Il mio prossimo romanzo di Fabrizio Venerandi

Il mio prossimo romanzo di Fabrizio Venerandi pubblicato da Antonio Tombolini editore e reperibile qui in ebook è un’operetta centripeta che divertirà molto chi la legge. Uso la parola operetta non come diminutivo, ma nel senso di una performance verbale che ha molto di teatrale, e corre come un puledro impazzito per i campi della fantasia e del delirio metanarrativo. C’è la storia smilza di un narratore che racconta del suo prossimo romanzo in un modo apparentemente sgangherato in cui mescola intenzioni, fantasie, frustrazioni e carambole del pensiero che si intrecciano con le vicende di una quotidianità in cui non si sa mai se è la gioia del dolore di scrivere o il dolore della gioia di farlo che illuminano le situazioni folli e grottesche in cui la trama si dispiega. In realtà più che un metaromanzo il libro appare come un palinsesto, quel tipo di scrittura che lavora sulle possibilità che la scrittura offre a se stessa spingendosi sul limite che tracciano forme di secondo grado come la parodia e la satira.

Uno scrittore è alle prese con un romanzo iniziato e non concluso intitolato Bisanzio che però decide impulsivamente di cestinare in un momento di sconforto. Bisanzio è un romanzo della maturità, in cui lo scrittore ha deciso di mettere dentro dei personaggi tra cui suo fratello nelle vesti di un geriatra, con una trama improbabile che è già in sé la parodia di un romanzo postmoderno che a sua volta potrebbe essere una parodia di un romanzo serio. Ma nulla di tutto questo avverrà perché il manoscritto finisce in un cassonetto insieme alle chiavi della macchina e siccome lo scrittore è a Bologna e deve tornare a Genova, ecco che comincia il panico. Dai dialoghi con il fratello, coscienza “critica” del libro agli incontri con i tre editori, alla nottata delirante alla stazione di Bologna in attesa del treno, al viaggio in macchina con l’amico Marco per andare a Roma alla Fiera dei piccoli editori, il libro è una miniepopea dissacrante sul vizio di scrivere e sull’impossibilità di smettere di farlo.

Ci sono gli echi dell’amato Foster Wallace, le riflessioni estemporanee sulla capacità degli americani di creare grandi trame, la frustrazione della vita di provincia (“Genova, dove tutto è così immobile e provinciale da decenni”), le disillusioni della vita, le allucinazioni sulle trame possibili da scrivere pur di pubblicare il libro presso un editore che gli chiede il solito piccolo aiuto che poi consiste nel comprare le copie e rivenderle agli amici, la brutale ironia dell’editore romano (da leggere a voce alta con l’accento giusto per godersi uno spaccato esatto di come siamo qui nella capitale…), il laconico distacco dell’editore bolognese che dà consigli di stile, e infine l’idea della propria casa editrice in cui, da italiano in crisi che pensa sempre di mettersi in proprio per aggirare i vincoli di un mercato incomprensibile, spunta il programma editoriale con le riscritture di grandi libri come Il pendolo di Focò di Ulberto Eco (Ulberto, sì, non è un refuso) o I promessi sposi II: il ritorno di Rodrigo in cui il personaggio è uno zombie che si nutre di sangue (il capitolo Don Rodrigo Revenge presenta un estratto di cui cito un pezzo):

L’innominato sospirò. «Le vie della Provvidenza sono incomprensibili agli occhi degli uomini» disse soltanto e poi aggiunse che comunque questo voto di castità, cara Lucia, ormai dovrebbe essere concluso e Renzo alzò la testa verso l’innominato, come di chi si sveglia dopo tanto sonno e vede una luce nuova in cui più non si sperava più. […]

o una serie di noir dal titolo Dante’s mistery books con Dante detective che scende agli inferi per cercare indizi sugli assassinii. Chissà quanti sanno che cose di questo tipo già si fanno in mercati editoriali seri, maturi e rispettabili (!) e hanno un discreto successo: famoso è il mash-up di Jane Austen dal titolo Pride and Prejudice with zombies da cui è stato tratto anche un film.

Sembra che Venerandi, con questo suo modo apparentemente understated, sia in realtà molto più acuto nel suo modo di dissacrare il provincialismo italico.  Tra un progetto di mash-up, un pastiche in salsa dantesca e la dissacrazione dei classici nazionali, Il mio prossimo romanzo torna alla realtà (finzionale) e ci presenta i dialoghi con il fratello che dopo un primo rifiuto venato di nevrotica competizione familiare, decide di diventare geriatra per poter uscire meglio dal romanzo, la ragazza del fratello che forse nemmeno esiste ma tormenta il narratore con il libro di uno scrittore di successo che il narratore deve per forza leggere (che forse è La solitudine dei numeri primi) e una scena di copula quasi lisergica (tra le cose più deliranti che mi sia capitato di leggere) tra il protagonista e un suo personaggio femminile di nome Piggy, durante una notte di sballo al centro sociale, in cui realtà e fantasia si mescolano senza soluzione di continuità.

Venerandi deve essersi divertito molto a scrivere Il mio prossimo romanzo (a sentirla dire questa frase senza contesto, è un bel gioco degli equivoci) o forse no e non è facile condividere molte delle sue idiosincrasie nel libro se non si conosce l’editoria italiana medio-mediocre di provincia e i suoi vizi insopportabili, quella, per esempio, a cui si rivolgono gli aspiranti scrittori che Umberto Eco e Fabio Mauri sbeffeggiavano crudelmente nel famoso 21 Modi per non pubblicare un libro.

Il metaromanzo di Venerandi, godibile, divertente, irriverente, può essere letto proprio come una risposta apparentemente goliardica alla complicata situazione dello scrittore e tuttavia nasconde un aspetto più profondo che sale a tratti tra le righe e ne avvolge tutte le pagine: l’ironia (e l’autoironia) è la forma più alta di distacco e anche la più malinconica. Lo scrittore/narratore del romanzo mescola satira e parodia per fare piazza pulita di tutte le certezze e per coinvolgere il lettore in un gioco di riconoscimenti in cui però è la satira a prevalere sulla parodia con tutto quell’apparato di ironia esistenziale e  sentimento malinconico che l’accompagna. Questo trapela in tutto il libro ma soprattutto quando l’amico Marco, mentre stanno andando a Roma, racconta la lettura di Carver e ci fa capire che prima di scrivere bisogna imparare a leggere.

Ho nominato la satira perché il metaromanzo di Venerandi è soprattutto una satira di varie cose: del mercato editoriale, di se stessi che si vuole entrare in quel mercato, del romanzo come forma di espressione creativa che non riesce a concludersi e viene cestinato, della scrittura come esigenza di vita che però può essere una forma di dipendenza, dei propri limiti che ci condannano al ridicolo nel peggiore dei casi, alla mediocrità nel migliore. Il libro è appunto un palinsesto di possibilità narrative che fa della metatestualità il suo principio fondativo e come tale contiene un intrinseco sapore satirico che prende soprattutto in giro se stesso nel tentativo di dipanarsi come romanzo compiuto – una storia, dei personaggi reali e fittizi che a volte prendono il sopravvento, una serie di eventi collegati che dovrebbero condurre a una linea temporale, uno sfondo familiare disastrato ma assai divertente, un amico che è un confidente ma è anche un alter ego. Tuttavia, le storie restano in fieri, tutto resta nel regno della possibilità, della fantasia, dell’immaginazione potenzialmente salvifica ma in fin dei conti ansiogena; perché diventa quasi impossibile per lo scrittore portare a termine il suo lavoro quando scopre ciò che ogni scrittore autentico ha sempre sentito impellente: il distacco lacerante, doloroso e folle tra vita e scrittura; la necessità, forse per salvaguardare la propria psiche, di smettere di frequentare questa droga così perniciosa che si chiama scrittura. Il problema è che la scrittura quando smette di essere un fatto privato e vuole farsi avanti al pubblico, essere riconosciuta come un atto pubblico, trasformata in libro e quindi prodotto, è come alienata in un asfittico mercato delle vacche che crede di essere più nobile di altri solo perché vende libri. Quando Venerandi parla della Fiera della piccola e media editoria, nel capitolo intitolato “Roma”, è facile riconoscere il disagio dovuto al fatto che si sta andando a un mercato, e non a una fiera della cultura in cui leggere resta un fatto privato, dopo tutto, che a volte irrita persino un po’ chi non condivide le nostre passioni:

Il problema delle fiere, dei saloni, dei meeting della media, piccola, grande editoria è che tu scrittore ci sei attirato come una mosca è attirata dalla roba che marcisce e si contorce, e tu ci vai e pensi di essere al tuo posto, tu scrivi libri e lì si vendono libri, si vendono le cose che tu hai fatto, credi di essere al posto giusto, e invece tutte le volte che ci sono andato ho avuto a che fare con persone, come posso dire, spiacevoli, cioè gente a posto, ma con la quale si costruivano situazioni spiacevoli, dialoghi imbarazzanti, rapporti malsani e per un certo periodo ho pensato che fosse colpa mia, che non ero adeguato, poi invece ho capito, è il posto che è sbagliato, è una fiera di venditori, di gente che è lì per vendere della roba, che pensa di venderne ancora di più, che ragiona con altra gente su come vendere quel prodotto low-cost che si chiama libro e che è ammantato di una nobiltà sempre più grottesca man mano che passa il tempo.

Forse è proprio questo grottesco che mette in scena Venerandi: proprio dal grottesco che stanno diventando i libri si potrebbe ripartire per buttare giù l’impalcatura della finzione di mercato e ricominciare a leggere e scrivere in libertà.

C’è poi un aspetto che chiamerei performativo ne Il mio prossimo romanzo perché a leggerlo a voce alta, come se fosse un monologo teatrale (cosa che mi auguro che diventi perché ha un ritmo e un andamento che si presterebbero benissimo alla scena) vedresti il pubblico in sala ridere a crepapelle, sghignazzare, contorcersi sulla poltrona e poi cadere nell’inevitabile malinconia di questa satira colta che fa finta di non esserlo in questo romanzo per adulti cresciuti a pane, letteratura e cultura pop. Ed è un bel dire quello dell’editore che invita il narratore  a pensare al lettore e lasciar perdere la letteratura fighetta; mentre leggiamo queste parole non stiamo leggendo soltanto della patetica figura di scrittore che sta lì a farsi dare dei consigli ma stiamo assistendo a noi stessi di fronte alla lettura e ai libri che scegliamo di leggere.

Ma ancora una volta il narratore ci sta prendendo in giro perché se c’è una cosa che il metaromanzo-palinsesto di Venerandi fa è proprio quello di tirare il lettore per il bavero e invitarlo a ridere con lui, come a ricordarci, senza citare direttamente Baudelaire, la nostra patetica figura di lettori/consumatori: è a noi, ipocriti lettori, suoi simili e fratelli, che il gioco è rivolto, anche quando si vena dello sguardo ironico del malinconico. Forse una soluzione è tacere o semplicemente mentire di nuovo, facendo finta come i drogati di aver smesso di farsi, tenendosi stretta l’unica ragione per cui vale la pena continuare a contorcersi con la scrittura:

Sto bene perché adesso ho capito che il godimento di scrivere e di essere letto, non sarà mai paragonabile al mio desiderio.


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