Riflessioni su Blade Runner 2049

Dopo trentacinque anni dall’uscita del primo Blade Runner (1982) il nuovo film di Denis Villeneuve suscita paragoni e critiche che mettono questa nuova prova in difficoltà per motivi non sempre comprensibili. Eppure il tema dell’empatia e dell’autenticità dei sentimenti e dei ricordi è molto forte nel film di Villeneuve, aiutato da uno scenario post apocalittico che trasmette un senso di inquietudine ben maggiore di quanto facesse il film che lo ha preceduto.

Pare che il mondo sia leggermente cambiato dalla pubblicazione di Do Androids Dream of Electric Sheep? che resta un romanzo seminale per la fantascienza. Ed è cambiato anche rispetto a quell’ormai lontano 1982 in cui uscì il primo film. Siamo in un mondo per molti aspetti più spietato, cinico, sentimentalmente arido, minacciato dalla possibilità di una bomba demografica e nel quale interagiamo con le macchine in maniera capillare, maniacale, ossessiva; l’intelligenza artificiale è una realtà che sta aprendo a nuove ansie che gli stessi fautori delle nuove tecnologie (Elon Musk per esempio) ammettono senza ambiguità, e il ruolo di noi tutti nella società è sempre più minacciato (o sentito come tale) dalla presenza del lavoro automatizzato, che nella vulgata è definito dei robot ma che, comunque sia, porta con sé implicazioni che trascendono la mera condizione di lavoro per invadere sfere della vita affettiva e delle interazioni personali; tutti temi che proprio la fantascienza ha affrontato con efficacia e lungimiranza. Abbiamo tutti maturato, almeno nelle società affluenti, una nuova sensibilità nei confronti degli animali che, mai come oggi, sono guardati come vittime sacrificali di un’industrializzazione inumana oppure come numi tutelari di una quotidianità altrimenti vuota, spietata, e stranamente disperata. Nel Blade Runner di Scott e nel romanzo di Dick, gli animali erano una presenza importante perché erano il tramite per stabilire una connessione con l’umano attraverso l’empatia che si prova al loro contatto, alla vista della loro sofferenza. Ricordo che fu proprio il modo in cui veniva affrontato il tema dell’empatia nel film a conquistarci profondamente: chi non aveva letto il libro corse a comprarlo e chi lo aveva letto, lo lesse una seconda volta. Non è un capolavoro di scrittura e di stile, perché la scrittura di Dick può sembrare a volte po’ sciatta (scriveva sempre sotto pressione), ma è uno dei libri più seminali della sua generazione, insieme a Naked Lunch di William Burroughs.

Ma veniamo al film, adesso.

Quando uscì il Blade Runner di Ridley Scott, giocavo ancora con le Barbie e guardavo i Looney Tunes (e quando ho mai smesso di guardarli?) e l’ho rivisto a distanza di anni quando c’era ancora il Vhs e poi è arrivato il dvd. Non aveva avuto un gran successo al botteghino e il grande pubblico non lo aveva preso d’assalto, un po’ come sta accadendo a Blade Runner 2049. Alla fine degli anni Ottanta Blade Runner era diventato iconico a tal punto da generare una specie di culto che ebbe una certa influenza sul cinema di genere successivo. Non c’era film di fantascienza che non cercasse di citare Blade Runner, in parte per i contenuti, già noti per chi aveva letto i classici contemporanei della fantascienza (nel romanzo il tema dell’interazione umani-non umani è centrale) un po’ per l’estetica generale più glamour di Alien (ma Alien rimanda ai film di guerra mentre Blade Runner al noir). Credo, tuttavia, che l’influenza del film di Ridley Scott sia stata duratura per almeno due aspetti: il fatto che fosse una fantascienza-noir e il fatto che fosse a suo modo molto glamour (Daryl Hannah, Sean Young, Rutger Hauer, erano tutti molto iconici per non parlare delle scene), motivi, diciamo, di tipo estetico e scenografico. Perché i temi erano profondamente inquietanti per un film rivolto a un grande pubblico, un film che apriva implicazioni che oggi chiameremmo di fenomenologia del pathos. In fondo, i temi dell’empatia e della percezione del dolore di fronte alla sofferenza, dell’autenticità della memoria e dei ricordi, e dello statuto ontologico degli esseri artificiali erano (ancora) soltanto appannaggio della fantascienza hard-core e di alcuni film universalmente noti:  2001 – Odissea nello spazio, Solaris. Chi aveva letto Asimov, Dick, Gibson, Clarke e Aldiss, poteva dirsi preparato a uno scenario che in parte stava scivolando sempre di più verso la realtà e ora è da un pezzo in mezzo a noi. Forse, senza scomodare Foucault, si può dire che tutta la fantascienza sia il più grandioso e lodevole tentativo di mostrare le conseguenze della biopolitica: il controllo sociale, i nuovi rapporti umani in un mondo tecnocratico, il ruolo della scienza e della legge, il fatto che l’umano è antiquato (per citare Gunther Anders); il fatto che la distopia sia necessaria per trasmettere l’inquietudine umanistica è un piano che solo letteratura e cinema possono affrontare per il grande pubblico, con il solo problema di venire recepite più come finzione, gioco di intrattenimento che come riflessioni sul presente.

Credo invece che nella fantascienza l’immaginazione abbia un ruolo soprattutto dialettico: immaginare l’esperienza è cruciale per essere più preparati alle conseguenze del cosiddetto progresso, dell’evoluzione tecnologica. Soltanto chi pensa astrattamente non riesce a vedere che la distopia è semplicemente un altro modo per indagare l’umano e la sua esistenza nel qui e ora, presentando una nostalgia che viene dal futuro. Viene da pensare che sul rapporto tra umani e replicanti aleggi sempre un po’ la domanda “Chi siamo davvero? E cosa è umano al di là della specie?”.

E se Ecuba fosse stata una replicante?

C’è qualcosa nella fantascienza di questo tipo che mi ricorda vecchie domande e antiche inquietudini. Al di là delle macchine, e dei replicanti, il fatto che in un film di questo tipo si guardino degli attori in carne e ossa recitare la parte di androidi che forse provano dei sentimenti, la cui autenticità passa per una semiotica riconoscibile che provoca in quegli stessi spettatori in carne e ossa delle reazioni nei confronti di attori che recitano la parte di replicanti… mi dà l’impressione di sentire una variante, della domanda di Amleto: Chi sono io per Ecuba? E chi è Ecuba per me? Non so voi, ma a me è dispiaciuto un po’ quando K uccide l’allevatore all’inizio del film e tutto comincia a farsi ambiguo e il fatto che Deckard e K siano degli androidi diventa quasi irrilevante di fronte al dilemma della possibilità che possano essere terminati: chi è K per me e chi sono io per K? L’empatia assume un ruolo cruciale non solo nella storia ma soprattutto nel rapporto che si instaura tra gli spettatori e i personaggi.

Mi viene in mente il passaggio di una filosofa sul concetto husserliano di empatia:

L’esigenza di fare necessariamente ricorso all’empatia trae origine dalla peculiarità unica di quel corpo vivente di alludere, esprimere, dare a intendere una psichicità senza che però essa si manifesti e si offra mai “in carne e ossa”. L’inaccessibilità della vita psichica dell’altro, in cui si sostanzia la sua irriducibile alterità e trascendenza, rende perciò impraticabile un’esperienza diretta, immediata e originale dei suoi vissuti costringendomi a ricercare un accesso indiretto, cioè mediato dalla sola cosa che dell’altro mi si offre in percezione: il suo corpo. Dato che infatti non mi è possibile vivere ciò che vive l’altro, sentire quello che sente lui, pensare i suoi pensieri, patire le sue passioni ecc., e cioè procurarmi un’esperienza percettiva di ciò che inerisce alla sua interiorità, dovrò intenzionare tutto questo indirettamente, ossia a partire dalle manifestazioni esteriori del suo corpo, che esprimono e in cui, si può dire, si incarnano quei vissuti. (Giulia Tossici, Empatia, in Voci della fenomenologia (Lithos, 2007, pp. 140-141))

E cosa facciamo, al chiuso di una sala, se non guardare dei corpi mediati da uno schermo che simulano per far sentire allo spettatore quello che i loro personaggi sentono, pensano, percepiscono?

Perché se le lacrime di Freysa (quando viene uccisa una replicante di fronte a lei, che è poi la copia di Rachael) sono vere nella finzione del film, e se i replicanti provano empatia, e se è vero, come dicono gli ingegneri che lavorano sull’intelligenza artificiale oggi, nel nostro mondo reale, che è praticamente ancora molto molto lontano dal potersi realizzare, oggi, un essere come Freysa o anche solo come Deckard, per tutta una serie di problemi tecnici, allora quello che stiamo vedendo sullo schermo è solo un pretesto per parlare di noi. Di noi, capito? Proprio di noi umani. Del fatto che, a forza di cercare di creare macchine simili a noi, non cerchiamo di far altro che creare un altro noi (Noi si chiama anche un classico della fantascienza russa di Evgenij Zamjatin). Del fatto che è da quando è comparso un libro come i Gulliver’s Travels (per non andare ancora più indietro) ci si chiede se gli umani siano davvero una specie così evoluta e degna nell’universo. (Stando a quello che si vede in molti film e si sente dire in molta letteratura, pare di no… ma il dibattito è aperto).

Il mondo è molto più tristo (proprio così)

Blade Runner 2049 riparte da questa premessa ma aggiunge qualcosa che oggi è sotto gli occhi di tutti (cioè che il mondo è messo molto male, chi non lo vede è perché proprio non gliene importa niente) con una patina di grande, anzi,  grandiosa amarezza, dal punto di vista scenografico, per quello che il mondo potrebbe diventare e per come probabilmente diventerà. La visione del progresso non era mai stata così cupa dai tempi di Brazil di Terry Gilliam (beh, anche District 9 è bello tosto). Eppure i progressi fatti nella realtà sono oggettivi e indubitabili: la vita, nei paesi affluenti e anche in quelli più poveri, è davvero migliorata molto, si campa fino a 100 anni, è diminuita la fame nel mondo (in media…) e la tecnologia ci sta aiutando tutti a diventare migliori, in molti paesi è addirittura diminuito il tasso di omicidi a livelli senza precedenti. Si vive meglio, quindi, come dice anche Stephen Pinker. O no? Eppure, le inquietudini non cessano, anzi sono le peggiori di sempre: Elon Musk dice che l’intelligenza artificiale metterà a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’umanità e serve cautela. Non solo perché le macchine abiteranno con noi, conviveranno con noi, interagiranno con noi, e ci terranno compagnia e magari risponderanno pure a tono quando ci si comincerà a fare conversazione e ci si innamorerà e si penserà di essere come loro (in Lei di Spike Jonze il tema è persino elaborato al punto da offrirci un trattato di fenomenologia dei sentimenti al tempo della tecnocrazia) ma perché noi stessi saremo parti delle macchine, e sarà sempre più difficile starne lontani, come già accade ogni giorno, quando ci sentiamo male perché il computer si è rotto o lo smartphone ha smesso di funzionare. [1] Si può evitare di sentire qualcuno al telefono anche per un anno, a volte due – ma guai a dimenticare di aggiornare il software per ricevere i feed su persone di cui forse non vedremo mai nemmeno la faccia dal vivo. In queste condizioni generali, se mi dispiace per K nel film anche sapendo che è un androide è perché forse ci sarà sempre bisogno di trovare umanità anche dove non si suppone che vi sia.

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L’inorganico ha preso il posto della natura e assomiglia a un’enorme distesa di tombe

Il termine “umano”

E quindi, come nel bellissimo Wall-E, il mondo potrebbe essere non solo un immenso mondezzaio di detriti metallici, elettronici, plastici, chimici ma anche un deserto in cui cadrà il confine tra rapporti artificiali e rapporti umani.  È interessante che il termine umano si possa intendere in due modi: umano in quanto specie, contrapposto ad animale; umano in quanto aggettivo, connotazione di una qualità intrinseca alla specie e ai suoi comportamenti innati contrapposto a disumano, crudele. Che cosa potremmo inserire nella memoria artificiale di una macchina se non la proiezione del nostro immaginario, il nostro linguaggio verbale, la nostra costante necessità di riconoscerci in un simile? Wall-E è la nostra proiezione, la nostra Ecuba, così come K, come Deckard, e come E.T.

C’è un racconto bellissimo di Ted Chiang, The Great Silence, in  cui un pappagallo domanda agli umani perché abbiano costruito un grande orecchio tecnologico per udire nell’universo la voce degli extraterrestri, e abbiano invece rinunciato ad ascoltare le loro voci. “We’re a nonhuman species capable of communicating with them. Aren’t we exactly what humans are looking for?”  Villeneuve aveva diretto un altro bellissimo film di fantascienza, Arrival, tratto sempre da un racconto di Ted Chiang (Story of your life) uno scrittore che lavora nell’industria informatica e la sa lunga sull’interazione uomo-macchina. Arrival e Blade Runner 2049 fanno parte di una categoria che alcuni chiamano “fantascienza umanistica”, in cui l’apparente nichilismo del secondo funge da campanello d’allarme contro un nichilismo ben più pericoloso che è quello in cui sembra versare la società odierna, fatto di aggressività verbale fine a se stessa, propagazione del falso, avidità sconfinata, povertà crescente, erosione dell’ecosistema, accumulazione di detriti. Vi piacerebbe vivere in un mondo così, con gli alberi rinsecchiti, le città immondezzaio, il sole sfocato, l’aria irrespirabile, il controllo totale, gli animali che quasi non esistono più (nel romanzo di Dick è così)? Un mondo, però, dove quando entri in casa c’è un ologramma di ragazza che ti aspetta e ti consiglia tante cose graziose cambiando outfit ed espressione per adempiere al suo ruolo di macchina? Un mondo in cui degli ologrammi molto belli e rutilanti fanno la pubblicità all’ennesima bevanda frizzante e danzano immateriali tra il traffico puzzolente di una città che è un cumulo di rovine tecnologiche?   

L’ambiente è una macchina inospitale per gli umani

Per come la scenografia trasmette sensazioni e crea una percezione del mondo, Blade Runner 2049 è film nonostante tutto umanistico (come lo era Arrival, in cui la protagonista è una linguista!) perché mancano gli umani e quelli che ci sono appaiono tristissimi e spersonalizzati. Per quanto disumanizzato appaia lo scenario, il replicante finisce per occupare un posto lasciato vuoto, un’assenza: ma dove sono gli umani e come sono ridotti? E per quanto le memorie siano fabbricate e impiantate, e il dolore espresso all’interno della semiotica che gli umani hanno creato per le macchine, è il replicante che resta depositario di un desiderio di unicità che lo salvi dal “non essere”. La trama esigua del film punta l’attenzione su una cosa importante: la speranza di K di essere qualcosa di diverso da come hanno deciso per lui, migliore, forse, autentico (non vorremmo essere tutti diversi da come hanno deciso per noi?). E l’antico tema della quête, tradizionalmente usato per caratterizzare l’eroe e le sue gesta, trova nel film il vicolo cieco della delusione, dello scacco, della sconfitta. K non è l’eletto, K è soltanto un altro dei tanti bravi androidi che lavorano e portano a casa il risultato. Anche la sua ostinazione a salvare Deckard è debole, quasi pretestuosa, nell’economia della trama, e tuttavia dimostra un’integrità derivante dalla speranza, dall’aspettativa, fino all’ultimo.

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Una scena del film: K. arriva in un’immensa discarica di detriti tecnologici e metalli abbandonati
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Discarica in India, dal video MissioneSwatchBharat

L’androide è la proiezione di noi in un mondo massacrato e abbandonato, disseminato di oggetti che possono essere rigettati, terminati; chi potrebbe vivere in un mondo così se non le macchine? L’immensa distesa di bandoni, di depositi, di pannelli solari per acchiappare la luce che filtra da un’atmosfera rossastra, offuscata, polverosa è la versione della nuova fabbrica, svuotata di esseri umani (operai) e consegnata all’immensa grandezza della costruzione sufficiente a se stessa, spettrale e spettacolare, orrenda e onnipervasiva. L’ecosistema è diventato un “tecno-sistema” dove il confine tra umano e artificiale non è nemmeno più un problema ma una realtà talmente evoluta che sono le macchine a prendere coscienza, dimostrando di aver imparato a reagire.

Blade Runner 2049 fa un salto in avanti, rispetto al film che lo aveva preceduto in quanto affida alle macchine quello che gli umani hanno dimenticato: il bond (il legamee la capacità di mentire per salvare qualcosa, per restituire dignità a ciò che per status non potrebbe averne. Gli umani hanno creato delle macchine indistinguibili da se stessi a tal punto da essere diventati loro le macchine che credono nel controllo totale mentre gli androidi hanno preso coscienza della possibilità di esistere autonomamente, potendosi riprodurre, potendo soffrire, mentire, scegliere.

C’è una scena che mi ha colpito per la semplicità con cui il replicante K entra nell’ufficio di polizia ed è ovviamente indistinguibile dagli umani; mentre cammina lungo il corridoio, viene insultato dai colleghi umani che ovviamente si sentono superiori a lui e gli lanciano vari epiteti a cui K, essendo (presumibilmente) privo di sentimenti e di interiorità, non risponde, mentre se ne sta andando dritto a sottoporsi al test di attendibilità. Proprio l’androide, che fa il lavoro più schifoso di tutti e il più riprovevole, se si vuole, quello che solleva gli umani dal lavoro di basso livello è anche quello che viene insultato per questo, ricevendo l’epiteto: “pelle artificiale”. Sembra proprio che gli umani non cambino mai. Vuol dire qualcosa se come spettatori ce ne accorgiamo?

La profezia di Beckett (Samuel, per chi non si ricorda)

A parte il senso di desolazione che circonda tutto il film e non risparmia niente, è interessante che la presenza della tecnologia (gli ologrammi nel caos metropolitano, l’intelligenza artificiale, i cartelloni digitali da cui si ordina il cibo, i luoghi pubblici che sono un tutt’uno con la metropoli e i suoi spazi rimescolati, l’immondezzaio a cielo aperto e il riassemblaggio dei rifiuti, l’archivio dove si conservano le memorie digitali, l’immenso orfanotrofio fabbrica in cui lavorano i bambini tra i quali K va a cercare il suo passato) non abbia niente di glamour o di affascinante ma sia soltanto un cliché (di grandissimo livello tecnico) per creare delle interazioni artificiali in un mondo che è simulacro di rapporti. Il gran lavoro sulla scenografia fatto da Roger Deakins trasmette una visione del mondo agghiacciante e si discosta molto dall’idea trasmessa nel Blade Runner di Scott. I giganteschi ologrammi disseminati per la città, simulacri di luce artificiale in un mondo che è completamente fucked-up, scenario cupo di un’umanità desolata, sembra confermare una visione alla Beckett, che aveva capito tutto quando scrisse Finale di Partita e Lo spopolatore perché il colore dominante del mondo sarebbe stato il grigio. La desolazione è ancora più marcata quando si vede che la ragazza che forma i ricordi per i replicanti, isolata in una cupola di cristallo, che non può interagire con il mondo esterno, sta fotografando degli scarabei sulle foglie di un albero, circondata da un bosco lussureggiante, che in realtà è solo una proiezione, l’ennesimo, ingannevole simulacro del mondo come non è più.

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Il bosco è un simulacro

Di reale restano solo gli immondezzai, le gigantesche immense discariche fuori dall’orfanotrofio. Lo scenario che si presenta allo spettatore è di un’immensa discarica di metallo, non dissimile da quelle che si vedono in certe aree dell’India o dell’Africa (tra le altre), dove i rifiuti, soprattutto elettronici, del nostro mondo affluente finiscono dimenticati, occultati, rimossi alla nostra vista.

Empatia e interiorità

È vero, il film è molto meno affascinante di Metropolis di Fritz Lang e persino meno struggente di Intelligenza Artificiale di Spielberg che aveva messo insieme Pinocchio (già di per sé crudele) e un racconto come Super-toys Last All Summer Long di Brian Aldiss. In questo Blade Runner, la questione dell’interiorità è tutta sottintesa: sia K che Deckard sono consapevoli di vivere in un mondo insostenibile e lo sanno anche se sono senz’anima, perché sono dei replicanti. Quando K arriva nell’albergo abbandonato dove vive Deckard, sembra di entrare in una scena de La nube purpurea (Mattew Shiel) un romanzo di fantascienza terribile in cui un uomo resta solo sulla Terra dopo che una catastrofe ecologica ha ucciso tutti e si trova padrone degli oggetti e di un’abbondanza ormai inutile nelle circostanze in cui si trova a vivere. Il deserto che circonda Deckard e l’albergo fantasma, in cui vive sono sicuramente meglio dell’orribile tecnocrazia di metallo e codici alfanumerici in cui è stata ridotta Los Angeles e per sineddoche tutto il resto del pianeta, luogo peraltro altamente pericoloso per quelli come lui (che nel finale fuggiva con Rachael, mentre nel director’s cut il finale è diverso). E’ il mondo degli oggetti abbandonati, delle merci avanzate, delle cose ormai inutili, delle ombre che hanno abitato quei luoghi ridotte anch’esse a ologrammi del tempo che fu. All’interno di questo luogo abbandonato, i fregi, i banconi del bar, la bottigliera, i tavoli e la sala per gli spettacoli sono quasi intatti ma conservano l’angosciante atmosfera di luoghi della nostalgia. Si potrebbe dire che tutta la fantascienza è un’immenso serbatoio di nostalgia che fa da ponte tra futuro e passato. Durante la scena di colluttazione tra Deckard e K, gli ologrammi di Elvis Presley e di un musical di Las Vegas appaiono e si dissolvono tra gli scricchiolii mentre la melodia struggente di Can’t Help Falling in Love si dispiega, scricchiola, gracchia, si dissolve e ricomincia mentre la violenza in primo piano è quasi un diversivo rispetto alle immagini che vorremmo vedere ma che sono ormai frammenti. Deckard è un uomo duro e ostinato, versione infelice del vecchio detective hard-boiled e quando parla, amaramente, dell’abbandono della figlia, dice la frase più bella del film: Sometimes, in order to love someone, you have to be a stranger.

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Frank Sinatra nella “fortezza della solitudine” di Deckard

E straniante è anche la stanza dei cimeli nella quale K si aggira: una biblioteca con libri di carta veri, un tavolo pieno di oggetti, quadri a olio, una teca nella quale un ologramma di Frank Sinatra canta “Summer Wind” and “One For My Baby” consegnando il futuro all’immagine di un passato che persiste come un’ectoplasma, un ologramma, appunto.

Tutto questo per dire che Blade Runner 2049 è un film di fantascienza adatto alla nostra visione del futuro: un futuro orrendo,  perché modellato sulle ansie più profonde che ci assillano anche quando non ci pensiamo. Villeneuve ha realizzato un film che introduce un senso di nostalgia per un’idea stessa di futuro che rende il presente un posto migliore, un posto a cui affezionarsi, da tenersi stresso perché se il futuro è un posto e uno stato d’animo tanto desolato come quello nel film, persino la memoria consegnata con file e ologrammi può essere più rassicurante e ci può fare da monito a un futuro in cui la realtà è tutta frammentaria: la città non è tanto rutilante, quanto un immenso mondezzaio umano e metallico dove si vive indistinguibili. La campagna non esiste più ma tutt’al più è  un avamposto che sembra uscito dallo scenario di Stalker dei Fratelli Strugatskij (il film fu realizzato da Tarkovsky). La domesticità della casa è fatta di oggetti e simulacri che non hanno calore e mai potrebbero averne (molto bella e triste la scena di intercorso amoroso tra K, l’AI Joy e la prostituta, una variante molto visiva e molto poetica del ménage à trois ma molto immaginifica e difficilissima da realizzare senza cadere nel cliché).  Tra i pochi elementi che connettono il mondo di un tempo con il mondo di questo tempo è un libro sul tavolo di K: Pale Fire di Vladimir Nabokov che Joy cerca di sfogliare nella reiterazione di un gesto quotidiano che appare vuoto, quasi irrilevante. A un certo punto ologramma e replicante sembrano interagire come umani ma lo spettatore è avvertito: in un mondo artificiale l’umanità è una simulazione basata su segni, comportamenti, prossemica o una vecchia abitudine che si propaga anche per non perdere la memoria di quello che eravamo, protraendo nel tempo un modello di comportamento che è solo un pattern scaturito da un’interazione di algoritmi.

 

 

 

[1] Tempo fa mi è capitato di buttare via un vecchio computer e ho provato nostalgia perché ho ricordato tutte le cose che ci avevo fatto, i pezzi di memoria personale e lavorativa che gli avevo affidato, i giorni felici in cui l’avevo usato. Quella cosa era diventata parte di me e ora me ne stavo sbarazzando. Non si smette di essere umani, nemmeno quando si provano imbarazzanti sentimentalismi nei confronti di una macchina.


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