Detroit di Kathryn Bigelow

È curioso che tra i film che ho visto quest’anno, il più bello sia stato fatto da una donna e sia dedicato a un episodio di brutale violenza poliziesca durante le rivolte razziali di Detroit. Con un 5 percento di registe a Hollywood, il fatto che una minoranza parli di un’altra “minoranza” è quasi paradigmatico del meraviglioso mondo in cui viviamo. Dopo Selma di Ava Du Vernay (un’altra rarità) e una colonna sonora bellissima (come era stata quella di Selma), il film parla alla testa e colpisce al cuore con una forza che pochi film nella storia del cinema impegnato riescono ad avere. Detroit è narrazione filmica pura e denuncia politica senza retorica, coeso e rigoroso dal punto di vista tecnico, colto senza ostentazione – bel lavoro quello dello sceneggiatore Mark Boal – emotivamente impegnativo e coinvolgente anche per chi non ne sa molto sull’episodio in questione. La tensione che provoca è potente e la risposta emotiva pari soltanto a quella suscitata da certi romanzi come Native Son di Richard Wright e Invisible Man di Ralph Ellison, dei quali ho trovato tracce misteriosamente disseminate nel film come echi di un linguaggio persistente e universale, un messaggio per tutti noi come persone e non solo come epidermidi. (Quando in una scena importantissima, il poliziotto chiede a uno dei fermati dopo il pestaggio di guardare il cadavere di una delle vittime e quello risponde terrorizzato: Non vedo nessuno, mi è sembrato di sentire l’eco del protagonista di Ellison che si definisce invisibile non perché sia trasparente, ma perché gli altri non vogliono vederlo).

Bigelow ottiene tutto questo giustapponendo immagini di repertorio e ricostruzione filmica per raccontare non solo i cinque giorni di rivolta che misero a soqquadro la capitale dell’automobile e della musica soul, ma soprattutto per raccontare un episodio tra i più brutali nella storia americana recente, ricostruito da John Hersey nel 1968 nel suo libro The Algiers Motel Incident dove vennero uccisi tre ragazzi neri a colpi di fucile durante un’irruzione della polizia per cercare un fantomatico cecchino e una pistola che avrebbe dovuto sparare i colpi. Basandosi sulla ricostruzione di Hersey (che vinse un premio Pulitzer) e sui documenti dell’epoca, Bigelow traccia gli eventi nella maniera il più accurata possibile, dichiarando espressamente di aver integrato la cronaca con la ricostruzione sceneggiata dei dialoghi in alcune scene. Il film segue la storia della rivolta, l’episodio dell’hotel e il processo che seguì, dal quale i poliziotti responsabili uscirono non colpevoli (ma mai reintegrati in servizio).

Cinquant’anni dopo questo episodio, e nell’attualità dei brutali interventi di polizia a cui abbiamo assistito nelle cronache dagli Stati Uniti in questi mesi (e non solo), il film apre ancora una volta uno squarcio sulla violenza e sul tema delle differenze razziali che ancora affliggono  la società americana. E lo fa con un film che descrive molto bene non solo la tensione di quei giorni, ma l’idea che negli Stati Uniti la guerra fosse fuori e dentro casa, soprattutto con una scena emblematica in cui i carri armati irrompono tra le strade e la polizia si comporta come le truppe di occupazione in un territorio da sottomettere.

Con i suoi 43 morti, centinaia di feriti, migliaia di arrestati, incendi e devastazioni che ammontarono in danni per qualcosa come 50 milioni di dollari la rivolta di Detroit fu la terza peggiore nella storia americana, dopo quella di New York del 1863 e i riot di Los Angeles del 1992. Nel 1967 la città era la capitale dell’automobile, sede della Ford nonché centro della musica soul, con l’ascesa della Motown records; una popolazione afro americana che raggiungeva il 40 per cento dei residenti e una polizia al 95 per cento composta di bianchi. Gli Usa erano già in Vietnam; uscirà nel 1968 su Life Magazine il reportage sul massacro di My Lai in Vietnam, una cosa che incise profondamente sulle coscienze e che aprì una fase di indignazione e di proteste sociali, ma anche di film in cui la violenza cominciò a essere rappresentata con un iperrealismo senza precedenti (Gangster Story e Blue Soldier ne sono un esempio; seguirono The Wild Bunch di Sam Peckimpah). Il paese stava attraversando un’ondata di tensioni politiche che erano già cominciate all’inizio del decennio quando l’azione politica di Malcom X e Martin Luther King era entrata in un discorso pubblico che l’establishment non poteva più ignorare. (Malcolm X viene ucciso nel 1965, all’epoca dei riot del 1967 King era vivo, verrà ucciso nel 1968).

(Spoiler alert! Da qui in avanti ci sono elementi della trama).

L’episodio con cui si apre il film, tuttavia, non allude all’azione politica dei leader afro-americani storici ma mostra una città operaia immersa nelle tensioni razziali, una pentola sotto pressione pronta a saltare, con una polizia autoritaria e razzista, e un controllo del territorio mirato alla repressione sommaria. Durante una festa in un locale non autorizzato in un quartiere abitato da neri, la polizia irrompe brutalmente (il termine in gergo locale è “blind pig”), sgombra il posto, raduna le persone e le carica sui cellulari, mentre in strada la folla comincia ad agitarsi, viene lanciata una molotov, distrutte le vetrine di un negozio, e poi di altri; iniziano i saccheggi e le devastazioni che vanno avanti tutta la notte e il giorno dopo, nonostante i tentativi di alcuni attivisti neri di placare gli animi e chiedere di cessare le violenze con scarso esito (dalla folla qualcuno urla “Mandateci Stokely Carmichael!!” il padre del Black Power). Sono giorni di fuoco, letteralmente e metaforicamente.

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In città viene inviata la guardia nazionale del Michigan e la polizia di stato a pattugliare il territorio, saccheggi e furti sono ovunque; le stazioni di polizia sono piene di sospettati e di arrestati; viene dichiarato il coprifuoco.

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Foto tratta da un frame di un filmato intitolato Detroit 1967 Riot, reperibile qui

Dalle foto e dai filmati dell’epoca, che sono inseriti nel montaggio, lo scenario sembra un fronte di guerra e Bigelow è bravissima nel guidarci nel susseguirsi degli eventi e nel culmine della vicenda, seguendo Larry Reed, un giovane cantante di rhytm and blues nel gruppo The Dramatics e il suo giovane road manager Fred Temple che vanno al Motel Algiers, non essendosi potuti esibire a un concerto perché è appena scoppiata un’altra rivolta, la città e a ferro e fuoco e devono trovare riparo da qualche parte.

Qui la ricostruzione drammatica segue la ricostruzione dei fatti come sono riportati nelle fonti. Nell’hotel ci sono due ragazze, Juli Hysell e Karen Malloy che si uniscono a un gruppetto insieme a Larry e Fred; ci sono anche Aubrey Pollard, un veterano del Vietnam che si chiama Robert Greene, e altri due. Nella scena della stanza con le due ragazze si preparano gli hot dog, si parla di John Coltrane e di razzismo bianco: la violenza degli scontri è pervasiva e si respira nell’aria ovunque. A un certo punto Carl Cooper spara dei colpi con una pistola a salve in direzione della guardia nazionale. Si scatena il panico tra le fila di polizia e guardia nazionale che, a loro volta, sparano a raffica sul motel per poi entrare brutalmente alla ricerca di quello che credono sia un cecchino. In “Algiers Motel Incident, Detroit: Five fast facts you need to know” D.S. Levine ricostruisce alcuni fatti importanti che gettano luce sul lavoro della regista e aiutano a capire il film: per esempio Carl Cooper, ammazzato da colpi di fucile, fu trovato proprio vicino alla porta e nessuno fu accusato. I testimoni, Greene, Hysen e Malloy dissero che la polizia aveva colpito a sangue freddo e che dopo aver sparato a Cooper, tutti vennero messi in fila, faccia al muro e minacciati. A una delle ragazze vennero strappati i vestiti e le venne urlato “ni**er lover”. Melvin Dismukes, una guardia giurata che sorvegliava un negozio lì vicino, arrivò sul posto proprio mentre la polizia aveva messo tutti in fila e cominciato le vessazioni. In seguito l’uomo venne arrestato e portato a processo, insieme ai tre poliziotti, Paille, August e Senak e poi ritenuto non colpevole. La polizia non fece mai rapporto sugli ammazzati, dichiarando di aver agito per legittima difesa; i corpi vennero trovati il giorno dopo da una guardia di sicurezza dell’hotel che denunciò il fatto.

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Scena del fermo nel motel

Da questo momento in poi, Bigelow ricostruisce la scena e cala lo spettatore in una tensione altissima, degna del thriller più micidiale ma, più che un thriller, la scena sembra quella di un film di guerra, genere che, tra l’altro, ha fatto vincere un Oscar alla regista (con The Hurt Locker) e di cui è diventata, in questi anni, una delle autrici più notevoli. Gli stilemi del cinema di guerra sono fortissimi anche nella scelta del montaggio che alterna filmati di repertorio e ricostruzione narrativa, nel rappresentare la violenza in maniera dinamica tenendo ben presente le immagini dell’epoca, nel crescendo di tensione nella scena dei poliziotti aguzzini di fronte ai loro prigionieri, nel mettere lo spettatore di fronte alla violenza senza compiacersene.

Girando le scene in soggettiva o in piano sequenza, questo tipo di regia coinvolge lo spettatore politicamente senza stratagemmi retorici, dedicando tutto il tempo necessario a dispiegare quello che è accaduto e come sia accaduto durante quella notte infernale. I poliziotti sono dei fascisti, i sospettati vengono umiliati, picchiati e feriti, lo stato di diritto non esiste più e dei diritti civili nemmeno a parlarne. Ancora peggio dei maltrattamenti è la profonda omertà della polizia di stato e i sotterfugi della guardia nazionale, la scelta di non intervenire della polizia statale, la connivenza generale e la cappa del razzismo di fronte a una società destinata a cambiare. Qualcuno ricorderà Diaz, guardando questo film. C’è un carattere molto coerente nella violenza del potere e dell’autorità, un carattere di odiosa coerenza che trascende i confini e gli spazi geografici, qualcosa di repellente che deve per forza essere documentato e ricordato, pena la complicità con l’omertà e l’indifferenza che troppe volte ci circondano. Ma in Diaz la componente razziale non c’è, cosa che invece pervade l’America con una linea invisibile e opprimente.

La parte apparentemente più “debole” del film, dedicata al processo subito dai tre poliziotti con l’intervento dell’avvocato e il verdetto finale della giuria, ha la forza di un film documentale che riporta in superficie il trauma dei protagonisti.

In sostanza, il film riesce a immergere ricostruzione fattuale e trauma del ricordo concludendosi con il giovane Larry che, finito il processo in cui è chiamato a testimoniare, invece di tornare alla vita normale, compie un atto di rinuncia assai più politico di quanto non appaia superficialmente. Terminati i tumulti, ripresa più o meno la vita quotidiana e ricevuta la proposta del gruppo di fare un’audizione per un contratto discografico, Larry preferisce rinunciare a quella società dello spettacolo imbricata con gli appetiti più beceri del mondo bianco e razzista; rinuncia, sostanzialmente, a diventare parte di un mondo che ha permesso quella brutalità e di cui lui sarebbe uno dei tanti cantanti che fa ballare le masse bianche. Se si pensa che le cose sono andate proprio così e che il vero Larry Reed è diventato il direttore di un coro in una Chiesa di quartiere invece di tornare nel gruppo e tentare la scalata al successo, è ben chiaro quanto siano state traumatiche le conseguenze e quanto sia stato importante sottolineare questo aspetto nel film.

Ma la sobria conclusione è molto meno amara di quanto non sembri, perché la rinuncia di Larry è un “No” che risuona con grandissima forza e coerenza morali, una negazione che lo trasforma in qualcuno che potremmo – e dovremmo – essere  noi. Si tratta di un messaggio di grande forza politica negli Stati Uniti, particolarmente rilevante oggi, dato il contesto marcato da una presidenza come quella di Trump, da un ritorno a divisioni economiche e sociali perniciose, a una coesione sociale ormai erosa da politiche economiche predatorie e da uno scandalo, come quello di Weinstein, che riguarda pesantemente la società dello spettacolo e il suo sistema di potere.  Ma a parte queste considerazioni soggettive, il film ha un’altra importante funzione, sottolineata da Bigelow con coerenza e sobrietà; la regista lo dice in un’intervista:

The world has kind of handed me a kind of microphone, not unlike yourself, and I feel like there’s a responsibility that comes with that. … And if I can somehow use this medium, the medium of film, to propel a conversation forward — you know, the purpose of art is to agitate for change. I’ve always believed that and I still do.


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