Nell’intervista che segue, Nane Cantatore spiega la genesi di Umani e altri animali (Luca Sossella editore, 2020), in cui ripercorre il rapporto tra le diverse specie in quel processo millenario di domesticazione che ci vede ancora coinvolti, tentando di affrontare i nodi di una convivenza che è alla stessa radice del nostro essere nel mondo insieme alle altre specie. In questo legame di interdipendenza, noi e gli animali affrontiamo oggi problemi nuovi e complessi, a partire dalla condivisione della biosfera, alla questione etica del mangiare carne, al tema dei diritti e della morale, all’importanza dello sguardo dell’umano sull’animale altro che convive con noi, alla sostenibilità dei modelli sociali entro cui abbiamo radicato le nostre abitudini quotidiane, fino al senso stesso del nostro essere umani.
Ne viene fuori una riflessione complessa che analizza le contraddizioni e le questioni già aperte da un dibattito che ha visto specisti e antispecisti scontrarsi sulla base di principi contrapposti. Il saggio apre la possibilità di una lettura più densamente problematica che cerca di non dare nulla di scontato e di affrontare tutte le questioni chiamate in causa nel rapporto tra noi e l’altro animale che non siamo.
Umani e altri animali. Riflessioni per un’etica onnivora, come è nata l’idea di questo libro?
Credo che porsi delle questioni di etica sia innanzitutto un dovere di ordine intellettuale e scientifico, che consiste nel chiarire i concetti. Gran parte del dibattito oggi sulla questione dei diritti degli animali o degli obblighi degli umani nei confronti degli animali si fonda, a mio avviso, su concetti “troppo umani”, che vengono estesi, abbastanza arbitrariamente, ad altre specie. Per cui la prima cosa che ho dovuto fare, e che dovrebbe fare chiunque voglia occuparsi di tali questioni, è stato chiarire questi concetti, strutturarli e da lì cercare di capire dove portano. Bisogna capire i concetti, non i preconcetti.
L’idea è nata sostanzialmente perché sono ateo e ho sempre trovato inaccettabile che i papi e i preti dicessero che chi non crede in Dio non può avere un’etica. E questa equivalenza viene fatta anche tra l’avere una posizione etica nei confronti degli animali ed essere antispecisti, vegani o simili.
Esiste una tradizione filosofica che ha indagato il rapporto tra umani e animali?
Si può dire che la filosofia si sia posta le domande di cosa sia umano e cosa sia animale fin dagli inizi. La domanda “che cos’è l’uomo” risale ai sofisti, se non prima, cioè prima di Socrate. Segue poi la domanda di cosa sia l’uomo rispetto all’animale; Aristotele ci ragiona moltissimo, Platone si pone la questione di cosa sia l’umano e cosa lo differenzi dall’animale e da lì avanti si è continuato a porre la questione. Saltando qualche secolo, ci sono delle pagine molto interessanti di Derrida e della tradizione filosofica della seconda metà del Novecento che hanno giustamente sottolineato come sia impossibile non porsi una delle domande fondamentali della filosofia: “che cosa è l’uomo”, senza con ciò porsi la domanda “che animale siamo”.
Quali sono le principali correnti filosofiche che hanno indagato il rapporto tra umani e animali portando in un qualche modo al dibattito che abbiamo oggi, che comunque sembra infuso di punti di vista inediti rispetto ai secoli precedenti o alla modernità?
In realtà non vedo tutta questa novità rispetto al dibattito odierno. Basti pensare che l’autore di riferimento, Peter Singer (in Animal Liberation) fondatore per eccellenza dell’etica non specista, usa tranquillamente le categorie dell’utilitarismo di Bentham, che risale ai primi dell’Ottocento. Questa è ancora una posizione prevalente all’interno del dibattito in questione: si utilizzano i concetti di una specifica corrente filosofica, a mio parere marginale o comunque con dei grossi problemi di fondazione come l’utilitarismo, per affrontare una questione che andrebbe fondata in maniera più efficace. Ci sono anche altri pensatori antispecisti che fanno riferimento a un Kant interpretato a modo loro, ci sono poi diversi tentativi di rileggere l’intera storiografia filosofica a partire da questa questione. Quello che vorrei aggiungere è che oggi, accanto alla filosofia, è necessario rivolgersi alla scienza, per lo meno per avere un sistema di fatti e di interpretazioni abbastanza stabile, perché non possiamo continuare a pensare a cos’è l’umano rispetto all’animale, utilizzando categorie pre-evoluzioniste, per esempio. Dovremmo partire dall’evoluzionismo per fondare seriamente tutte le altre categorie filosofiche qui rilevanti a partire da quella di “diritto” che è una categoria certamente non semplice – e qui c’è un dibattito enorme dal quale attingere. Faccio solo un esempio: si parla di diritti animali ricalcandoli, di fatto, sui diritti universali dell’uomo. Ma questa operazione non basta, sia perché il concetto stesso di diritto umano è abbastanza astratto e non può prescindere, per avere un senso, dalla realtà concreta delle società umane e dei loro ordinamenti, sia perché non si capisce bene che cogenza possa avere, che valore normativo al di là di qualche argomento magari non specista, ma forse un po’ specioso.
Quindi è necessario intersecare diversi piani, diversi discorsi che vanno da quello filosofico a quello giuridico, partendo da quello scientifico?
Questo succede sempre quando si parla di etica. L’etica è una faccenda strana ed è per questo che io tendo a occuparmene poco nella mia ricerca filosofica. Perché è sempre fondata su un metodo un po’ precario, che tuttavia ha sempre implicazioni fortissime sul come agire. Rispetto ad altre branche della filosofia, l’etica ha questa sua fragilità di partenza, dovuta proprio al fatto che usa sempre concetti limite. Il caso più tipico è il rapporto tra morale e diritto: ci si sono rotti la testa in tanti – proprio Kant, per esempio – e nessuno è mai riuscito davvero a separarli chiaramente; a maggior ragione quando si vogliono travalicare i confini dell’umano. Partendo da questi presupposti, con quante cose si ha a che fare i conti? Io ho voluto fare un primo tentativo di inquadrare la questione in modo rigoroso.
Si ha l’impressione che nel corso dell’ultimo secolo il nostro rapporto con gli animali sia cambiato molto: dal modo a cui ci rapportiamo ad essi, nei paesi occidentali, sembra che ci sia un cambiamento che non riguarda solo la sfera privata, ossia il rapporto con l’animale d’affezione, ma anche tutta la sensibilità nei confronti degli animali, come se la società stesse cambiando l’attitudine nei confronti degli animali, in generale. Possiamo parlare, quindi, di una fase di domesticazione reciproca che sta soprattutto trasformando la sensibilità umana?
Possiamo sicuramente partire dal dato di fatto che sono 200 mila anni che gli animali ci accompagnano e che chiaramente questo rapporto si è evoluto e strutturato, a seconda di come sono cambiate le condizioni di vita e le organizzazioni sociali degli umani e, quindi, degli animali stessi. Certamente, qui entrano in gioco due fattori fondamentali; innanzitutto, per la prima volta nella storia umana, da circa una cinquantina d’anni la gran parte dell’umanità è sostanzialmente separata dalla presenza degli animali nella sua vita quotidiana con l’eccezione degli animali da compagnia. Insomma, noi vediamo l’animale o nel piatto o al guinzaglio. Non abbiamo più quel rapporto che c’era nelle società contadine o anche nelle città fino alla prima metà del Novecento, dove c’erano i cavalli che trainavano i tram, quelli che portavano i carretti con le spese, c’erano i macelli dentro la città, piccoli allevamenti anche di persone che vivevano in ambienti urbani: tutto questo chiaramente determinava un rapporto diverso, non voglio dire migliore o più naturale, non posso usare categorie di questo genere. Certamente, oggi in Occidente le condizioni sono cambiate sotto molti punti di vista, soprattutto con l’intersezione della questione ambientale, che è una questione importantissima, con altri aspetti del nostro vivere. C’è inoltre il fatto che, come dico nell’introduzione, la storia dell’umanità si è posta per secoli il problema di avere qualcosa nel piatto: o quello o la fame. Solo successivamente abbiamo cominciato a porci la domanda di cosa ci fosse nel piatto, guardando la cosa dal lato della salubrità della dieta, dall’altro alla qualità del cibo, alla gastronomia e adesso ponendosi anche il problema di chi c’è nel nostro piatto, cos’era (o chi era) questa costoletta prima di diventare costoletta.
Ovviamente un contadino dell’Ottocento non si poneva questi problemi, perché per prima cosa c’era quello di non crepare di fame e poi perché lo sapeva benissimo: aveva sgozzato lui l’animale che avrebbe mangiato.

Nel secondo capitolo di questo libro compare una definizione di cultura applicabile anche in senso più lato al comportamento animale. Quali sono le implicazioni di questo concetto applicato agli animali?
In questa parte del libro, ho citato Clutton-Brock, secondo cui la cultura è quell’insieme di pratiche che vengono insegnate all’interno di un dato gruppo biologico, dagli anziani della comunità; quando si tratta di animali addomesticati, questo ruolo di insegnante spetta all’uomo. Il caso tipico che cita lo stesso Clutton-Brock è quello della gatta che insegna ai gattini a giocare e a cacciare. Si può dire che, nel momento in cui una serie di pratiche vengono trasmesse attraverso l’insegnamento, si ha una forma culturale. Questa è chiaramente un’accezione molto estesa del termine “cultura”, che però è molto utile in ambito zoologico perché ci permette di spiegare il fenomeno della domesticazione e dell’addestramento. Qui è interessante anche quella che viene chiamata l’animal connection, cioè quella capacità che la specie umana ha, a differenza di altre specie, di rapportarsi ad altre specie animali mantenendo la differenza. Ci sono moltissimi casi di animali che vivono simbioticamente con altri animali, ma lo fanno sviluppando, per così dire un terreno comune, in cui si comportano con l’animale dell’altra specie come si comporterebbero con l’animale della loro stessa specie. Invece noi umani sappiamo distinguere tra le diverse specie: per fare un esempio semplice, sappiamo che se un cane muove la coda è contento, nel caso di un gatto, invece, no. La capacità di interpretare questi segni e farli diventare strumenti per un dialogo interspecifico e interculturale, per esempio addestrare il cane a scovare i tartufi o le bombe, è parte di questa matrice generale che poi in altro senso e altro modo, è alla base della nostra evoluzione culturale fino ad arrivare alle vette più alte del linguaggio, della scienza, ecc.
Credo che partire da questa animalità di noi umani porti oggi a porci molte domande, tra cui quella dei diritti degli animali e sia il risultato di molte stratificazioni quantitative che determinano poi salti qualitativi. Un concetto di cui parlo molto in questo libro è quello di transizione di fase: vale a dire il modo in cui una crescita quantitativa lineare a un certo punto produca un cambiamento dell’organizzazione, un salto di qualità. Per fare un esempio, prendiamo un recipiente pieno d’acqua, a temperatura ambiente: se lo riscaldiamo progressivamente, vediamo che a un certo punto comincia a bollire e l’acqua evapora; se lo raffreddiamo, congela. Il cambiamento di temperatura è continuo e senza che vi siano differenze nella trasmissione di energia, ma il cambiamento di configurazione del sistema è evidente e improvviso. Oggi le transizioni di fase sono al centro di molte aree della ricerca scientifica e di diverse applicazioni tecnologiche: un esempio sono le intelligenze artificiali, in cui la crescita della potenza di calcolo e della complessità degli algoritmi genera capacità e funzioni del tutto inedite. In campo filosofico, credo che il primo a capire questo passaggio sia stato proprio Hegel quando, nella scienza della Logica, comprende la continuità di qualità e quantità e il loro riferimento reciproco. Per tornare ai temi del mio libro, qui l’idea è che quello che caratterizza l’umano non sia una differenza originaria rispetto agli altri animali, ma una stratificazione di complessità nel linguaggio, nell’organizzazione sociale, nella tecnologia, insomma in tutto quello che abbiamo visto prima parlando di trasmissione culturale: tutto questo apparato, per essere gestibile, ha generato un certo grado di riflessività, di capacità di riferirsi a se stesso. Qui nasce, a mio avviso, la specificità umana, la sua stessa possibilità di ragionare eticamente.
Sembra che accanto alla scienza, tutto questo sia stato esplorato “poeticamente” dalla letteratura come sfera dell’immaginazione o della speculazione, al di là delle implicazioni scientifiche. È possibile partire anche da questo, o perlomeno farne tesoro, per fondare un’etica del rapporto con gli animali? Dai sentieri che la letteratura ha percorso prima ancora che la società nel suo insieme se ne rendesse conto?
Io ci ho provato, nel senso che ho usato dei passaggi da alcuni autori che ho amato: Kafka, Mann, Morselli, ma anche il cinema, non solo come esempi, ma come suggestioni intellettuali. Per me il racconto di finzione ha la valenza di quello che in filosofia è l’esperimento mentale: immaginiamoci quello che accadrebbe “se”, evitando di perderci nei dettagli della plausibilità. E da lì tiriamo fuori le implicazioni per il resto. Penso che da questo punto di vista la letteratura abbia una valenza sperimentale ed esplorativa importante. Poi certo da lì si può cominciare a raccogliere qualcosa, a illustrare un possibile percorso di ricerca. Se noi non avessimo la possibilità di gettare uno sguardo preliminare, nell’immaginare qualcosa, non potremmo arrivare dall’immaginazione al progetto vero e proprio.
Nel terzo capitolo del tuo libro grande spazio è dedicato all’analisi del racconto di Kafka Relazione per un’accademia e al suo personaggio, Peter il rosso, con cui il lettore stabilisce un rapporto empatico, quasi a confermare l’animale che noi tutti siamo. Perché questo racconto in particolare?
Kafka è stato il più grande progettista dell’immaginario. Non si limita a immaginare, ma ad analizzarne tutte le implicazioni. I suoi racconti non sono mai descrizioni, ma immaginazioni: in cui se non danno risposte, se ne pongono tutte le domande. Rispetto a “Relazione per un’accademia” bisogna però stare attenti a una cosa. Quando noi stabiliamo un rapporto empatico con l’animale, inevitabilmente lo riportiamo a noi, lo antropizziamo. Questo, secondo me, è il grande rischio che si ha quando si cerca di ragionare sugli animali, ed è a mio parere il difetto che hanno molte posizioni anti-speciste, quello di essere profondamente antropocentriche. Quello che Kafka riesce a fare è l’esatto opposto: lui non ci fa vedere l’animale, ma fa vedere noi stessi. Peter il rosso si pone la domanda di come diventare umano partendo dall’essere scimmia. La domanda è: se riesco a capire come divento uomo, che cos’è questa messinscena che è il nostro essere uomo? una serie di atti che ci permettono di riconoscerci come umani? allora è forse in questo insieme di dispositivi, di apparati teatrali che io riconosco ciò che è umano, posto che l’umano è animale. O mi metto a inventare che l’umano ha un’anima immortale, che è immagine di Dio, che è tutta una serie di cose variamente postulate, o altrimenti comincio a chiedermi: ma come mai noi che siamo esattamente come gli altri animali, poi però sviluppiamo queste altre cose? Per poterlo fare, devo riuscire a vedermi dal di fuori; è questo che fa Kafka.
Tornando al libro, le posizioni anti-speciste sembrano occupare gran parte del dibattito sul rapporto con gli animali anche se sembrano esserci due linee: da una parte chi è anti-specista, dall’altra chi non si pone la questione o l’aggira, come è ben riflesso nel dialogo dei tre personaggi filosofici del primo capitolo. È possibile un percorso diverso per uscire da questa dicotomia?
In realtà, penso che la dicotomia tra specismo e anti-specismo sia profondamente falsa, nel senso che, alla fine, citando Peter Singer, il termine specista viene coniato su altre forme di discriminazione: sessimo, razzismo, ecc. per cui si dice che specista sia quello che afferma che certi diritti sono specifici di alcune specie e non di altre, in maniera pretestuosa. Lo stesso Singer fa un passo oltre dicendo che sia in continuità diretta con la liberazione degli animali, come la liberazione delle donne, dei neri, ecc..
Al di là del fatto che queste analogie mi sembrano forzate, esse sembrano anche disconoscere quel tratto fondamentale che è la lotta per la propria liberazione – un tratto essenziale del percorso. È proprio qui, nel nucleo fondante dell’anti-specismo che si ritrova il suo profondo antropocentrismo. Nella prospettiva di Singer, si pensa agli animali per estensione, anche rispetto a una certa concezione un po’ ingenua dell’umano, fondata su attributi quasi ontologici – e anche su questo ci sarebbe un bel po’ da dire sul reale statuto dei diritti umani, e da lì anche per gli altri animali. Non è questo il modo corretto di porre la questione. Penso che il modo sia, da un lato, di riconoscere che vi sia uno specismo necessario, nel fatto che tutto ciò che attiene al diritto e alla prescrizione normativa riguarda l’umano e non l’animale. Per fare la classica obiezione che viene mossa agli anti-specisti: perché un leone che ammazza una gazzella non è un criminale? Perché il leone non è un soggetto, non è un umano. Se partiamo da questo presupposto, ci ritroveremo sempre l’antropocentrismo di mezzo. D’altro canto, dobbiamo riconoscere che qualsiasi discorso etico riguarda esclusivamente la nostra specie. E quindi: qual è il terreno su cui coinvolgiamo gli altri animali? La mia risposta è che il terreno è già stato indicato ed è quello della biologia e dell’ecologia, dalla scienza del comportamento animale e dalla scienza dell’interazione tra le diverse specie in un dato contesto biotico.
Questo è il terreno preparato da due scienze che sono ancora una volta il prodotto di elaborazioni umane ma che sviluppano un’oggettivazione della natura tale da permetterci di comprendere l’ambito in maniera efficace.
Dal dato della nostra convivenza con gli animali, dobbiamo reinterpretare il nostro agire nei loro confronti a partire da questa caratteristica che è completamente umana. Per questo dico che non si può fondare un’etica degli animali senza essere consapevolmente specisti, nel senso di uno specismo consapevole.
Quindi il dialogo con l’etologia e la biologia può aprire a un nuovo concetto di natura? O è semplicemente una sua conseguenza?
Secondo me, paradossalmente, quello che le scienze fanno è cancellare il concetto di natura. Piccola divagazione storico filosofica: i primissimi filosofi parlano della fisica, intendendo per la fisica, il fysein, del nascere delle cose (physis): una forma che comprende tutto, anche l’uomo. Per loro non esisteva una vera separazione tra uomo e natura anche se distinguevano tra umano e animale, pensiamo alla famosa definizione di Aristotele dell’uomo come animale dotato di parola – la caratteristica naturale dell’uomo, come essere umano. Tutto questo è stato superato da una serie di passaggi sia nella filosofia che nella scienza, però ci è utile ricordarlo perché possiamo dire che il discorso sulla natura, come lo facevano i Greci, come lo facevano i latini, fino alla tarda scolastica, non è opposto alla cultura. Questa idea, cioè di pensare la natura come opposta alla cultura, nasce quando l’uomo può davvero incidere sulla natura in maniera determinante o si rende conto di aver agito sulla natura in maniera determinante. Insomma, l’idea di natura come diversa strutturalmente dall’umano ha due origini: una religiosa, e viene dalla concezione dell’uomo come centro e culmine della creazione, separato e superiore al resto del creato. L’altra coincide con l’avvento dell’era industriale: si comincia a vivere in modo “non naturale”, in ambienti sempre più antropizzati, e qui nasce il mito di un’innocenza primigenia della natura, che diventa un paradiso perduto.
Quello che sappiamo è che l’uomo agisce sulla natura fin dai tempi del Paleolitico e con risultati non sempre felici: esiste una società morta per un collasso ambientale, quella dei Maya; una società con una tecnologia assolutamente primitiva che si è estinta perché i suoi membri hanno fatto collassare l’ambiente. Estendendo il discorso, sono molti gli animali che incidono sulla loro biosfera, sull’ambiente. Dobbiamo smettere di pensare alla natura come a qualcosa di fermo, preciso, che sta lì e poi a un certo punto arriviamo noi e lo cambiamo. Insomma, proprio la comprensione degli ecosistemi e del loro profondo dinamismo può insegnarci non solo a gestire meglio i risultati delle nostre azioni e ad evitare il collasso ambientale globale, ma anche a comprendere meglio la nostra stessa natura, a sviluppare una sorta di ecologia delle società umane.
Ancora una volta dobbiamo ricordare quello che le scienze della natura ci dicono: gli ecosistemi sono in continua trasformazione, chi ne fa parte agisce sulle loro condizioni, ogni ecosistema è una sequenza continua di catastrofi e noi umani abbiamo, da un po’ di tempo a questa parte, un ruolo enormemente catastrofico rispetto alle altre specie. Quindi dobbiamo pensare alla nostra esistenza su questo pianeta in relazione al fatto che siamo una delle specie che lo abitano e che le nostre azioni hanno conseguenze sugli altri ecosistemi. Dall’altra parte, dobbiamo smettere di pensare che vi sia una separazione così netta tra natura e cultura; né una linea arbitraria tracciata più o meno nel romanticismo per delle strane ubbie che possiamo considerare ormai superate. Dalla rivoluzione darwiniana non si può più parlare di separazione natura/cultura. Hegel stesso diceva che la natura non esiste come tale.

L’ultima domanda è di natura giuridica e riguarda che cosa sono i diritti. Nell’ampiezza del libro tanto è stato l’impegno di tenere molti aspetti sotto osservazione, non ultimo quello dei diritti. Nel primo capitolo, l’anti-carnivoro nel dialogo solleva la questione del mangiare carne, e poi segue la risposta del carnivoro che dice di farlo perché la specie lo ha sempre fatto. L’altro dice di non voler nemmeno parlarne e poi restano questi due poli con i rischi che comporta il mangiare carne nel momento in cui la scelta da individuale si fa di massa, con la legge dei grandi numeri. Mangiare intensamente carne, magari prodotta negli allevamenti intensivi comporta dei rischi per l’ecosistema, mentre laddove la scelta di non mangiare carne da individuale si fa collettiva, può avere degli effetti benefici su larga scala. Quali sono le implicazioni in termini di diritti?
La questione è complessa ed è più o meno tutto quello che ho cercato di spiegare nel libro, anzi di capire.
Una cosa di cui non mi sono voluto occupare è la questione ambientale, di cui ci sarebbe tantissimo da dire ma che ho escluso dal libro perché non sarei in grado di trattarla in modo non superficiale. Molto si può dire se gli allevamenti intensivi incidano davvero in termini ambientali, se ci siano soluzioni in termini di allevamento sostenibile. Il problema è che tutto questo è fuori centro. Se poniamo la questione dei diritti degli animali e quali dobbiamo riconoscere, il fatto che dal punto di vista ambientale è possibile mangiare un chilo di carne al mese e non a settimana ma questo non ha nessuna implicazione dal punto di vista morale. Perché se è moralmente sbagliato uccidere un animale per mangiarlo, come è sbagliato uccidere un bambino per mangiarlo, allora non è questione di quanti mangiarne. L’atto non è lecito, punto. Così come ci sono comportamenti che possono essere dannosi per l’ambiente ma non lo sono per la morale: guidare un’auto può essere dannoso per il primo ma non è sbagliato dal punto di vista morale. Vorrei tenere separate queste due questioni.
Quindi, cosa sono i diritti? Non possiamo fare come alcuni antispecisti che affermano che il diritto è naturale. Non solo perché i diritti si producono storicamente, ma soprattutto perché i diritti partono da una prassi di riconoscimento e da uno statuto del soggetto di diritto che non può stare al di fuori di quello che chiamiamo contratto sociale. Provo a spiegarmi meglio su questo punto, perché è cruciale nel dibattito sullo specismo. I diritti sono quelli dei membri di una società; non possiamo dire che, se i diritti ce li hanno solo quelli consapevoli, adulti e responsabili, allora uno in coma profondo non ha diritti. Intanto perché non si può tirare fuori una regola generale da un caso particolare. Pensiamo al caso famoso del fine vita: se io, nel pieno della mia consapevolezza e in buona salute, decido di farmi staccare la spina se entrassi in coma irreversibile, il me di oggi prende una decisione vincolante per il me di un ipotetico futuro che determina che il me in coma cesserà di vivere senza poter prendere una decisione. Si vede qui che c’è una prevalenza del diritto del soggetto vigile, adulto e responsabile perché questo è il soggetto sociale; ed è su questo modello di soggetto che si costruisce il diritto. Rispetto a tutto questo, dobbiamo pensare al piano su cui possono esistere i diritti degli animali a partire dal contratto sociale che abbiamo con loro. E questo contratto sociale non si può determinare per analogia con noi, perché gli animali hanno delle esigenze che sono radicalmente diverse dalle nostre, che rientrano nei bisogni specie-specifici. Insomma, ciò che rende felice un maiale è diverso non solo da ciò che fa contento un essere umano, ma anche dalle esigenze di una mucca o di una gallina. Partiamo da queste esigenze nel contesto della loro vita in uno spazio condiviso con la nostra specie e gestito da noi: un ecosistema nel quale siamo l’unico predatore. Sappiamo che un animale domesticato – è inutile prendersi in giro – non sopravvivrebbe bene in un ambiente naturale. L’ambiente naturale di una gallina è il pollaio, non certo una foresta vergine dove non potrebbe sopravvivere; l’ambiente naturale di una mucca è la stalla. Il nostro dovere morale, quando analizziamo il rapporto con gli animali, è quello di organizzare le loro condizioni di vita garantendo il soddisfacimento della massima quantità possibile dei loro bisogni, ma senza trascurare i nostri. Insomma, il singolo maiale magari non sarà contento di diventare porchetta ma, se la sua esistenza fino allora è stata soddisfacente, e se lo è quella degli altri esemplari della specie, il contratto è reciprocamente conveniente.
Noi abbiamo il diritto di trarre vantaggio dalla domesticazione degli animali, anche qualora il vantaggio fosse la carne dell’animale. Però, al tempo stesso, per l’animale può essere vantaggioso essere domesticato. Quando ciò può avvenire? Quando la specie a cui appartiene l’animale nella sua globalità vive in condizioni di sostanziale appagamento dei suoi bisogni specifici. La regola aurea a cui arrivo è che è lecito danneggiare un singolo individuo di una specie animale, se (i) le condizioni a cui avviene questo danno sono tali a garantire un sufficiente vantaggio per la specie nel suo complesso e (ii) se tutto questo a sua volta avviene in una condizione di sostanziale sostenibilità ambientale, anche per tutti gli altri. Questo contratto in qualche modo assomiglia al contratto sociale: con le parole di Burke “è un contratto che facciamo per i nostri nipoti e a nome dei nostri nonni”, proprio come questo rapporto che stabiliamo con gli animali va all’interno di un rapporto con il sistema terra in generale.
Per cui tirare giù la foresta amazzonica per piantare la soia da dar da mangiare alle mucche è sbagliato sotto tutti i punti di vista, sia perché danneggiare un ecosistema esterno per allevare le mucche è insostenibile, sia perché in questo modo alimentiamo i bovini in modo per loro insoddisfacente (preferiscono l’erba alla soia) solo per farli vivere in condizioni ancora più insoddisfacenti (gli allevamenti intensivi). E un modello produttivo di questo tipo è ingiusto anche nei confronti degli umani stessi.
In conclusione, questo è un libro che apre anche a una rifondazione del sistema produttivo, che dovrebbe ripensarsi alla luce di un mondo che cambia.
Questo è un capitolo che non ho messo nel testo perché non si sarebbe mai finito e non credo che si possano fare programmi politici senza essere profondamente dettagliati, lo troverei disonesto. Stabilire un quadro di riferimento generale, questo sì.