sempre più attaccata alle notizie da tutto il mondo, come se si facesse strada una nuova specie di ansia inevitabile, simile a quella provata l’11 settembre o durante la crisi del 2008 eppure diversa, rarefatta, legata soprattutto all’impressione che una nube ben più densa e reale di quella purpurea di Shiel si stesse avvicinando.

Prima c’era stato il senso di tranquillità mediato dalle immagini e dai titoli e dalla lontananza della Cina. Poi è subentrata l’ironia per quelli che annunciavano pericoli a cui pochi hanno creduto all’inizio. Qualcuno mi diceva di non guardare la televisione, sempre foriera di paure e inquietudini indotte. Giorno dopo giorno televisioni e giornali sono stati monopolizzati da un’unica notizia e da un unico protagonista: il virus. Non sembrava esserci altro: spariti i conflitti, spariti gli immigrati, sparito il cambiamento climatico, sparita la cronaca nera, gli assassini, i femminicidi, i ladri e i truffatori; mentre cominciavano ad apparire cancellazioni di concerti, di eventi, di fiere, di appuntamenti… Sono cominciati ad apparire numeri e statistiche, dapprima buttati un po’ qua e là e poi sempre più aggiornati su base quotidiana. È seguita l’incredulità con l’idea che Roma fosse ancora “immune”, consigli su come lavarsi le mani detti e ridetti da chiunque avesse a cuore misure igieniche persino banali e gli scienziati e i virologi in tv e negli articoli che dicevano di restare a casa e poi… la chiusura totale dei cinema, dei teatri, delle mostre, dei musei. C’è ancora il caffè aperto, ci dicevamo, possiamo farci un giro, ma la città appariva già svuotata dopo il primo decreto a cui due giorni dopo è seguita la chiusura di tutte le attività commerciali e la città è piombata improvvisamente in un vuoto siderale, in un deserto grigio piombo spettrale e sospeso.

Nei palazzi, la luce dalle appartamenti appare rassicurante quando si percorrono le strade deserte, sentendosi quasi di commettere un atto semi clandestino in questo tempo di decreti. Mai una democrazia occidentale dal dopoguerra aveva avviato misure così drastiche. Ma questa non è cosa nuova perché tra i giuristi il discorso viene già affrontato: certe misure sono costituzionali se sono temporanee. Le proibizioni sono state modulate e trasformate, nel linguaggio, in inviti e non c’è ancora l’esercito nelle strade – una misura che può essere più agevolmente adottata in paesi con scarso rispetto per i diritti civili. Qui da noi, nell’aria ormai inquieta dell’ovest, le persone sono invitate a restare segregate, e il discorso istituzionale verte sulla costrizione come responsabilità sociale. Per fortuna, siamo lontani dalle misure agghiaccianti citate, per fare un esempio, da Foucault in Sorvegliare e Punire. Nonostante tutti i difetti di questo mondo pieno di super ricchi bastardi sono contenta di essere nata in un’epoca e in un luogo in cui un ministro ti induce gentilmente a non uscire di casa perché se collaboriamo tutti, sarà più facile uscirne insieme.

Poi le misure igienico sanitarie hanno richiesto misure di tipo comportamentale. Bisogna stare lontani, bisogna tenere le distanze di almeno un metro, anzi meglio due. Chiunque può essere positivo, ancora peggio se si è asintomatici perché significa non sapere di avere il virus e poterlo trasmettere. E se non faccio il test come faccio a saperlo? e comunque non te lo fanno se sei asintomatico. E poi ci sono gli anziani da proteggere , che magari stanno soli nelle case ed è meglio non contaminarli. Ho rincominciato a usare il telefono come facevo un tempo, a parlare a distanza: la voce è un elemento persistente della presenza, anche se il corpo non si vede, persino più dell’immagine dell’altro su Skype (peraltro un po’ distorta) e con la voce ti arriva pure l’inquietudine della dislocazione spaziale annullata dalla simultaneità della comunicazione. Ho cominciato persino a inoltrare vignette satiriche sulla situazione e a far girare video divertenti, aggiungendomi al bisbiglio del mondo digitale. Essere virali quando c’è un virus autentico che sta seminando il panico è veramente il nonplusultra. Niente di meglio di un virus per capire il senso della parola virale. 

Poi succede che una persona con cui hai lavorato, che hai incontrato a sua volta ha lavorato o ha incontrato qualcuno risultato positivo al test. Ricostruisci a memoria tutti i passaggi e tutti gli incontri ma nel dubbio chiami il numero indicato per l’emergenza per chiedere se non sia il caso di fare il test pure tu. Ti dicono che se non hai sintomi, non c’è bisogno, basta restare a casa in quarantena per quattordici giorni. È incredibile come un tempo nonostante tutto breve possa diventare orrendamente lungo e inquietante, in attesa di vedere se si sviluppano i sintomi di un virus di cui non si sa molto.

Ho tenuto un diario in questo tempo da monade tecnologica. Un diario degli incontri, degli spostamenti, del rallentamento che ha avuto la mia vita, del tempo sospeso che condivido con la mia città, il mio paese, il mio continente e una parte del mondo sempre più grande. La Terra, malata cronica ormai a causa degli umani, e abitata da una specie ormai entrata in fase di quarantena, mi sembra sempre più piccola e sempre più lontana, perché se anche volessi e ne avessi la possibilità economica, non potrei muovermi di un passo oltre la porta di casa, oltre la soglia consentita in questo frangente. Sono in quarantena. E mi sono venuti in mente: gli immigrati chiusi nei centri di detenzione temporanea, gli animali di specie a rischio, i campi profughi, le foreste in fiamme, le carceri sovraffollate, i condomini sovraffollati di Manhattan, quelli di Shen Zen, quelli di Hong Kong, gli zoo di tutte le città a cui forse il personale non può più badare e le scimmie thailandesi impazzite perché non ci sono più turisti in giro che gli danno da mangiare e hanno cominciato ad azzuffarsi… Ecosistemi all’interno di un grande gigantesco ecosistema, compreso quello economico (lo chiamiamo anche tessuto produttivo, bella metafora) in cui qualsiasi distanziamento appare impossibile, inapplicabile: non ci sono più distanze, il sistema è interconnesso e qualsiasi cosa sulla terra, dopo questo, sarà contaminata in un modo o in un altro.

In The World Without Us, di qualche anno fa e tra i primi ad adottare una visione autenticamente globale del mondo come ecosistema ambientale e sociale, Alan Weisman diceva che dobbiamo per forza sentirci parte di questo “tutto” perché senza di noi gli scenari sarebbero ancora più devastanti. Gli umani hanno il dovere di curare e badare all’ecosistema in cui vivono perché ne fanno parte inestricabilmente. È così ovvio che ripeterlo sembra quasi pedante. Insomma, abbiamo un dovere morale, se non altro come specie, se vogliamo buttarla sul piano darwiniano. E allora penso alle scimmie diventate aggressive perché non hanno più il cibo dei turisti e alle dichiarazioni di Johnson sull’essere preparati a perdere i propri cari qualora l’epidemia si espandesse sull’isola di Albione. Come possono essere correlate le due cose, scimmie tailandesi e primo ministro inglese (satira a parte… e mi dispiace per le scimmie)? Lo sono sotto l’aspetto della specie e della percezione di quanto il darwinismo sociale brutale possa influenzare una società. Quello che va bene per spiegare il comportamento delle scimmie può spiegare anche il comportamento umano; spiegarlo, beninteso, non significa accettarlo. Nella lotta all’accaparramento delle risorse, la società inglese non deve imparare da nessuno ma in tempi di recessione, gli individui più deboli (le scimmie meno aggressive e gli umani con il sistema immunitario meno forte) potrebbero soccombere. Ma alcuni esemplari della specie homo sapiens che per qualche motivo sono al vertice della catena gerarchica di quell’ecosistema che si chiama società  sembrano molto a loro agio con una percezione brutale della vita. O semplicemente, sono solo molto stupidi. Esiste una camera di compensazione nelle società organizzate degli umani, specie dominante, che serve proprio a renderci degni dell’aggettivo con cui ci caratterizziamo.

Ma tutto questo non mi calma, anzi, mi fa montare l’inquietudine.  Se il virus come dicono tutti non conosce confini e non ha bisogno del passaporto (ma davvero?) e l’assenza di un vaccino fa tremare il polsi anche dei super ricchi, mettendoci tutti sullo stesso piano ma rivelando che qualcuno, a prescindere dallo status sociale, è semplicemente più naturalmente forte se non persino immune cosa succederà al fragile ecosistema sociale ed economico che abbiamo creato?

Il pensiero di ogni scrittore che voglia stendere una distopia oggi: cosa succederebbe se nel mondo si fermasse tutto, ogni cosa, ogni attività produttiva e si sospendesse il tempo di lavoro e il tempo collettivo e il tempo quotidiano così come lo intendiamo nella normalità dell’onnipresente oggi e ci si trovasse tutti piombati in una emergenza globale dove il tempo non è più scandito come prima e dove lo spazio è fondamentalmente vuoto e abbandonato? Adesso, questa domanda non è più lo spunto per una storia. Questa domanda è la storia di questi giorni.


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