Il mondo rutilante di Francesca Duscià

Un’intervista all’artista Francesca Duscià, nell’ambito dei percorsi di flanêrie romana e del suo mondo immaginifico imbevuto di ispirazioni eterodosse che spaziano dalla religione alla scienza.

Come hai iniziato a dipingere?

Ho sempre sentito di avere una sorta di vocazione, comunque è una cosa che risale a molto indietro. Per una serie di motivi ho procrastinato questo appuntamento con me stessa. Poi la vita ti mette di fronte a delle scelte o episodi che sono talmente cruciali e, segnandoti profondamente, ti impongono anche un cambiamento. Ho cominciato a dipingere dopo una malattia ed è stata una cosa spontanea, perché in realtà lo avevo sempre fatto, fin da quando facevo il liceo artistico a Genova. Avevo una madre che dipingeva molto bene e mi aveva insegnato alcune cose. Ho avuto un maestro in famiglia, in qualche modo. Mi accorgo ancora oggi quanto mia madre sia stata importante in questo mio processo, perché anche lei ha un occhio speciale per la creatività in generale. Appena la vede, anche in mio figlio, tende a notare i particolari e la propensione. Dopo il liceo ho poi studiato storia dell’arte, e mi sono laureata perfezionando lo studio personale sull’arte antica. Insomma, l’arte è il filo rosso della mia vita.

Quali sono i momenti cruciali della tua ricerca personale?

Il mio percorso inizia nel 2017, quando decido di dedicarmi soltanto alla pittura e ho subito iniziato a studiare alcuni aspetti, avviando un percorso che è andato di pari passo con alcuni studi che ho fatto sul mondo religioso. Feci un primo esperimento diversi anni fa, indagando il rapporto tra l’umano e il divino. Ai temi, partii dal cristianesimo per procedere a ritroso. Essendo romana, mi sembrò il percorso più naturale … In fondo le radici culturali che troviamo qui a Roma sono talmente profonde da farti sentire nel posto giusto. Lentamente ho risalito questa sorta di fiume religioso, giungendo all’ebraismo, andando in un certo senso a ritroso alla ricerca delle radici.

In realtà mi rendo conto quanto alcuni incontri che ho fatto nella vita mi abbiano condizionato e lo hanno fatto a tal punto da immergermi nel mondo dell’ebraismo che mi ha sempre teso la mano durante il percorso di ricerca. Con queste premesse, ho cominciato un excursus nella liturgia ebraica partendo da un patrimonio iconografico che prevedeva l’uso della figura umana nella rappresentazione divina. Nel mio dna c’è l’idea che sia la figura umana a determinare la bellezza estetica. Io ho ancora l’idea che sia il volto, la sua bellezza il punto di partenza da cui si irradia e si arricchisce la mia ricerca. Mi interessa l’elemento umano, anzi, penso che l’umanità sia la grande fonte di ispirazione delle cose che faccio. C’è poi anche il rapporto con la spiritualità. Sono spesso alla ricerca di persone che mi evochino quella impressione divina; persone che abbiano una complessità o un magnetismo che per me è l’evocazione del divino. Spesso è anche quella linea sottile che per esempio nell’ebraismo non è una fonte di ansia o preoccupazione come nel cristianesimo ma quello stare tra il bene e il male, vedere il bene e il male coesistere, in una zona liminale.

Alla ricerca di un tipo di inquietudine diversa, quindi?

Qualcosa che è come la verità, a volte incoerente e doppia.

In alcuni tuoi lavori ci sono elementi che rievocano il manierismo, soprattutto nell’uso del colore e del panneggio, colori che oggi nel figurativo sembrano retrò, quasi un ritorno a leit-motiv classicheggianti, in contrasto con le tendenze astratte, optical o semplicemente grafiche che caratterizzano alcuni artisti contemporanei. È una scelta in controtendenza?

Il patrimonio del Rinascimento e del manierismo è stato evocato in maniera parziale, secondo me, perché quando si parla di arte antica, il pubblico vede soprattutto Caravaggio e il Seicento ma c’è tutta un’arte immensa, precedente, con un simbolismo ricchissimo in cui penetrano questioni enormi. L’eco di questa cosa si protrae nel tempo mentre Caravaggio, che tutti amiamo e che indubbiamente è un gigante di cui siamo tutti consapevoli, ha gettato un velo di buio; anche sulla psicologia dell’arte ha avuto un ruolo troppo dominante, come Picasso, nel Modernismo, che con la sua grandezza ha oscurato quella luce di simbolismo di cui altri artisti erano portatori. Le opere del Rinascimento invece possono essere invece molto pop, se rilette con occhi contemporanei.

Pensi che oggi ci sia bisogno di recuperare una prospettiva unificante che coinvolga tutte le arti?

Quando ho lavorato a opere che prendevano spunto da quel patrimonio artistico, ho sempre cercato di renderle attuali, magari usando dei colori più intensi o arricchendoli di alcuni simboli che rimandassero alla contemporaneità.

In quel dipinto, per esempio, c’è un disco voltante che allude al moto di espansione dell’universo che ho rappresentato così perché un un fisico contemporaneo, Andrej Linde, che ha basato la sua ricerca sull’universo inflazionario,  l’aveva pensato in questo modo. Ho sempre cercato un ponte tra il passato e la contemporaneità e la contemporaneità è anche la fisica, grande serbatoio di ispirazione.

Hermes Trismegistus

Quindi una pittura che sia una convergenza tra i saperi e gli elementi iconografici?

Che metta insieme matematica e fisica, accanto alla grana del colore.

Tornando a quello che hai detto all’inizio, invece, in relazione alla ricerca sull’ebraismo, i tuoi dipinti hanno spesso elementi biblici e scenari che rimandano ai “colori intensi” del grande libro ma con elementi pop.

La Bibbia è il libro dei libri; il più grande libro sapienziale che ci sia. È un serbatoio di simboli, episodi, caratteri. Tendo a pensare che essere biblici è un po’ una propensione innata in alcune persone; non si può esserlo a metà. O la si ama, a prescindere dalle implicazioni di fede, o non ci si pensa proprio. Come libro è inoltre un serbatoio di storie. Pensiamo a quello che è stato fatto con le grandi produzioni di Hollywood. La sua risonanza è non solo nel canone ma nel suo essere popolare. E poi è un libro avvincente, soprattutto l’Antico Testamento. Tutto sta nel trovare un equilibro tra la dimensione sacrale e la dimensione mondana. Nella dimensione mondana, l’immaginario passa anche per il cinema e la sua dimensione pop. E poi, se si pensa alla quantità di personaggi, alle storie, alle situazioni è come guardare un grande serial, insomma. Contando che poi è patrimonio dell’umanità e lo spettro è amplissimo, anche per la ricezione dell’opera può avere diversi piani.

Alla fine la Bibbia, essendo all’origine del canone occidentale, è stata anche recepita sul versante dell’arte popolare, mainstream, con storie e personaggi riconoscibili a tutti, senza distinzione, anche nel loro orientalismo che chiamerei di vicinanza, almeno geografica.

Una vicinanza che è il bacino del Mediterraneo, da cui è iniziato tutto. Se penso alle mie fonti di ispirazione, penso proprio a quest’area geografica così ricca: la cultura egizia, per esempio, con la sua bellezza, i suoi misteri e il suo fascino sensuale. Pensiamo alla monumentalità che hanno espresso, a partire dalle piramidi, opere folli se ci si pensa. Senza contare l’eleganza delle posture e delle decorazioni e la bellezza della figura umana. Ma io amo molto anche la contemporaneità, ma di fondo sono una sognatrice quindi mi piace immaginare un mondo che è poi il mio teatro della mente. Quando ho elaborato il dipinto per la mostra orizzonti Italiani, ho dipinto le piramidi, immaginando uno scenario che è anche un rebus.

Francesca Duscià, dalla mostra Orizzonti Italiani, EDDart

Spostandosi sulla figura femminile in rapporto alla bellezza, ci sono diverse influenze nei tuoi dipinti.

Quello egizio sicuramente. Mi ha sempre attratto il trucco, l’uso del bistro allungato sugli occhi che è così iconico per le donne ancora oggi. Pensiamo alla figura di Cleopatra, iconica come poche altre, carismatica, intelligente e con una grande personalità. Le donne dovrebbero rivedere il ruolo del corpo in rapporto alla mercificazione. Troppe volte si è parlato di liberazione solo perché una donna era in grado di mostrare il corpo consapevolmente, scambiando questo mostrarsi per auto affermazione e auto determinazione. Il corpo però non è tutto, non è solo superficie su cui affermare la presenza.

La cura del corpo era già molto diffusa nell’antico Egitto, e se ne vedono le tracce nell’iconografia, per non parlare della conservazione dopo la morte, con l’imbalsamazione che denota un rapporto con il corpo ancora più intenso di quanto si possa immaginare oggi. Ovvio che paragonare una civiltà così antica alla nostra lascia il tempo che trova. Tuttavia, guardare a una civiltà antica con occhi contemporanei offre sempre una bella prospettiva. Accanto all’Antico Egitto anche la cultura sumera offre degli spunti molto interessanti.

Parlami di un quadro a cui hai lavorato.

Questo quadro non ha titolo ed è un esperimento, come spesso capita. Ci sono alcuni esperimenti che sono anche testimonianze del mio amore: per i rebus, per l’Egitto, per Tiepolo a cui sono dedicate le figure che sono qui. Poi c’è la presenza di una figura di spalle misteriosa che ho inserito nel quadro, qui sulla destra. E poi c’è una piccola citazione… Chi va contro il popolo, va contro Dio, con il rebus. La mia idea si riassume nel fatto di essere un’artista affezionata all’idea del popolo, della collettività.

Il dipinto era stato pensato per Paesaggi italiani ma poi ho deciso di lavorare sul deserto e le piramidi.

C’è però anche un elemento metafisico, nelle mani che pregano fuoriuscendo dalla pietra, tendendo verso il cielo.

E il segno nero in secondo piano che è una lettera, egiziana. C’è scritta la parola Dio nelle tre lettere.

Spostandosi dall’antico al moderno, invece, vorrei chiederti del tuo rapporto con la scienza moderna e dell’uso di elementi scientifici nella tua pittura. Alcuni sono riconoscibili mentre altri hanno una qualità quasi esoterica.

C’è una convergenza tra arte e scienza ma siamo anche a un bivio, in cui il rapporto con la religione sta diventando quasi come il rapporto che i Sumeri avevano con gli allunati, con gli extra terrestri. Noi ci dobbiamo proiettare in una dimensione spaziale; naturalmente esiste un linguaggio che è adatto a un approccio di questo tipo ed è il linguaggio matematico. Un tempo le discipline matematiche entravano più addentro alla vita delle élite culturali delle varie epoche. Anche nel Rinascimento, Piero della Francesca era un matematico eccelso o lo stesso Dalì, in epoca moderna, che era un Surrealista era esperto di fisica. Penso che la matematica sia come un tappeto volante su cui esplorare nuovi mondi perché, come anche la fisica, le due discipline si pongono delle problematiche di visione della realtà che possono essere foriere di stimoli per chi fa arte. Quindi, sì, arte, fisica e matematica, sono mondi molto più vicini di quanto si possa pensare. Ci sono fatti immaginativi che gli artisti hanno rispetto ai fisici, i quali hanno maglie più strette,  e che possono suggerire loro mentre i fisici possono suggerire agli artisti.

Mi viene in mente il caso delle sorelle Levi, una fisica e l’altra artista. Loro avevano davvero un rapporto complementare. Ecco è questa complementarità che potremmo trovare nel rapporto tra arte figurativa e scienza, matematica, fisica. Gli artisti, lavorando sul versante creativo e immaginifico, hanno sempre bisogno di allargare le loro visioni, superando gli ostacoli per poi costruire intorno a queste visioni delle ipotesi, delle possibilità.

Delle prospettive anche?

Si, di visione della vita e del futuro. Oggi, per esempio, il tema dell’esplorazione di nuovi mondi oltre il nostro pianeta è diventato molto diffuso. Il pensiero che potremmo vivere su altri pianeti o che non siamo soli nello spazio è un’idea diffusa tra gli scienziati che riconoscono questa possibilità mentre magari nell’arte veniva solo immaginata.

Per seguire Francesca, questo è il suo profilo Instagram Francesca Duscià


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