L’ospite e altri racconti di Amparo Davila

Amparo Dávila, scrittrice messicana nata nel 1928 e scomparsa nell’anno 2020 che ricorderò personalmente come “l’anno dello straniamento collettivo”, è una maestra nel dispiegare lo stile necessario a questo slittamento percettivo. La raccolta in italiano pubblicata da Safarà Editore nella traduzione di Giulia Zavagna, contiene 12 racconti scritti in periodi diversi ma permeati tutti di quelle atmosfere straniate e unheimlich comuni ad alcuni artisti della parola che io chiamo “dal doppio sguardo”. Non è un caso che nell’introduzione alla raccolta in italiano, si nominano esplicitamente Cortàzar e Garcia Marquez, e nella quarta di copertina Shirley Jackson, Leonora Carrington e Kafka, assai diversi tra loro e ciascuno entrato nel canone della scrittura dello straniamento e del perturbante. Non è insolito che uno scrittore, magari lontano dai canoni e conosciuto solo agli appassionati di un genere o semplicemente perché non tradotto nella lingua dominante, riceva l’imprimatur nel momento in cui viene accostato ad altri più famosi o più consolidati. Se capita di leggere per la prima volta uno scrittore che non si conosceva proprio, scoprendo quanto è notevole e potente, ça va sans dire, che ti viene di paragonarne alcuni tratti e passaggi a quelli di altri scrittori che magari conosci meglio o sono entrati nella memoria collettiva letteraria.

Amparo Davila, però, fa qualcosa che non avevo mai trovato in altri: parte dal referente senza nominarlo e, lasciando al lettore uno spazio ampio di interpretazione, tocca il punto nevralgico dell’esperienza traumatica che si annida nel vissuto quotidiano e ne stravolge la visione, trasformando questa esperienza in qualcosa che possiamo adattare al nostro vissuto. Non lo fa mettendo la scrittura a servizio di un’idea prestabilita come certa letteratura femminista o lavorando su cliché che strizzano l’occhio al lettore con elementi riconoscibili perché ormai diventati mainstream. Nelle sue storie del quotidiano, apparentemente semplici nell’impianto narrativo ma in realtà profondamente complesse e raffinate per la resa stilistica, la scrittrice lavora su un territorio scivoloso senza mai perdere l’equilibro: può essere letta in chiave di denuncia della condizione femminile ma sarebbe riduttivo; si potrebbe tentarne una lettura psicoanalitica ma a che pro se non per piegare il testo ai criteri di un’altra disciplina? Si potrebbe leggerla adottando le etichette del grottesco, del fantastico, del surreale e del poetico, certamente tutte cose utilissime quando si preparano le copertine dei libri.

Personalmente, preferisco leggerla per lo stile con cui affronta l’esperienza traumatica, la solitudine, lo scivolamento nella follia, la realtà trasfigurata dalla percezione di un’alterità sovrapposta, la malattia e il lutto, lo straniamento, tutti elementi che compaiono con intensità diverse nei suoi racconti, senza che si imponga alcuna lettura univoca del referente e della sua complessità simbolica.

Ci sono donne che vivono in quelle grandi case vuote che ricordano un po’ gli ambienti di Marquez e sono assediate da un’entità che viene loro imposta e che tutti vedono ma su cui non si può fare niente (L’ospite); le donne che vivono in famiglie che ricordano un po’ le atmosfere di certi film anni settanta di produzione messicana o argentina e vanno a pezzi e non c’è una spiegazione ma solo quello che ci si costruisce intorno attraverso il non detto che fuoriesce più significativo di quello che viene detto (La colazione); ci sono minuziose descrizioni dell’orrore quotidiano che non sfocia mai in psicosi ma ci si avvicina in forma di poesia della crudeltà nel percepire il dolore delle piccole creature (Alta cucina). Ci sono uomini che assomigliano a certi personaggi di Pirandello, meno nevrotici e con quella vena malinconica che viene dalla passione amorosa nel mondo latino che tuttavia si ritrovano vagolanti e dolenti in atmosfere che ricordano il surrealismo (Il funerale); e poi figure tristissime e angoscianti la cui unica esistenza è affidata all’ombra che gettano sul mondo e tra quelli a cui rovinano la vita (Moises e Caspar e il bellissimo Musica concreta); fino ad arrivare al racconto che apre la raccolta “Frammento di un diario”, in cui la voce di un uomo confessa il suo dolore squassante per una delusione amorosa come fosse la descrizione di una malattia a cui non solo è abituato ma anche assuefatto, e quell’assuefazione è l’essenza stessa della passione tradita e della perdita dell’amata.

La tecnica dello straniamento è una strategia stilistica estremamente efficace per cogliere il lato oscuro e ineffabile dell’esperienza umana di fronte al trauma, che sia esso individuale o collettivo. Prima ancora della psicoanalisi e della gabbia delle definizioni della psiche umana affetta dalla patologia, c’è stata la letteratura e la sua potenza percettiva di fronte al non senso della vita, con i suoi tentativi di darne una forma. Ci sono esperienze terribili che trasformano il modo di percepire le cose e la letteratura è il luogo del possibile, del virtuale per davvero, per usare un termine così diffuso oggi, che però ha il potere di rendere meno soli attraverso quella comunanza che si instaura tra il lettore e l’esperienza condivisa nella lettura, per quanto il racconto sia di pura invenzione.

Non a caso all’inizio di questo post ho definito questo “l’anno dello straniamento collettivo” ma in realtà ciascuno di noi credo l’abbia vissuto come un anno di straniamento personale, di perdita e unheimlichkeit proprio perché troppo vicini alla realtà trasformata dalle circostanze pervasive e universali ma allo stesso tempo molto lontani dal modo in cui è sempre stata vissuta nella sua dimensione di consuetudine.

Nei racconti di Amparo Dávila la consuetudine è proprio il punto di partenza da cui si dipana l’allargamento della percezione per restituire l’idea di quanto lontano dal banale può diventare la vita quando se ne squarciano le quinte e se ne guardano gli angoli nascosti e oscuri. Ciascun personaggio, nella sua apparente semplicità, porta con sé un fantasma che non è nel suo sguardo o in una proiezione della sua mente ma pervade il suo mondo e risponde alle angosce della sua vita, prendendo la forma di un referente senza nome, che solo la grande scrittura sa rendere reale.


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