Tra le nostre parole di Katie Kitamura – la violenza del non detto

Capita spesso che con i libri di ultima uscita si prendano cantonate pazzesche, seguendo una recensione o la moda del momento. Ma con Intimacies di Kitamura per fortuna questo non è successo, anzi. L’ho letto rapidamente senza interruzioni la prima volta, forse anche grazie al formato digitale (almeno mi illudo di non aver contribuito al consumo di cellulosa) ammirandone l’eleganza e la sobrietà, l’economia delle parole usate e la precisione con cui descrive le interazioni umane e in particolare la descrizione del difficile lavoro dell’interprete istituzionale.

Con una scrittura precisa ed elegante e la voce pacata e discreta della protagonista, il romanzo di Katie Kitamura sembra quasi inattaccabile e a lungo, dopo aver chiuso il libro, mi sono interrogata sui pregi effettivi o i difetti nascosti del romanzo. Studiare letteratura ti fa capire che leggere i contemporanei può dare adito a critiche premature o a lodi sperticate che il tempo può spazzare via come polvere da un vecchio vestito. Soltanto la stratificazione delle letture (possibilmente professionali e critiche) e la distanza diacronica possono restituire la stoffa pregiata dell’opera o dimostrare la sua inconsistenza. In poche parole, i libri che resistono alla cosiddetta prova del tempo, non sempre sono quelli di cui era stato decretato il successo nel qui e ora del marketing editoriale ma quelli che sopravvivono alla prova del tempo, moltiplicando le interpretazioni, aprendo la scatola magica delle letture e delle intersecazioni di significato. Ma il romanzo di Kitamura è nella lista dei migliori 10 libri del 2021 del New York Times Book Review e selezionato per il National Book Award for Fiction. In Italia è tradotto da Bollati Boringhieri con il titolo Tra le nostre parole (traduzione di Costanza Prinetti).

La protagonista senza nome è un’interprete di inglese, francese e giapponese che lascia New York per andare a lavorare alla Corte penale dell’Aia con un contratto a termine di un anno, rinnovabile (elemento rilevante per chiunque conosca l’ambito di lavoro di cui si parla e soprattutto le condizioni) dopo che i legami familiari si sono dissipati con la morte del padre e il trasferimento della madre a Singapore. All’Aia c’è un’amica, Jana, anche lei “sradicata” e consapevole, che per carattere è l’opposto della protagonista: Jana è aperta, schietta, estroversa tanto quanto lei è invece schiva, riservata, cauta; Jana ha ottenuto a fatica un mutuo per comprare un appartamento in un quartiere in trasformazione, gentrificato ma non del tutto sicuro, scommettendo sulla trasformazione della città e sulla propria capacità di accollarsi un impegno finanziario, simbolo inequivocabile, quest’ultimo, della ricerca di stabilità. La protagonista, invece, abita in una casa neutra, impersonale, intermedia, da cui si muove con i trasporti pubblici notando ogni volta qualcosa di vagamente sinistro e insidioso dietro la patina di apparente tranquillità urbana della città olandese. Jana è anche il tramite nelle situazioni sociali al di fuori del lavoro della protagonista e, fondamentalmente, è il motore del subplot del romanzo in cui il fratello di Jana è vittima di un episodio di violenza urbana. Sullo sfondo, una città apparentemente neutrale, linda, ordinata ma costellata di episodi che si insinuano nella vita quotidiana come epifenomeni di cui la protagonista percepisce una distanza incolmabile. Si tratta di particolari e frammenti come il dialogo tra due ragazzine sull’autobus che sembrano raccontarsi uno stupro, o la sottostante inciviltà di chi getta mozziconi in terra perché tanto c’è sempre qualcuno che pulisce (immigrati del Suriname, come Kitamura fa notare bene alla protagonista, tra l’altro ex colonia olandese), o l’episodio inquietante della rapina e della violenza subite dal fratello di Jana i cui motivi non verranno mai chiariti. Al culmine della violenza percepita e raccontata dai personaggi, il processo a un capo di stato accusato di crimini di guerra, del quale la protagonista traduce le deposizioni e subisce la pressione psicologica.

In un paese come l’Olanda, noto per la tolleranza vantata come un valore socialmente condiviso e un marchio da vendere all’estero, l’Aia è la città della Corte di giustizia e dei palazzi ordinati e asettici dove la vita collettiva appare paciosa e consolidata ma da cui, nelle parole della protagonista, trapela continuamente una patina sinistra e inquietante, in cui anche in quest’apparente fortezza di democrazia, libertà e tolleranza, la violenza serpeggia come una presenza dietro quinte che a volte si fanno trasparenti, a volte aprono e mostrano la violenza del linguaggio nel racconto mediato dal lavoro degli interpreti, invisibili protagonisti dei discorsi e delle memorie di chi la violenza l’ha subita in prima persona.

La storia, le situazioni e l’atmosfera sono sempre sul limite impalpabile dello straniamento. Se dovessi pensare a un’immagine che possa trasmettere l’impressione generale del libro, sarebbe probabilmente un acquerello dai tratti gentili ma decisi sul cui sfondo si stagliano figure sfuggenti e terribili. I loro atti sono difficili da decifrare. Kitamura coglie con profondità la difficoltà universale dell’essere estranei ma non stranieri: a se stessi, al mondo, allo spazio urbano in cui ci si muove ma lo fa con un’eleganza e un aplomb tali da far risultare stranianti le relazioni umane, sospese in quello spazio smisurato tra i linguaggio verbale e il mondo esterno, tra il referente, l’oggetto designato e lo spazio dell’immaginazione.

Se questo è il sotto testo più interessante del romanzo, la cifra stilistica che se ne fa carico è quella di una narrazione in prima persona in cui lo spostamento dello sguardo tra privato e pubblico si sovrappone al mistero irrisolto della natura del linguaggio: le parole possono essere nette, chiare, puramente referenziali, soprattutto quando si traducono ma in realtà non è quasi mai così, perché il substrato di implicazioni e distorcimenti e malintesi cova come un fantasma dietro le quinte. Ne sono evidenza le descrizioni dei palazzi istituzionali, in primis la prigione e la corte (luoghi che rimandano all’interpretazione foucaultiana del sorvegliare e punire) le cui architetture imponenti sono teatri di tragedie e drammi umani talvolta inintelligibili ai più o forse semplicemente rimossi:

By daylight, the Detention Center was less sinister than it had appeared by night, and there was something almost matter-of-fact about its presence on the side of the road. The bus did not stop outside the Detention Center and I saw the wall and outline of the building only fleetingly through the window, it was simply another one of those building that exist in the landscape in which you live, of which you never take real notice and whose purpose you never know. There are prisons and far worse all around us […] People eating their sandwiches and sipping their cappuccinos, who had no idea of what was taking place directly above them, no idea of the world in which they were living.

But none of us are able to really see the world we are living in – this world, occupying as it does the contradiction between its banality (the quat wall of the Detention Center, the bus running along its ordinary route) and its extremity (the cell and the man inside the cell), is something that we see only briefly and then do not see again for a long time. It is surprisingly easy to forget what you have witnessed, the horrifying image or the voice speaking the unspeakable, in order to exist in the world we must and we do forget, we live in a state of I know but I do not know.

Progressivamente, da superficie enigmatica, la città lascia cadere la sua patina pulita, asettica, organizzata per rivelarsi un luogo in cui la violenza della storia e della società irrompono nell’ordinarietà delle situazioni. In un episodio, la protagonista è a una mostra alla Galleria Mauritshuis, dal titolo fashionable di “Slow Food”, in cui l’intimità degli spazi espositivi è ben diversa dalla grandiosità dei musei innanzitutto perché i dipinti, guardati a una distanza minore, possono rivelare la potenza dello sguardo del soggetto dipinto di fronte a quello dell’osservatore ” The paintings opened up a dimension that you did not normally see in photographs, in these paintings you could feel the weight of time passing” ma è di fronte a un quadro in particolare che lo sguardo dell’osservatrice coglie la profonda ambivalenza del soggetto dipinto e la possibilità di molteplici interpretazioni, non ultima quella dell’intimità violata. L’opera intitolata Man Offering Money to a Young Woman di Judith Leyster (dal titolo descrittivo e per niente poetico) ritrae una donna intenta a ricamare mentre un uomo, dietro di lei, guardandola con interesse evidente, tiene in mano delle monete in un gesto di offerta, mentre con l’altra mano sta toccando il braccio della donna come a distrarla dal lavoro. La descrizione di Kitamura, dettagliata e accurata, si interseca con le riflessioni della protagonista che sembrano intrise di straniamento di fronte alla percezione estetica che sdoppia il soggetto, restituendo tutta l’ambiguità della situazione. L’uomo vuole comprare il lavoro della giovane ricamatrice o mostrarle il suo denaro per altri scopi? La scena ritrae un tentativo di seduzione rozzo e materiale o un atto intimidatorio che potrebbe avvenire in qualsiasi luogo al mondo?

The painting operated a schism, it represented two irreconcible subjective positions: the man, who believed the scene to be one of ardor and seduction, and the woman, who had been plunged into a state of fear and humiliation. That schism, I now realized, was the true inconsistency animating the canvas, and the true object of Leyster’s gaze.

Il momento di agnizione è interrotto dai passi di Jana e dal racconto della storia del quadro da parte di Eline, storica dell’arte. Noto come The Proposition, il dipinto venne realizzato in un periodo in cui l’impero olandese era in espansione, richiedendo così un’interpretazione della domesticità come ambivalente atteggiamento di fronte alle tempeste dalla storia.

Kitamura costruisce un romanzo in cui l’intimità è sempre al centro della narrazione e ne costituisce il fulcro da cui tutto si dipana ma non è mai al di là della Storia, passata o recente; l’intimità degli individui si salda profondamente e inesorabilmente al turbinio degli eventi e delle trasformazioni storiche, influenza gli eventi personali e nessuno ne è esente. Tutti i personaggi sono investiti dagli eventi che ne modellano le vite: la protagonista del quadro di fronte al cosacco che le propone di sposarla (o di sedurla?), la protagonista che lascia New York per cercare un lavoro, Jana che sembra aver trovato la sua stabilità ma che, con la vittoria della Brexit non potrebbe tornare in un paese che non riconosce più, la possibilità di un fallimento del progetto europeo, i crimini di guerra del dittatore africano (mutuato su Laurent Gbagbo al cui processo Kitamura ha assistito), non ultimi, gli interpreti della corte, le cui vite sono “sotto osservazione” e lo status dei paesi occidentali, colpevoli di imperialismo.

We interpreters were only extras passing behind the central cast and yet we moved with caution, we had the sense of being under observation. We understood that the story of the trial was being written, and also the story of the Court, whose reputation would be deeply affected by the case. The former president had already released a statement denouncing the Court as a tool of Western imperialism and an ineffectual one at that, for obvious reasons he felt vindicated by the collapse of the case against him.

La chiusa dei giornalisti che vengono a osservare e documentare i momenti finali e il caos imminente non fa che ribadire il disordine in cui versa il mondo dietro l’apparente ordine di normalità e quotidianità, dietro il tentativo ricorrente di dare unità al disordine della storia e degli eventi o forse di stabilire delle responsabilità: They had mere fragments of the narrative, and yet they would assemble those fragments into a story like any other story, a story with the appearance of unity.

Per quanto i luoghi istituzionali siano staccati dalla vita quotidiana di chi non sa, di chi non vuole vedere o di chi semplicemente continua, pur sapendo, a far finta di non sapere, nel romanzo essi penetrano comunque l’intimità delle persone, in primis degli interpreti, in un lavoro che esercita una pressione psicologica sfiancante e richiede ben più che il semplice distacco. Alla fine della sua esperienza, pur con il successo professionale che chiunque spererebbe in un ambito così prestigioso, la protagonista decide di lasciare il lavoro al culmine della pressione che subisce quando il dittatore africano le ricorda che lei proviene da un paese, gli Stati Uniti, che ha commesso atrocità e crimini e che non è migliore di lui. In un momento che sembra un a parte teatrale, l’uomo rompe la barriera invisibile dell’interpretariato per entrare nella vita e nell’identità della protagonista. Questo momento è il culmine dell’intimità violata: intimità tra interprete e interpretato (rapporto delicatissimo e dai confini fragili ma netti), ma anche incontro/scontro tra civiltà e culture, un discorso che potrebbe aprire un intero capitolo sul senso di colpa dell’occidente e sul pericolo di farsene troppo carico.

Il romando di Kitamura non va oltre su questo punto, lasciando sospesa la questione in due battute tra l’assistente legale e la protagonista: Why didn’t you say anything? Why did you let him speak that way to you? – Because he didn’t say anything that was untrue, è la risposta di lei, onesta, netta, eppure capace di aprire una voragine di ulteriori significati che vanno al di là dello spazio del romanzo.


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