Da Cat People a Cat Person

Confesso di aver letto Cat Person di Kristen Roupenian per il titolo e per pura curiosità, senza sapere nulla di nulla. Fin dalla pubblicazione, e nel giro di pochi giorni, la ridda di commenti e interventi su Twitter e su vari altri social è stata senza precedenti per un racconto apparso su una rivista come il New Yorker. Da molti è’ stato scambiato per una storia vera, e inserito nel contesto del movimento MeeToo. Solo che si tratta di un racconto che non ha niente a che fare con una storia vera se non il fatto di descrivere le cose in maniera molto realistica e fattuale. Perché Cat Person non è una storia vera o il resoconto reale di qualcosa avvenuto per davvero; è semplicemente il racconto di una relazione sghemba e un po’ dissonante come se ne possono trovare e vivere a centinaia nella vita reale, che peraltro non aggiunge e non toglie niente allo squallore umano in cui a tutti è capitato di trovarci. Forse per questo ha toccato tante corde diverse nei cuori e nelle menti di chi lo ha letto, al punto da consacrarlo come un caso editoriale che chiuderà questo 2017, un anno che definirei volentieri distopico se non fosse che lo abbiamo vissuto attraverso le pagine dei giornali, i notiziari, e la quotidianità ordinaria delle nostre vite e quindi troppo reale nei fatti.

Un aspetto interessante del fenomeno Cat Person e del suo successo in termini di numero di lettori e commenti a latere, è che si tratta non solo del racconto di un’esordiente di cui non si sapeva nulla prima, ma che abbia rivelato una modalità di lettura rispetto a un tema molto quotidiano e molto ordinario (l’inizio di una relazione sentimentale o presumibilmente tale) la cui ricezione è stata influenzata fortemente da un nuovo tipo di ipersensibilità e in un modo che non era mai stato così viscerale. È curioso, se non bizzarro, che molti lettori abbiano letto Cat Person sotto l’influenza di fatti che con questo racconto non c’entrano molto, a mio parere, e questi fatti hanno a che fare con l’atmosfera generale determinata dal caso Weinstein con tutte le conseguenze che si è portato dietro, non ultima la riflessione sul consenso e sul potere nei rapporti di lavoro (qui in Italia il discorso sul tema è stato veramente all’acqua di rose e, in fin dei conti, ha dimostrato la pochezza umana di diversi personaggi pubblici, soprattutto maschili, e degli approfondimenti pseudo-culturali sulla società in cui viviamo, soprattutto in televisione). Da questo punto di vista, in Italia c’è molto da fare soprattutto per far svegliare questo paese ormai trasformato in una bella addormentata assuefatta alla mistificazione generale e alla distorsione della percezione collettiva di fronte a fatti e questioni che sembrano irrilevanti ma che dovrebbero essere inquadrati all’interno di una riflessione più approfondita e meno filistea di tutta la società. In questo contesto, appare fantascienza la possibilità che un racconto – e per di più di un’esordiente – pubblicato su una rivista elegante e intellettuale (ce ne sono ancora in Italia?) su una relazione sentimental/sessuale squallidina possa far parlare così tanto. Già si fatica a far leggere le persone più di un libro l’anno, figurarsi leggere e commentare un racconto che non contiene qualche attacco politico o non abbia qualche tendenziosità che funzioni al discorso dominante. Appunto, fantascienza.

Caso Weinstein a parte e congelando un attimo la questione dell’ipersensibilità del pubblico di fronte al tema dei rapporti tra eterosessuali nel contesto americano, la sorpresa del successo di Cat Person mi lascia davvero basita, tanto più ora che i diritti per una raccolta di racconti dell’autrice sono stati acquistati dall’editore Jonathan Cape per la modica cifra di quasi un milione di dollari. Roupenian, Cat Person, quasi un milione di dollari… Uau! Il mondo delle favole esiste per davvero e la fortuna è davvero una dea bendata. Oppure no, perché forse la fortuna non esiste e l’abbiamo soltanto sognata così per secoli perché all’umanità serviva un’allegoria per giustificare l’inspiegabile incrocio di eventi che possono manifestarsi nella vita di una persona, anche quelli che consacrano un racconto come Cat Person tra gli eventi letterari dell’anno 2017 che si sta concludendo. Forse il racconto della Roupenian coglie in pieno lo spirito dei tempi quando si tratta di sviscerare la tristezza delle relazioni interpersonali e soprattutto coglie bene un certo tipo di relazione in cui l’impossibilità di portarla avanti è qualcosa di banalmente squallido, trito, fattuale, appunto.

Chiariamo una cosa: metto da parte il discorso sul dibattito intorno a Cat Person, perché ho letto il racconto come qualcosa di essenzialmente letterario, prendendone sul serio l’intento finzionale. Ho letto il racconto come tale, osservandolo dall’angolatura del suo statuto narrativo, ossia come risultato di un processo creativo attraverso il linguaggio verbale per raccontare una storia. Cat Person, per me, è una storia e come tale andrebbe letto e analizzato. Certamente viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato se fosse apparso prima che scoppiasse il caso Weinstein e prima che si sviluppasse il movimento MeeToo e fossero palesi le oscenità meschine che quasi tutte le donne devono subire almeno una volta nella vita. Purtroppo è difficile non tenere conto del momentum in cui è apparso il racconto e della possibilità che sia diventato paradigmatico proprio per questo, trasformandosi in qualcosa che travalica il testo per invadere la sfera extratestuale, in ultima analisi, socio-culturale. Ma gli scandali sessuali e il discorso che si è sviluppato attorno ad essi non sono materia di questo racconto, ne costituiscono semmai il contesto sociologico. Perché Cat Person è la dissezione persino un po’ crudele e deprimente del tentativo di stabilire una relazione e di come questo tentativo finisca per cadere sull’acme della relazione stessa, ossia il sesso.

Detto questo, possiamo immaginare tanti tipi di relazione tra maschi e femmine e altrettanti tipi di racconti dedicati, così come film, pieces teatrali, poesie, ecc. ecc. Cat Person è un racconto sull’inizio di una relazione e non appartiene in nessun modo al genere (o sottogenere) sentimentale amaro, o passionale, o persino erotico. Se c’è una cosa che questo racconto raggiunge in pieno è di rendere il sesso tra i due protagonisti quanto di meno erotico si possa pensare e in un modo che lo abbassa fino a farlo finire in due caselle: sesso deprimente, relazione sconnessa. Cat Person è un racconto anti erotico, perché le descrizioni dell’intercorso, fattuali, realistiche, plausibili, persino capillari rendono la situazione grottesca e tristissima allo stesso tempo. Certamente ci si può sempre chiedere: e non basterebbe questo a renderlo pertinente dello stato di cose in cui viviamo e quindi appare del tutto giustificato che abbia sollevato tante reazioni? Confesso che risponderei con un secco no, perché le relazioni possono essere estremamente variegate, anche quando sono deprimenti. Tendo a pensare che ogni storia realmente vissuta sia unica nel suo genere, anche se può assomigliare a tante altre e ripetere comportamenti e pattern mentali comuni e somiglianti tra loro, nella realtà. Quando uscì I dolori del giovane Werther nel Settecento, l’ondata di suicidi, la moda della marsina blu e l’amore non corrisposto divennero dei modelli di comportamento: la società subì il fascino del personaggio e la profondità del suo scacco sentimentale e il personaggio ebbe una tale influenza sulle giovani coscienze da inaugurare una nuova modalità di comportamento, per l’appunto una moda.

Con Cat Person siamo agli opposti: non è la letteratura a ispirare una moda, è la modalità di comportamento sciatto e squallido del mondo di oggi a riversarsi sulla pagina, pretendendosi universalmente leggibile. Il pubblico dei lettori ha letto un racconto rispondendovi come se fosse una storia vera, una pezzo di vita vissuta, e ha reagito ai personaggi prendendone le parti, spaccandosi persino in una ridicola guerra dei sessi perché il racconto rifletterebbe presumibilmente il modo in cui si intessono le relazione ai tempi del dating e del texting. Margot, la protagonista, si trova a fare quello che a tante donne è capitato, mentre Robert, il protagonista maschile è un altro esemplare di maschio goffo, laconico e in fin dei conti sinistro perché non si sa nemmeno se i gatti che dice di avere li abbia davvero o se non sia un modo per attirare Margot nel gioco di texting (che problemi elevati, eh?). Ma questa lettura mi pare davvero riduttiva. Per me non c’entra il dating; mentre il texting è solo una modalità, ovviamente la modalità dominante dei nostri tempi, per iniziare a conoscere una persona. Ecco, molti lettori hanno detto: questo è il problema delle relazioni oggi. Da questo equivoco deriva la lettura di Cat Person: è un racconto definito relatable, ossia qualcosa in cui si ci può riconoscere, un’esperienza che si può riportare al proprio vissuto, fino al punto da definirlo addirittura “universale”. Ma universale per chi?

Comic catperson
Cat Person di David Willis, 2013, reperibile qui

La cosa che trovo davvero inspiegabile e anche tragicamente ingenua nel successo di questo racconto è la materia stessa di cui è fatto, la sua triviale ordinarietà e la qualità assolutamente irrilevante dei personaggi. Ma questo appartiene all’ordine del gusto personale e per chi ama i racconti con personaggi problematici se non addirittura i romanzi in cui si approfondiscono la psicologia, i comportamenti e gli eventi che li circondano, o racconti infiammati di passione e dolore (mi vengono in mente La prigioniera di Marcel Proust, ma anche un racconto struggente come Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto, di Elizabeth Smart; Addio Mr. McKenzie  di Jean Rhys, e anche – e qui vi sorprenderò assai – Nove settimane e mezzo di Elisabeth McNeill sicuramente più interessante di Cat Person) questo racconto sarà veramente come bere una tazza di caffè annacquato per qualcuno abituato a bere solo caffè di prima qualità. Perché i personaggi di Cat Person non sono soltanto poco interessanti, ma anche disastrosamente squallidi come squallida è la loro vicenda e il modo in cui si dispiega. Indubbiamente costruire un racconto riuscito con questa materia a disposizione non è cosa da poco.

In questo senso, Kristen Roupenian ha fatto quello che doveva fare e sullo stile non c’è niente da eccepire (ad eccezione del finale, che avrei articolato con maggiore eleganza, ma lasciamo correre) perché il racconto rappresenta bene le diverse situazioni, è scritto con eleganza, è quasi ineccepibile nella costruzione dei vari momenti, in particolare quando viene descritta la difficoltà di comunicare tra due persone che si conoscono poco e si crea quel baratro che tutti conosciamo e che si chiama silenzio imbarazzato – in sostanza è il compito perfetto di una scrittrice da scuola di scrittura creativa (che sono sicura piacerà moltissimo a quelli della Scuola Holden) e la struttura narrativa del suo racconto non fa una piega perché segue i criteri di costruzione, climax e anticlimax in maniera pedissequa ai criteri scolastici del caso. Che al New Yorker abbiano azzeccato per fortuna o per caso il momento giusto per far uscire questo racconto è irrilevante qui (magari un giorno si scoprirà che tutto il feedback suscitato dal racconto è stato orchestrato da qualche abile manipolatore, ma non credo) perché Kristen Roupenian non aveva scritto granché prima ed è una voce nuova nel panorama letterario (e dovremo vedere che strada prenderà). Per me è importante rilevare la qualità letteraria del racconto nel rimandare la storia al vissuto (la sua relatability) e capire se questa letterarietà indica che qualcosa di nuovo sta cambiando e, se ciò sia vero, che cosa sta accadendo al criterio stesso di letteratura.

Nell’ormai lontano 1988 David Foster Wallace, nel suo saggio “Fictional Futures and Conspicously Young Writers” (in Both Flesh and Not, Hamish Hamilton 2012aveva parlato di una generazione di scrittori (tra cui McInerney, David Leavitt, Easton Ellis, Janowitz) portati prima in palmo di mano dalla critica consolidata, ufficiale e poi liquidati con la stessa rapidità con cui erano stati esaltati, in quella che a Wallace appare una luna di miele finita male. Il saggio è una circostanziata indagine sul valore e sulla misura che la scrittura minimalista e ultraminimalista dei CY writers implica nel panorama letterario degli Stati Uniti, e sul tipo di rottura (se di rottura si può parlare) inaugurata dalla loro tecnica narrativa, profondamente influenzata dalle reazioni ambivalenti alla cultura di massa e alla catatonia della televisione (un tema che Wallace esplora magistralmente in Infine Jest, tra le altre cose). Nella generazione dei CY writers c’è anche l’incontro, scontro, confronto e critica degli scrittori giganti del Novecento che, nell’epoca postbellica hanno generato dopo il grande modernismo di Musil, Faulkner, Proust quello che Wallace chiama il “Manhattan Project” della letteratura postmoderna: Robbe-Grillet, Nabokov, Barth. Bourroughs, McCarthy, Coetzee solo per nominarne alcuni. I CY writers erano una generazione giovane (al tempo del saggio, l’età era tra i venti e i trenta anni da poco superati) fuoriuscita dalle scuole di scrittura creativa e profondamente connessi con il mondo in cui vivevano, agivano, scrivevano. Consapevoli del canone occidentale e dei suoi limiti critici, profondamente immersi nella cultura di massa popolare, figli di un’affluenza economica (gli anni di Reagan e Bush padre, della deregulation americana e dell’esplosione dello yuppismo, di cui un film come Wall Street dà piena testimonianza) e di un degagment ideologico che scivolava verso il nichilismo, erano figli della propria epoca come i poeti decadenti potevano esserlo della propria. Borsa, TV, soldi facili, città rutilanti e vuotezza esistenziale, conflagrazioni psicologiche dovute all’incapacità di stabilire rapporti esistenziali degni di nota (quale nota?), un uso della satira intinto di degrado morale e violenza efferata (come in American Psycho di Easton Ellis, per esempio) e tanta tanta scrittura virtuosistica un po’ fine a se stessa. Piacevoli da leggere, scorrevoli, a volte minimali, i CY writers sono stati i testimoni degli anni Ottanta come non mai.

Ho parlato di Wallace e del suo saggio per mostrare che una riflessione critica sulla scrittura e sulla letterarietà della scrittura è un passaggio fondamentale per chiunque se ne occupi, anche da lettore colto. Ma questo passaggio dovrebbe partire da criteri consolidati, scientifici, colti e non dai social media che vanno bene per comunicare a caldo ma meno bene per riflettere e analizzare. Certo, nel caso del saggio di Wallace era il 1988 e tutto viaggiava più lento; nessuno avrebbe immaginato, se non qualche grande veggente della fantascienza, l’epoca del linguaggio virale (ah sì, uno c’è stato: William Burroughs e la sua perla: Language is a virus) e dei micro commenti che rimbalzano di voce in voce, di telefono in telefono, in quello che sembra un enorme, gigantesco e spesso divertente open house collettivo in cui tutti parlano di tutto e nessuno ascolta bene quello che dicono gli altri. Nessuno degli scrittori citati da Wallace ha conosciuto una diffusione così rapida e immediata come quella di Cat Person e della sua autrice, peraltro intervistata pochi giorni dopo l’uscita del racconto, come se si trattasse di una figura affermata e nota al grande pubblico. Potenza dei social? Potenza dello scandalo Weinstein? Fame di novità? Un nuovo modo di immaginare la critica letteraria ai tempi dei social (qui anche il concetto di società di massa pare obsoleto)? Bisogno di qualcuno che ci spieghi che, sì, effettivamente, le relazioni a base di texting possono diventare un po’ fuorvianti e sicuramente deludenti perché come fai a conoscere una persona realmente in questo modo? Mi viene da chiedere: è davvero possibile, texting o non texting, conoscere davvero una persona nella vita usando gli strumenti scarsi a nostra disposizione?  Cosa significa stabilire una relazione? E come parlare di una relazione oggi che possiamo liquidare qualcuno con un messaggio via whattsapp? Che ruolo può avere la gelosia (se un ruolo può ancora averlo) nel discorso letterario senza scivolare nel patologico? Come è possibile oggi scrivere di una relazione sghemba in cui i personaggi rinunciano a quello a cui la letteratura ci ha abituato per secoli, ossia il versante psicologico, anche senza ricorrere al punto di vista interno o alla descrizione dei moti interiori del personaggio (cosa che, tra l’altro, sembra non andare più di moda)?

Cat Person non sembra porsi questi problemi, ma anzi procede spedito e straight to the point, come se i personaggi fossero due figure paradigmatiche del nostro tempo, due esemplari sociologici tipici del contesto in cui viviamo, con una piccola postilla, però. Robert, il personaggio maschile, esce veramente male dal racconto, consegnato non solo all’imbarazzo e al riso demolitore di Margot, ma anche come esemplare di maschio inadeguato tout court e non perché sia malvagio o crudele (la letteratura ci ha offerto personaggi ben più controversi e sulfurei di Robert e se per questo anche molto più interessanti, per esempio Heathcliff, Ragozin, Rastignac nell’Ottocento) ma semplicemente perché è squallido. In questo senso, Kristen Roupenian ha colto un aspetto trascurato dalla letteratura e ha portato alla ribalta un tipo di personaggio maschile che potremmo definire senza mezzi termini, Lo Squallido, includendone una fenomenologia di comportamento fin troppo gentile e bonaria. Perché Robert è anche gentile a suo modo e anche riconducibile a un’immagine maschile ben più politicamente corretta di quanto non inducano a immaginare le storie vere della nostra quotidianità.

Nell’intervista al New Yorker, l’autrice parla proprio del punto di vista adottato in cui, nonostante la terza persona, è Margot che orienta la storia. Del punto di vista di Robert non sappiamo quasi niente perché lo vediamo sempre con gli occhi di Margot e le battute di lui sono riportate sempre da lei che, come ricorderà chi lo ha letto, passa al setaccio tutte le sfumature fino ad arrivare a quei messaggi imbarazzanti che riceve nel finale e che il lettore può usare per gettare luce sui personaggi e capire di che pasta sono fatti. Roupenian ci dice che all’inizio era più orientata su Robert:

Well, at the end of the story, Robert calls Margot a “whore,” so I hope that most people lose sympathy for him then. But, for most of the story, I wanted to leave a lot of space for people to sympathize with Robert, or at least, like Margot, to be able to imagine a version of him—clueless, but well-meaning—that they can sympathize with. I wanted that version of Robert to exist alongside the possibility of a much more sinister one.

I have more genuine sympathy for Margot, but I’m also frustrated by her: she’s so quick to over-read Robert, to assume that she understands him, and to interpret his behavior in a way that’s flattering to herself. I think it’s telling that the moment of purest sexual satisfaction she experiences in the story is the one when she imagines what Robert sees as he looks at her: she’s seduced by the vision she’s created of herself—of someone perfect and beautiful and young. So much of dating involves this interplay of empathy and narcissism: you weave an entire narrative out of a tiny amount of information, and then, having created a compelling story about someone, you fall in love with what you’ve created.

The moment when I feel the most sympathy for Margot is when, after she spends the entire story wondering about Robert—what he’s thinking, feeling, doing—she is left marvelling the most at herself, and at her own decision to have sex with him, “at this person who’d just done this bizarre, inexplicable thing.” (Intervista all’autrice, reperibile qui.

Non sorprende, quindi, che con un intervento così esplicativo come un’intervista a caldo all’autrice, il racconto sia diventato come una partita di calcio, dove i contendenti, uomini e donne, si sono sfidati a colpi di Twitter e commenti social per parlare di sesso, consenso, dating, femminismo, maschilismo, violenza sulle donne, paura femminile di essere ammazzate al primo appuntamento, incapacità di entrare in contatto e così via. Non sorprende che il confine tra letteratura e realtà sia diventato, con questo racconto, così opaco e che la prima sia scivolata nel fenomeno sociologico che ha trasformato il racconto in equivoco di realtà, innescando un corto circuito che potrebbe diventare modalità espressiva nei prossimi anni (tra l’altro il cinema già ne ha costruite tante di storie cosiddette “relatable” all’interno del genere sentimentale).

E ora qualche commento di chiusura per rendere meno criptico il titolo di questo post. Qualche giorno fa ho riguardato per l’ennesima volta un film iconico: Cat People di Jacques Tourner, un film che non smette mai di sorprendermi e di affascinarmi soprattutto per il personaggio tormentato e complesso come quello di Irina. Strati e sottostrati di interpretazioni possono sovrapporsi sul film ma ce n’è una in particolare che mi interessa mettere in luce qui, ed è quella dell’inconoscibilità della persona con cui iniziamo una relazione. Irena e Oliver si conoscono allo zoo, davanti alla gabbia della pantera nera, che lei sta disegnando e da allora decidono di frequentarsi sempre più spesso fino a sposarsi. C’è una strana analogia tra Cat People e Cat Person che non sta nel titolo quanto in quelle pieghe del racconto sulla difficoltà di entrare in rapporto con l’altro, sull’impossibilità di stabilire una relazione senza il rischio di distruggere le persone che ne fanno parte. Anche in Cat People il grande problema è il sesso perché il sesso rivela la donna come un mostro assassino, in realtà (una visione interessante all’epoca che oggi appare del tutto anacronistica).  Nel film Irena e Oliver si conoscono e cominciano a frequentarsi, lui è attratto da lei ed è incuriosito dalla sua bizzarria a tal punto da volerla sposare, rifiutando la possibilità che la donna gli stia dicendo la verità sulla sua reale natura e scambia il problema di Irina per una forma di ossessione psicotica dovuta alla condizione della donna, immigrata dalla Serbia in America. Ma il matrimonio comincia ad andare in pezzi proprio quando Irena comincia a rivelarsi a Oliver, quando la donna comincia ad aprirsi e a mostrare tutta la sua angoscia vissuta come una condizione che la esclude e la condanna alla solitudine. Questo non fa che indebolire il rapporto tra i due, spostandolo sul piano della patologia: Oliver capisce progressivamente che Irena non può essere la donna per lui tanto più che emergono i suoi problemi di adattamento e di anormalità; quando si accorge che Alice, sua amica e collega, una vera ragazza americana, lo capisce molto meglio, gli è vicina ed è pure innamorata di lui, non ci pensa due volte ad abbandonare Irena a se stessa. Irena decide di farsi curare dal dottor Judd su consiglio di Oliver. Sarà proprio il Dottor Judd, attratto da motivi medici ma anche da una formidabile attrazione per la donna, ad aprire il vaso di Pandora e rivelare, restandone vittima, che sì, Irena è una donna pantera e ha detto la verità.

Cat people

Cat People è un film bellissimo non perché ci siano donne che si trasformano in pantere o perché è considerato un film di culto per le famose scene in chiaroscuro che evocano e non fanno vedere il “mostro” per cui il sesso è un problema, ma perché può essere letto come una riflessione sulla condizione di solitudine e di esclusione a cui tutti sono sottoposti in una relazione affettiva anche quando tutto sembra andare per il verso giusto. Nella scena in cui per la prima volta Oliver va a casa di Irena la donna dice “Qui non è mai venuto nessuno, non ho amici” e Oliver non ha ancora nessuna idea di chi abbia incontrato ma poi, per una convinzione tipica di chi si innamora, crede che Irena sia la persona giusta per lui e soccombe all’illusione che lui stesso si è creato; Irena è l’unica persona davvero onesta nella storia: sa di essere affetta dalla maledizione e sa che non potrà mai avere una vita normale, come le altre donne “che rendono felici i propri mariti e sono felici esse stesse”. Irena si porta dietro una maledizione che viene da un paese e da una cultura problematica ma è anche metafora della condizione di solitudine.

Ma cosa c’entra tutto questo con Cat Person? Molto più di quanto si creda, perché quando si leggono le parole del’autrice che fornisce una spiegazione su come leggere il suo racconto e poi si guarda un film complesso e multi stratificato come Cat People si capisce la differenza tra ciò che è problematico e qualcosa che è riducibile solo in termini fattuali: uscire con un uomo, invaghirsi di lui, immaginarlo in un modo, scoprirlo in un altro e magari fornire anche una spiegazione sul sottile e inquietante timore che invade i pensieri di ogni donna al primo appuntamento con uno che è un quasi sconosciuto. Quindi ci sarebbe un tentativo di suspense nel racconto? Pare di sì. E il consenso è una fase problematica nel mondo di oggi al punto da inficiare ogni possibilità narrativa spostandola sotto il riflettore della morale? Pare di sì.

In Cat People, però, era la donna a temere di scoperchiare una libido mostruosa rivelandosi allo stesso tempo metafora riconducibile alla condizione dell’immigrazione e della insopprimibilità delle proprie pulsioni. Ci sono tante interpretazioni della stessa storia e ciascuna può spiegare il racconto da una certa angolatura lasciandone comunque intatti la bellezza e il fascino. Dimenticate tutto questo con Cat Person: dite addio a Werther e relegate Albertine nel dimenticatoio. Persino una scrittrice come Irene Nemirovsky sembra obsoleta oggi.  Perché pare che non conti più come si scrive, contano i fatti. Ma, come cantavano i Talking Heads, i fatti sono fatti, i fatti dipendono dal punto di vista e se non ci stai attento, ti portano fuori pista.


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