Dawn di Rose McGowan

Ricordo Rose McGowan protagonista dell’horror Planet Terror di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, mentre vestita con il corpetto rosso e la minigonna di pelle nera fa partire la raffica dei colpi dal mitra che Wray, il suo ragazzo, le ha conficcato nella gamba (che il personaggio ha perso in un incidente) per uccidere gli zombie che stanno assalendo la bizzarra compagnia in fuga. È una delle scene più gore del film (e si fa a gara a metterle in classifica tutte) e lei è quella che nel film ripete quella famosa battuta, ogni volta che fa qualcosa di complicato: “talento sprecato numero…”. In Death Proof, sempre di Tarantino, interpretava la ragazza bionda che viene ammazzata brutalmente da Mike, lo stuntman psicopatico interpretato da Kurt Russell, che la invita sulla sua macchina per riportarla a casa e poi la costringe a subire una serie di soprusi in un crescendo sempre più violento.

Sono numerose le apparizioni della McGowan in altri film, inclusi Scream di Wes Craven e The Black Dahlia di Brian De Palma ma in Grindhouse il suo personaggio resta una vittima pura e semplice, senza nemmeno quella grinta che assume una valenza tanto liberatoria per lo spettatore in Planet Terror. Ma Tarantino voleva fare uno slasher movie che nella scena finale dell’inseguimento tra Mike e le ragazze si conclude con la disfatta del molestatore assassino in un crescendo liberatorio di colpi e pugni con i quali le ragazze si vendicano dei suoi soprusi.

Eppure c’è una traccia che sembra avere poco di casuale quando si guardano le parabole di certi attori che ci restano impressi particolarmente per una battuta o l’espressione del volto in una certa scena. E Rose McGowan, con quel suo “talento sprecato numero sette o undici o trentadue” rimane il viso dolce e volitivo di un personaggio nonostante tutto forte e indomito in un panorama in cui le figure femminili, almeno nel cinema di genere, sono sempre un po’ compresse tra stereotipo e punizione, uscite da un immaginario maschile che a volte le trasforma in proiezioni del proprio desiderio di vendetta: supereroine, pazzoidi sanguinarie, vendicatrici, fuorilegge più o meno indomite. Sono spesso la versione femminile e rinnovata di quello che apparirebbe, in versione maschile, uno stereotipo un po’ trito. Tarantino, tuttavia, è più articolato e non confina i suoi personaggi femminili  al solo ruolo di vittime vendicatrici, ma va un po’ oltre, rendendole belle toste e lasciando molto spazio per le interpreti di lavorare sul loro ruolo femminile, anche mostrandone i lati più oscuri e feroci. Finalmente le donne sono sdoganate dall’immagine di fragilità e sottomissione che le rende così intrinsecamente “femminili” e, finalmente, assumono un ruolo di primo piano, spesso persino più interessante di quello dei personaggi maschili che fanno da contorno.

Non ho mai pensato che la vita delle attrici fosse una lunga strada tranquilla piena di gratificazioni, né che le attrici siano dei gigli di campo rovinati dalle mani grezze di qualche brutale capitalista dell’immaginario. Pressioni psicologiche, giochi di potere, umiliazioni, e tutta la pletora di riti di iniziazione a cui una donna dovrebbe (presumibilmente) sottostare per entrare nel gotha delle elette, sembrano un passaggio obbligato e odioso per un’industria così avanzata e così allo stesso tempo artigianale  e rozza come Hollywood. Se si pensa ai retroscena (e ci si deve pensare, purtroppo, perché anche il cinema è un luogo di lavoro e non solo una fabbrica di sogni), se ne va via tutta la magia, e cade la cortina fumogena rivelando che il fautore dell’inganno, proprio come il mago a Oz, è soltanto un codardo ciarlatano che fa la voce grossa con un artificio per impaurire “chi pecora si fa”. Con le storie circolate in questi giorni su Weinstein, dovrebbe essere anche più chiaro un film bellissimo come Mulholland Drive, nel quale il contrasto violento tra magia/sogno e incubo/realtà si consuma proprio sul confine labile della percezione e della memoria in un luogo iconico come la via panoramica di Los Angeles, che svela soltanto vizi e perversioni. La realtà fuori dalle scene e dietro lo schermo è una stanza d’albergo e un accappatoio addosso a un triviale imbonitore.

Tornando alle donne dell’industria del cinema, le ho sempre immaginate e viste come piuttosto forti e determinate, anche competitive e dotate di quella certa aggressività che si rivela necessaria in un’industria come questa, soprattutto a Hollywood. Grazie a una grande autonomia economica che a mio parere è alla base di ogni altra libertà pensabile nel contesto economico nel quale siamo intrappolati, le attrici possono scegliere un percorso espressivo che non sia soltanto la recitazione.

Nonostante l’evidente risentimento, del tutto comprensibile, di Rose McGowan nei confronti del sistema hollywoodiano, che in questi giorni sta rivelando il suo volto più becero (un dato per tutti: la percentuale di donne alla regia è tra il 5 e il 10 per cento, mentre in Italia ancora si parla del “divano del produttore” con la stessa nonchalance con cui si dice che il tè si serve alle cinque e ci si sorprende che alcune attrici denuncino i soprusi subiti perché “cosa vuoi signora mia, si sa che le cose sono così e sempre lo saranno” – paese incomprensibile, l’Italia), l’attrice ora al suo primo film da regista sceglie una storia quasi didascalica, semplice, lineare e venata di un moralismo così self-evident.

Forse il modo migliore per lavare l’offesa, per chiunque possa e riesca a farlo, resta di esprimersi artisticamente, affidandosi allo schermo, alla tela, alla pagina. McGowan lo fa con Dawn, una cautionary tale (visibile su YouTube) che assomiglia per stile a certi racconti di Carver ma resta intrappolata in un moralismo presentato con scene confezionate ed eleganti, in cui gli elementi scenici si ispirano ai film anni Cinquanta. Questo piccolo film ha tuttavia una qualità intrinseca: riesce a raccontare una piccola storia dotandola di quella patina simbolica di tristezza che hanno tutte le opere sull’adolescenza e le sue disgrazie, riuscendo a condensare quel doloroso, inspiegabile e misterioso rito di passaggio che ogni ragazza si trova a subire quando crede di farcela da sola e poi viene tradita dalla persona in cui ripone non solo un certo tipo di amore ancora abbozzato, ma il sentimento più mal riposto di tutti: la fiducia.

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Ovviamente sto parlando di un film di diciassette minuti, titoli compresi, in cui sei attori (di cui uno visto di tre quarti), tre cambi di set e una sceneggiatura precisa ed essenziale che non chiede una parola in più, ricreano un piccolo mondo feroce dotandolo di un’atmosfera peraltro assai piacevole da guardare (fotografia curata, costumi e arredi di scena appropriati, suono nitido) ma con poco spessore simbolico. La storia ricorda certe atmosfere inquietanti dei racconti di Joyce Carol Oates, popolati delle sue adolescenti inquiete e dei suoi odiosi ragazzi cattivi, delle amiche inaffidabili e maligne, delle famiglie asettiche e confezionate del New England, chiuse in un’eterna provincia linda e raffinata dove la ferocia cova come la cieca punizione che attende tutti dietro l’angolo e l’affetto è scambiato con il controllo e l’autorità. Ma il cinema, come si sa, ha grossi limiti  sul piano narrativo rispetto alla parola scritta. E Dawn, come storia, è priva delle sfumature ambigue che solo le parole sulla carta saprebbero rendere al meglio.

Dawn Rose McGowan

Certamente, McGowan ha ricreato bene l’inconsapevole senso di abbandono dell’adolescenza di fronte al desiderio di libertà, l’esitazione, la paura di violare le regole di famiglia, la trasgressione, la tentazione e lo fa con convinzione, ricreando un’atmosfera vintage in cui Dawn legge le riviste per capire come comportarsi e ama Rock Hudson e Doris Day (altre icone specchio della falsità di Hollywood). Nella scena di passaggio dalle letture adolescenziali (in una scena sta leggendo un famoso racconto di letteratura per ragazzi The Haunted show boat di Nancy Drew, quindi siamo nel 1957 o giù di lì) alla rivista per donne adulte, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza si concretizza però nella scena del tragitto in macchina per andare nel bosco. Dawn è la brava figliola di una famiglia benestante wasp che si invaghisce di Charlie, un ragazzo molto carino ma di classe sociale inferiore, che lavora alla pompa di benzina e ne riceve le attenzioni. Ma la madre, arcigna e antipatica, la redarguisce e le dice di non frequentare un ragazzo di classe inferiore. Il male può assumere tante forme diverse e l’ingenua Dawn riceve la visita di Mary French  che vuole diventare sua amica e le porta la compagnia di Charlie, che si insinua nella vita di Dawn e, senza faticare troppo, la conquista. Se fosse stato un horror avremmo visto litri di sangue scorrere sullo schermo e se fosse stato uno slasher avremmo visto il primo piano della faccia della vittima perduta nel bosco, luogo archetipico del rimosso e della lontananza dalla sicurezza familiare. Qui il bosco diventa uno stereotipo: luogo del pericolo e della paura dove Dawn si ritrova prima completamente vulnerabile sotto gli occhi di tutti e infine tradita. I ragazzi della compagnia si trasformano nei mostri che sono effettivamente e che lo spettatore più accorto aveva già intravisto tra un sorriso e una proposta di amicizia già nella prima scena; ma non presentano grandi sfumature, anzi. La qualità migliore di questo piccolo film presentato al Sundance Festival è la scelta di non indugiare sul sangue ma di tentare, attraverso la morale, di redarguire mostrando la violenza in decoupage. Il tentativo è purtroppo un po’ stereotipato e ha un esito troppo didascalico che imprigiona la storia e la rende troppo poco simbolica e purtroppo pericolosamente prevedibile anche se resta piacevole visivamente. La produzione è di John Nguyen, che ha curato la regia e la produzione di David Lynch: The Art Life.

Il film è visibile su Youtube.

Regia: Rose McGowan.
Sceneggiatura: M.A. Fortin & Joshua John Miller

Dawn: Tara Lynne Barr
Franklin: John Grady
Mary French: Hannah Marks
Charlie: Reiley McClendon
Doris: Julia Sanford

Executive Producer: Coleen Haynes
Producer: John Nguyen
Music: Elijah Hanford
Art Department: Patrick Mitchell
Sound Department: Bastien Benkhelil, Romain Bigorgne, Colette D. Dahanne
Script Supervisor: Catherine Cobb


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