La neve di San Pietro di Leo Perutz

Quando la notte smise di tenermi prigioniero, ero una cosa senza nome, un essere privo di personalità, che non conosceva i concetti di “passato” e “futuro”. […] Sarebbe facile dire: galleggiavo nel vuoto, ma sono parole che non significano nulla. Sapevo solo che esisteva qualcosa, ma che quel “qualcosa” fossi io, questo lo ignoravo.

Si apre così La neve di San Pietro di Leo Perutz. Se non avete ancora letto uno dei suoi romanzi, vuol dire che quelli che conoscete e l’hanno già fatto non volevano far scoprire questo grande scrittore del fantastico e dell’onirico. A volte i lettori non vogliono rivelare i loro scrittori preferiti e se li coltivano in segreto. Io invece sono una spiona e mi piace condividere le letture che mi hanno entusiasmato di più e mi hanno restituito il piacere in questa valle di numeri, bollette e dati statistici che è ormai la nostra vita. E poi si avvicina il Natale e in questo periodo dell’anno, tra fiocchi di neve (dove cadono copiosi), venti freddi e alberi luccicanti, nonché desideri di cose lontane, leggere racconti del fantastico e del mistero è il massimo piacere festivo, come sapeva bene quel vecchio reazionario di Montague Rhodes James che il Natale gli piaceva passarlo a leggere racconti di fantasmi. Io, che sono meno posh ma sempre avida di storie immaginifiche, mi diverto con una bella pila di libri del soprannaturale, del mistero e del fantastico, tra cui ovviamente metto il mio amato Leo Perutz.

Leo Perutz è uno scrittore eccezionale e ogni suo romanzo è una sorpresa di trama e situazioni che fino all’ultima pagina lasciano il lettore estasiato di puro piacere della lettura. Nato a Praga nel 1882, studiò matematica attuariale e calcolo probabilistico; lavorò presso le Assicurazioni Generali di Trieste, una mansione simile a quella ricoperta da Franz Kafka. Affiancando l’attività di matematico attuariale (sviluppò persino una formula di equivalenza con il suo nome, utilizzata nel calcolo attuariale) con quella letteraria, Perutz ottenne un notevole successo editoriale e di pubblico con i suoi romanzi, che ispirarono anche progetti cinematografici (i più recenti sono degli anni Novanta, tratti da Dalle nove alle nove e da La neve di San Pietro) e aggiungono una voce importante al ricco panorama della letteratura mitteleuropea e praghese, alle sue atmosfere oniriche, enigmatiche, spiazzanti e in ultima analisi inconfondibili. Le sue atmosfere e il suo espressionismo affascinarono anche Friedrich Murnau, che cominciò a lavorare a un progetto per trarre un film da quello che per me resta uno dei più bei romanzi dello scrittore e forse uno dei miei romanzi preferiti in assoluto: Dalle nove alle nove. Leo Perutz lasciò Vienna ed emigrò in Palestina quando i nazisti si annessero l’Austria.

Leo Perutz

Perutz è un maestro del fantastico e dell’onirico e non c’è storia che non presenti elementi narrativi riconducibili a queste due cifre narrative, anche quando la Storia si interseca alle vicende personali dei personaggi, spesso affetti da problemi di ricostruzione temporale, menomazioni psicologiche, isolati apparentemente dalla temperie storica in cui vivono perché sempre sul confine tra soprannaturale, derealtà e sogno. Tempo di spettri, Dalle nove alle nove, Il marchese di Bolibar, Il Cavaliere svedese, Il maestro del giudizio universale… Ogni volta che esce un romanzo di Leo Perutz, corro in libreria a comprarlo, lo apro e cerco di centellinare la lettura perché ogni suo libro è, come si direbbe in inglese,  un page turner, non riesci a smettere di leggerlo, e vai tutto d’un fiato, correndo, cercando di trovare la chiave di lettura, cercando di capire perché accade quello che accade ammirando come le realtà, doppie o triple talvolta, si intersecano nello spazio narrativo. Gli strati del racconto e della fabula si intrecciano nella voce del narratore e la percezione che la scrittura limpida, lineare ed elegante che Perutz regala al lettore è quella della grande letteratura mitteleuropea, che trae ispirazione da Hoffmann e Kafka, ma anche dagli stilemi del romanzo poliziesco di cui ha scritto Krakauer e che Perutz interseca con la cifra onirica e lo sdoppiamento di realtà, la storicità degli eventi narrati da chi li ha vissuti e la possibilità che il narratore sia inattendibile. Alcuni di questi elementi si ritrovano nel cinema di Fritz Lang con Il dottor Mabuse, La strada scarlatta e La donna del ritratto e ovviamente nel cinema espressionista di cui parla Siegfried Krakauer in Da Caligari a Hitler.

Dopo aver letto praticamente quasi tutto quello che è uscito in italiano, comincio qui con La neve di San Pietro, in cui gli stilemi del detective novel si fondono con la cifra onirica e l’ansia della temperie storica in maniera imprevedibile e inedita. Uscito nel 1933 (edizione italiana di Adelphi, traduzione di Fabio Cremonesi e F. Bovoli) il romanzo inizia come un noir per trasformarsi in una grande metafora, all’apparenza laconica e sfuggente, sulla presenza inquietante della Storia che va colta nell’impianto narrativo stesso del romanzo e tra le righe dei dialoghi dei personaggi e della strana situazione in cui si trova il protagonista.

Friedrich Amberg, si sveglia in un letto d’ospedale incapace di discernere tra passato e futuro, in uno stato confusionale di ricordi frammentari, che si ricompongono lentamente. Tuttavia, sembra che nulla di ciò che ricordi sia attendibile:  il medico gli dice che è stato investito a Onasbrück da una cadillac verde, mentre attraversava la piazza e che si trova in ospedale da cinque settimane. Friedrich ha ripreso conoscenza ma non crede a una parola di quel racconto che non torna con i ricordi che ha. Tutto appare confuso, ingarbugliato, inquietante e la trama potrebbe prendere qualsiasi direzione fino a quando non appare un infermiere che Friedrich riconosce come Arkadij Fëdorovič, un russo conosciuto in altre circostanze che però sembra far finta di non riconoscerlo. L’uomo è davvero quello che Friedrich crede di ricordare? Oppure è solo un infermiere che assomiglia al suo ricordo? Tra le brume della memoria che piano piano si dissipano, Friedrich ricorda anche una donna di nome Bibiche, alias di Kallisto, di cui è inequivocabilmente innamorato e che sembra avere un ruolo nelle strane vicissitudini che sembrano averlo portato a questo punto strano, inspiegabile.

In realtà Friedrich è un medico che viene assunto nel piccolo paese di Morwede, dove lo strano barone von Malchin, un ragazzo ombroso e misterioso di nome Federico, un assistente russo dagli atteggiamenti bizzarri e dalla parlantina facile lo accolgono al suo arrivo per introdurlo fin da subito nella comunità contadina sulla quale il barone ha mire un po’ speciali, perché sta tentando di realizzare un progetto di controllo sociale attraverso una droga chiamata neve di S. Pietro, che assomiglia all’Lsd (e come questa è tratta dall’ergot dei cereali) , da somministrare ai suoi compaesani per riportarli a quella fede in Dio che sembrano aver perduto. Ma quando tutto sfugge di mano e strani accadimenti si verificano nella vita di Friedrich a Morwede, l’ombra di un pericolo incombente o semplicemente di un delirio collettivo sembrano portare le vicende a qualcosa di più sinistro che Firedrich ripercorre mentre è convalescente. E se le vicende fossero solo immaginarie? Se nulla fosse accaduto e tutto fosse un delirio di Friedrich? Chi sono davvero il barone von Malchin, Bibiche, Arkadij e tutti gli abitanti del paese? Fino a che punto la neve di San Pietro può coronare il sogno folle del barone?

Inaspettato, imprevedibile, onirico ed elegante come tutti i suoi romanzi, La neve di San Pietro non è l’opera più soprannaturale di Leo Perutz, e tuttavia ne conserva l’atmosfera nelle descrizioni dei luoghi e nell’atteggiamento sfuggente dei personaggi che sembrano confinare, per impianto e carattere, a quelli di un noir più che di un racconto del mistero. La piccola comunità di Morwede è avvolta nelle coltri invernali di brume e neve, la nebbia confonde i paesaggi; i personaggi hanno una doppiezza che rende il protagonista cauto e diffidente; la sostanza che si chiama neve di San Pietro può diventare un’arma potente o forse soltanto l’innesco di un disordine sociale imprevedibile.

I tipici stilemi del doppelgänger, lo scambio di persone, la sovrapposizione di realtà parallele, che nei precedenti romanzi Perutz aveva consegnato al registro del fantastico puro, sono riportati a una narrazione più realistica e tuttavia angosciante che fa confinare tutto questo romanzo con un noir come lo avrebbe potuto immaginare Fritz Lang , uno stile più adatto alla temperie culturale e storica nel quale La neve di San Pietro vide la luce. È necessario ricordare che il libro uscì nel 1933 e che l’idea di una droga che riporti gli uomini al vaticinio della fede è il preludio a quella che chiamerei con un’apparente contraddizione “la presenza assente” del cupo controllo che stava incombendo in Europa in quegli anni. Il finale del libro spiazzerà anche il lettore più scaltro che tentasse la più plausibile delle interpretazioni, mentre l’oscuro destino che stava incombendo sulla Germania si cela nelle pieghe degli sguardi interrogativi e nel silenzio dei personaggi che accompagnano la vicenda di Friedrich nel finale, ancora più noir di come era iniziata.

E con il noir questo romanzo condivide alcuni elementi che il cinema saprà impiegare molto bene: la sfuggente e perturbante figura femminile, i presentimenti del protagonista e la sua memoria frammentata, la presenza di figure controverse e oscure, una comunità che sembra sapere qualcosa ma appare reticente, il tentativo di ricostruire gli avvenimenti, l’atmosfera livida e in chiaroscuro dei luoghi che fa da contraltare all’opacità dei personaggi. Gli elementi narrativi si intersecano lungo la trama e lasciano intravvedere strane e misteriose connessioni tra gli eventi e la possibilità che tutto possa ricomporsi in maniera plausibile per il protagonista.

Attraverso un impianto narrativo che rende la voce narrante talvolta inattendibile o a tratti fallace, il lettore viene preso nella storia tenendo conto che la realtà e i personaggi possono avere una doppiezza che lui stesso non riesce o non sa cogliere, ammesso che sia così; e ci sono sempre elementi misteriosi che collegano i fatti e lasciano supporre connessioni tutt’altro che casuali. Il teatro delle ombre che la letteratura e il cinema mitteleuropei del periodo espressionista ci hanno dipinto tanto bene, cogliendo acutamente l’atmosfera cupa e incombente della storia e la natura ambivalente dell’umano di fronte ad avvenimenti inarrestabili, conosce con Leo Perutz una dimensione narrativa in cui l’elemento onirico e lo sdoppiamento della realtà è nello sguardo dei personaggi e nella percezione che sviluppano, proprio come accade nel sogno, che la dimensione letteraria, e ancor più cinematografica, riescono talvolta a far emergere in maniera dirompente.

Concludo con le parole del protagonista che si risveglia nel letto d’ospedale e, a un certo punto della storia, dice alla sfuggente donna di cui è innamorato:

Ciò che si possiede in sogno, nessun nemico al mondo può sottrarlo. Soltanto il risveglio avrebbe questo potere, ma chi sarebbe mai così crudele da ridestare qualcuno dal suo sogno? (p. 73 edizione Adelphi)

Che con La neve di San Pietro Leo Perutz abbia voluto svelare l’ambivalente rapporto dell’individuo con il sogno come dimensione alla quale si desidera restare aggrappati ma che è necessario strappare per riconsegnare la realtà al suo vissuto ordinario può essere una possibilità di lettura del romanzo e il suo aspetto più ambiguo. Il sogno di Friedrich Amberg è il sogno di chi non vuol vedere o il sogno di chi non sa vedere? La realtà in cui vive è nella Storia o fuori della Storia? Sarà accaduto tutto quello che ha raccontato?


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