Il piccolo amico di Donna Tartt

Dopo l’estenuante lettura de Il piccolo amico di Donna Tartt ( BUR contemporanea, traduzione di Idolina Landolfi e Giovanni Maccari) mi viene il dubbio che dopotutto giudicare un libro dalla copertina non è poi così sbagliato, soprattutto se lo si fa a posteriori, cercando di riflettere sulle misteriose e tortuose vie che la fortuna percorre per raggiungere quei pochi eletti nel mondo, soprattutto delle lettere, ai quali Donna Tartt sembra ormai appartenere.

southern-gothic

E già dalla copertina (brutta e un po’ morbosa) con il bambolotto impolverato  e dal suo retro che nell’edizione italiana cita un passo da una recensione del Time “Una grande storia di vendetta, raccontata con una voce ricca e controllata che non spreca nemmeno una parola” un lettore scafato dovrebbe provare una certa diffidenza. Sarà strano, ma ho sempre avuto enormi delusioni quando ho letto libri recensiti da grandi riviste di diffusione di massa, non ultime quelle americane. E se c’è una cosa che mi spiazza qui è proprio lo spreco di parole.

Nel 2014 Donna Tartt ha vinto il Pulitzer con The Goldfinch (Il Cardellino), un romanzo di oltre 700 pagine criticato nel New Yorker e in The Paris Review, le riviste del gotha della cultura high brow americana, ben note a chi si occupa di letteratura d’oltreoceano. Non ho letto quest’ultima imperdibile opera di Tartt; sono invece reduce da un processo di lettura (che definirei ostinato) del suo secondo romanzo Il piccolo amico e noto con soddisfazione di non aver ceduto alla tentazione di lanciare il libro contro il muro o lasciarlo a metà (una cosa che si sarebbe meritata, ma che raramente faccio – colpa del superego). Ho preferito adottare la tipica pazienza zen imparata dopo anni di studi letterari e proseguire la maratona di lettura cercando di scoprire quale sia il segreto del successo di Tartt e perché così tanti lettori la amano o semplicemente ne comprano i libri.

Non è insolito affermare che gli autori di letteratura possono dividersi tra chi è scrittore e chi è narratore. Alcuni sono entrambi, e quando i due piatti della bilancia sono in equilibrio, il piacere della lettura è ai suoi massimi gradi. Penso a William Faulkner o a Thomas Pynchon, a Salinger o a Shirley Jacksono a Irene Nemirovsky e a tanti altri che non posso citare ora ma di cui scriverò.

Poi penso a Donna Tartt e cerco di capire se sia l’una o l’altra o entrambe le cose. Con tutte le ore perse a leggere il suo romanzo del 2002 mi viene da pensare che avrei potuto impiegarle a fare un corso di informatica per principianti o a leggermi Ian Fleming, che sarebbe stato piacevole per passare il tempo libero. Mi sa che hanno ragione i colleghi americani quando sostengono che la scrittura di Tartt è un po’ dickensiana anche se le mancano completamente la grazia e la potenza descrittiva di Dickens (cosa vorrà dire dickensiano, poi, ce lo spiega un bell’articolo). Mi pare, al contrario, citazionista nelle ambientazioni, evocativa di stilemi e cliché del grottesco, ma molto farraginosa sul piano della fabula.

Leggendo il retro di copertina e consultando un po’ di siti online si apprende che la nostra viene dal Mississippi. Laureata al Bennington College, dove ha studiato (o si è esercitata in) scrittura creativa, ha avuto una frequentazione con Bret Easton Ellis (Less Than Zero, American Psycho). Nel 1992 pubblica The Secret History, suscitando parecchio interesse e ammirazione e dieci anni dopo torna sulla scena con Il Piccolo amico; nel 2013 pubblica The Goldfinch e vince il Pulitzer. Accidenti, mi dico e pensare che finora me la ero fatta sfuggire!

Se amate la Southern literature degli Stati Uniti e avete una passione per Flannery O’Connor, William Faulkner, Harper Lee, Carson Mc Cullers e, tra i contemporanei, Cormac McCarthy; se avete celato nel vostro cuore passaggi ed episodi di Hackleberry Finn, non perdete tempo con Il piccolo amico di Donna Tartt e le sue astruse, ridondanti e incoerenti descrizioni, i non sequitur della trama, la prolissità quasi irritante dei dialoghi, la fastidiosa inconsistenza narrativa con cui affronta i personaggi secondari (tutti i neri nel romanzo sono descritti in maniera profondamente irritante e superficiale, sempre guardati dal punto di vista dei bianchi, peraltro sgradevoli), e la grottesca e stonata melodrammaticità con cui affronta i rapporti familiari.

andrea-kowch-an-invitation-2014
Andrea Kowch – An Invitation – 2014

In un saggio sulla letteratura degli anni Ottanta che fa parte di Both Flesh and Not, David Foster Wallace parla di quella categoria di “conspicuously young writers” usciti dalle scuole di scrittura creativa. Forse Tartt appartiene a questa generazione di scrittori con i quali condivide una tecnica descrittiva che ricorda sempre qualcosa e qualcuno senza riuscire a innovare davvero la forma o lo stile. Nel caso de Il piccolo amico l’obiettivo mancato è doppio: pur essendo cospicuamente abbondante, la scrittura in questo romanzo non ha alcuna drammaticità né trasmette inquietudine ma resta sempre confinata a una serie di cliché. A volte l’autrice sembra presa dalla propria tecnica e come quelle donne che lavorano i centrini all’uncinetto, non riesce a smettere di aggiungere occhielli e maglie a quello che sarebbe altrimenti un lavoro ben più elegante e formalmente accettabile, se l’autrice rinunciasse a innamorarsi delle cose che racconta o descrive, sbarrando la strada all’immaginazione del lettore per imporre una visione delle cose, non solo ridondante ma anche imperdonabilmente futile (il che sembra assurdo…). E non è il numero di pagine in sé, quanto quello che le riempie a rendere questo romanzo un’accozzaglia di cliché già visti, rimasticati e rielaborati un po’ dal cinema, un po’ dalla tv con le sue serie su strani tipi che bazzicano le zone di provincia e un po’ dalla letteratura per teenager.

Con un’eccentrica e incoerente collazione di stili mal citati e punti di vista che promettono tutto il tempo quello che non riescono a mantenere, Donna Tartt apre il romanzo in maniera molto incisiva e per le prime cento pagine riesce persino ad acciuffare il lettore facendogli credere che troverà quello che cerca in questo romanzo, per poi tradire le aspettative e finirla nel modo più ingannevole, piatto e scontato che si possa immaginare, facendo e disfacendo i nodi della trama in maniera del tutto pretestuosa e rigirandosi gli eventi come più le piace, a seconda del mood con cui guarda i propri personaggi. Quello che resta, alla fine, è una mistura poco convincente e un po’ assurda di melodramma, molto simile a quello che suscitano a volte i bambini quando fanno i capricci e poi tornano magari silenziosi alle loro faccende.

Non c’è una linea narrativa o tanto meno una sottotrama che riesca a mantenere l’aspettativa. Molti direbbero che si tratta di una tecnica narrativa che mira all’inaspettato e all’inatteso; una tecnica volta a ribaltare i punti di vista e a depistare le aspettative del lettore per lasciare un alone di mistero e di inquietudine. Peccato che in questo romanzo non ci siano né mistero, né inquietudine (ad eccezione del primo capitolo, l’unico davvero convincente e ben narrato), tantomeno se si pensa che i protagonisti sono tutti in età preadolescenziale, un po’ come succede in Huckleberry Finn (e qui finisce la somiglianza). Peccato che i ragazzini ne Il piccolo amico non abbiano nemmeno un po’ dello sguardo straniato dei personaggi di Twain, perché l’unico sguardo sovrastante e artificiosamente elaborato è quello dell’autrice che cerca tutto il tempo di portare il lettore dalla parte della protagonista (anche grazie a un’ossessiva narrazione in terza persona che finge di non essere onniscente), senza riuscire a creare un idioletto degno del proposito o a raggiungere la profondità attraverso l’ironia finzionale. Il risultato è un lavoro incongruo, prolisso.

Non che una storia come questa debba approdare per forza a una soluzione o sciogliere i dubbi di una vicenda che solo all’apparenza evoca la detective story. Esistono tanti romanzi il cui scioglimento è l’affermazione di un principio assai amato nel Novecento e oltre: la verità non sempre si può circoscrivere ricostruendo gli eventi. La verità, talvolta, è soltanto lo spazio vuoto di una scatola che una volta aperta non contiene nulla, se non congetture. Mi viene da pensare ad Absalom, Absalom! di Faulkner o a certi bellissimi romanzi postmoderni dove molto resterebbe da scoprire e il lettore deve provare a rispondersi da solo.

Quale sarà l’intento ne Il piccolo amico? È possibile che, nonostante un’incontestabile capacità di aggiungere particolari e una prolissità formale che potrebbe anche suscitare ammirazione, Tartt non vada fino in fondo quando si tratta di mostrare le cose come stanno? E’ possibile che preferisca invece narrare le vicende di una ragazzina e dei deludenti personaggi che la circondano costruendo una fiction dominata da un grottesco di superficie invece che elaborare un mondo narrativo vero e proprio?

Perché puntare su un’atmosfera gotica, usando anche stilemi ben noti alla letteratura del sud e poi tradire questa promessa virando verso una melodrammaticità da Capanna dello Zio Tom che non aggiunge niente, ma anzi sottrae emozione? Perché adottare il punto di vista di quell’età fragile e inquietante che è l’adolescenza, cercando di scavare nei difficili rapporti familiari, nella solitudine, nel coraggio incosciente, nel silenzio ostinato e poi non preoccuparsi di costruire un lessico adeguato, una parlata*? Perché puntare su alcuni personaggi secondari, persino più interessanti dei protagonisti, per poi tralasciarli senza ragione? E infine, perché utilizzare la violenza come cifra espressiva, relegando i personaggi “malvagi” nella prigione della loro condizione sociale per poi recuperarne un po’ l’immagine virandola in chiave melodrammatica lasciando passare l’idea che in fondo si è giocato a fare i cattivi e tutto può tornare come prima?

Perché iniziare con una vicenda inquietante, crudele, misteriosa, infarcita di presagi e destino quando l’intento è giocare al gioco un po’ trito del vediamo che succede se faccio fare questo al mio personaggio e se gli faccio dire quest’altro perché in fondo è solo fiction? E poi lasciare tutto come se nulla fosse, anzi, peggio: annoiando pure un po’ il lettore con scene ripetitive, chiacchiere inutili, dialoghi ingenui e superflui, situazioni al limite del ridicolo che andrebbero bene per la letteratura dell’infanzia? Magari c’è qualcosa di più grande che non ho colto. Una simbologia segreta il cui intento è confondere le acque attraverso uno stile che, in fondo in fondo, mira a mettere in contrasto, senza riuscirci bene, diversi livelli di grottesco.

Eppure, gli arredi di scena ci sono tutti.

karla-gilson-hunt-southern-gothic-2010
Sarah Gilson Hunt – Southern Gothic – 2010

In questo senso lavorare sugli stilemi del gotico americano serve a costruire scenari ingannevoli e vicende inquietanti. E il romanzo della Tartt contiene tutti gli stilemi del gotico: il bambino impiccato all’albero di tupelo, la casa infestata di ricordi, il silenzio ostile di chi sa ma non vuole parlare, animali morti, serpenti imprigionati, una wilderness ai margini della città, predicatori folli, angoli bui, lande desolate e fabbriche abbandonate, ambienti in penombra e angoli misterosi, violenza e colpi di armi da fuoco, la vecchia casa,  southern gothic, ovviamente alienata e decaduta, della famiglia “ricca”, e la casa sudicia della famiglia complementare, brutta e cattiva; il funerale della vecchia zia e la spettale presenza della madre un po’ derangé, la droga, la violenza tra fratelli e la tragedia familiare. C’è persino la torre dell’acqua, con il serbatoio buio e un po’ schifoso, dove si consuma una delle scene più promettenti del romanzo e anche, purtroppo, una delle più prolisse.

Appunto, c’è di tutto un po’, persino la follia edulcorata alla Erskine Caldwell dei bianchi poveri e drop out. Quello che manca, però, è la forma autentica e la letteratura, quella vera.

* Certamente la traduzione ha un ruolo in questo senso perché il colore locale della lingua va inevitabilmente perduto e non certo per colpa dei traduttori di questo romanzo.

One thought on “Il piccolo amico di Donna Tartt

Leave a comment