Il confine visibile del mondo

A volte mi sveglio con l’idea che Covid19 sia il nome di un’astronave o di una stazione spaziale in un mondo parallelo che ha sostituito quello reale, in cui tutto sembrava girare in un verso che, per quanto sbagliato, poteva rappresentare il migliore dei mondi possibili, per dirla con Pangloss (notoriamente il personaggio un po’ cretino in un libro tutto sommato molto divertente). Se ci si pensa, con rimpianto o incredulità, il mondo in cui vivevamo era davvero inaccettabile sotto quasi tutti i punti di vista, eppure a guardare come viviamo adesso, sembra incredibilmente migliore di qualsiasi altra versione possiamo immaginare adesso basandoci sui fatti e le cifre che ogni giorno ci vengono mostrate. Non sono ottimista, stavolta. E non credo che il mondo che ci aspetta possa anche minimamente essere migliore di quello che non c’è più. Spero di sbagliarmi grossolanamente (e forse questo è il rimasuglio della me precedente alla pandemia) e di dover dire, tra qualche settimana – facciamo pure qualche mese, va’ – che finalmente l’incubo è finito e, avete visto, tutto è andato bene. Invece no, la parte di me che non ci crede, che è poi quella prevalente in questo momento, dice che non andrà bene proprio niente e che tutto sta, poeticamente e tragicamente, andando a puttane.

Guardo con inaccettabile incredulità il trito linguaggio della televisione, quando, satura delle ore passate a leggere articoli dai principali quotidiani di lingua italiana e inglese, decido di mescolarmi al mainstream con l’idea che devo piantarla di essere così snobbina e guardare come comunicano i canali ufficiali. L’umore che genera l’anacronistica visione è diviso tra un senso di imbarazzante ridicolo e una rabbia anarcoide che mi farebbe inforcare gli occhiali e scrivere a raffica tutto quello che penso e che corrisponde più o meno a questo:

1. Brutti imbecilli, il linguaggio che usate è talmente povero da non riuscire nemmeno lontanamente a catturare la catastrofe che stiamo vivendo (non è ripetere il termine “tragedia” o calcare sui soliti, facili patetismi, che può rendere l’idea, anche se ci si illude che repetita juvant, come ci dicevano alcuni mediocri maestri delle elementari, può avere i suoi effetti sul breve termine) e che sta mostrando tutte le lacune e le debolezze di un modello economico vergognosamente colpevole di aver capito bene ma essersene fregato, convinto che lo status quo fosse intoccabile.

2. Sarebbe davvero molto bello, ma di fatto quasi utopistico riuscire a vedere una trasformazione radicale del modo di guardare al mondo ora che il mondo è cambiato e che nulla sarà più come prima. Crediamo veramente che nove miliardi di esseri umani siano sostenibili con questo modello di interdipendenza? Qualcuno potrebbe dire la verità ogni tanto? E cioè che ai ricchi e abbienti non gliene frega niente del resto dell’umanità e che i conservatori di tutto il mondo e di tutti i modelli sociali, occidentali e orientali, sono lì a fregarsi le mani perché diventeranno sempre più ricchi? (Magari potrebbero andarsene a fare in culo su Marte, prima o poi, be my guest, non vedo l’ora che lo facciano).

3. Sarebbe auspicabile che i nomi un po’ stantii che vengono chiamati a dare pareri e opinioni (parlo di imprenditori e celebrity o aspiranti tali) si sforzassero di essere un po’ più originali, smettendola di ripetere i soliti luoghi comuni a cui tutti abbiamo pensato e di cui qualche volta abbiamo scritto, e cercassero invece di pensare in maniera laterale, innovativa, creativa. Altrimenti, che stiano zitti nelle loro case belle. Lo volete capire che non se ne può più di ascoltare banalità che mal si adattano a quello che potrebbe essere il mondo nei prossimi anni? Se proprio devono parlare, rimando al consiglio diplomatico di cui al punto 3: Marte vi aspetta, siete ancora qui? Lì potrebbero accelerare la loro ansia di riforma economica e creare finalmente la società che vorrebbero: mediocre, stupida, arrogante, uniforme e soprattutto popolata solo da quelli come loro.

4. Ognuno può dire quello che vuole dei vantaggi della quarantena, se mai ce ne siano, e pensare che in fondo in fondo starsene a casa a lavorare in remoto (chi lo sta facendo) sia non proprio così male, quando poi ci si vede in video a fare aperitivi virtuali con l’immagine che sfoca, si blocca o sfarfalla, a farsi gli affari altrui guardando lo sfondo dietro allo schermo dell’interlocutore o a pensare che questa nuova (nuova?) forma di socializzazione sia accettabile sul medio-lungo periodo. Il lavoro in remoto fa schifo ed è peggio di quello in presenza, perché separa da tutta una serie di atti comunicativi che sono fondamentali per la nostra natura di animali sociali (funzione fatica, qualcuno se la ricorda?), anche quando questi atti sembrano irrilevanti o passano inosservati; fare aperitivi virtuali è di una noia mortale perché non c’è nessuno da guardare al tavolo vicino o sull’altro lato della strada; guardarsi nello specchio dinamico dello schermo è deprimente e straniante sul lungo periodo. Non ho mai sopportato i surrogati e tutto questo, lavoro, socialità, distanza, rappresenta un surrogato della vita, mentre la vita viene consumata dal tempo della sospensione e della distanza, dal senso di perdita indeterminata tra spirito di adattamento e umore altalenante che a volte vira in psicosi.

Non c’è più il tempo sociale, quello che veniva criticato nei lontani anni Sessanta, per esempio, da Henri Lefebvre (ne La vita quotidiana nel mondo moderno) perché vita lavorativa e vita quotidiana sono diventate inestricabili e fottutamente insopportabili l’una all’altra. Il tempo dello svago e della noia, il tempo del lavoro e degli obblighi sociali, si sono fusi l’uno nell’altro come la mosca e l’umano nell’omonimo film di Cronenberg; il risultato? Una mostruosità disarmante. Come quella celebre metafora della scienza senza coscienza che è nel film (versione moderna dell’antico mito di Frankenstein o soggettiva versione del regista canadese dell’unheimlich), anche la nostra vita quotidiana è degna di una mosca che per caso di infila in una capsula e si trova a condividere il corpo di un umano. Non riuscendo a convivere separati, si fondono e si autodistruggono.

In questo momento di sarcasmo che è questo articolo, anche i nostri tempi quotidiani, lavoro, famiglia, svaghi, affetti, gioco, noia, sonno si sono fusi in un calderone confuso in cui il nostro solipsismo non riesce nemmeno a esprimersi nelle forme tradizionalmente codificate dalle arti e dalla creatività. Non sono sufficienti le grandi tragedie (forse l’Edipo Re, sempre valido in tempi di crisi e, per qualche animo gentile e romantico, Romeo e Giulietta, l’evergreen di quelli che leggono poco ma poi vedi come va a finire, e ti passa la voglia); non è sufficiente la commedia anche se aiuta un po’;  la poesia allevia ma non consola : rileggendo Elizabeth Bishop ho avuto il magone per due giorni, mentre The Waste Land è stata semplicemente devastante; ho provato con E.E. Cumming: malinconia allo stato puro, Palazzeschi: come fare un tuffo nel passato, ho ricordato il mio esame alla Sapienza di letteratura italiana e mi ha preso pure lì la nostalgia a cui si è aggiunto il senso del tempo che passa e il colore dei capelli stinto e… tante, troppe altre cose. Va bene, Emily Dickinson è stata una virtuosa dell’isolamento e della solitudine, osservazione della natura, sguardo acuto e profondo sui micromovimenti dell’animo e della meravigliosa bellezza del creato, profonda intelligenza che rivolta persino le ali di un’ape e le trasforma nell’esistenza pura del qui e ora. Ma quale natura è rimasta oggi? La primavera sottratta e sussurrata di questi giorni di quarantena è bella e struggente perché precariamente appesa a un filo. Quando guardi le immagini della selvaggina venduta vita in certi posti, addio Emily, mi sei piaciuta, ma oggi è tempo di animi ribelli e di verità brutali: così non si può continuare, così no, così è inaccettabile. Ascolto l’ultimo brano di Bob Dylan verso l’una di notte e mi si presentano due versi che riconosco bene: I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods, I contain multitudes… andrà bene pure se sono una donna? Domanda irrilevante. Mi vado a rileggere Whitman, altra memoria dei tempi all’università, sul prato a leggere Whitman e a preparare l’esame di letteratura americana in una solitudine circondata da tanti altri come me: questa sì è una visione da fantascienza nostalgica.

Poi mi imbatto in “I hear America singing” e mi ricordo delle foto di New York spettrale di questi giorni o dei senzatetto in metropolitana. Passando per Piazza San Pietro, l’altro giorno, mi ha colpito la dignità con cui gli ultimi degli ultimi delle nostre infauste società affluenti stanno affrontando senza maschera (letteralmente e metaforicamente) la loro sorte sospesa. Mi sono sentita indignata per le offese subite dal mondo ricco in questi anni, contro cui non sono riuscita a fare niente se non scrivere qualche post nell’illusione di diffondere cultura. Erano lì seduti lungo il colonnato, uno di loro, circondato da piccioni tubanti, distribuiva briciole e disegnava pacioso e paziente, mentre altri parlavano sommessamente tra loro con le cose raccolte in buste e sportine, con le coperte piegate accanto. La piazza rifletteva la luce sui sampietrini e le fontane facevano un discorso tutto loro mentre qualche gabbiano si faceva il bagno e gli agenti pattugliavano il vuoto; ovviamente, qualche busta vuota svolazzava a distanza mentre il fiume, di un verde più sano del marroncino biondastro che risaltava all’ora di punta solo due mesi fa, ospitava gli unici esseri a cui non si applica la quarantena: germani reali, gabbiani, gabbianelle, cornacchie silenziose sulle sponde. Ho provato una sensazione che non può essere ridotta alla parola “invidia”, veramente troppo meschina; ho pensato, invece, “vedi, stavolta stanno proprio meglio loro”. Lì dove è proibito per gli umani aggirarsi (merito di misure restrittive tanto della libertà quanto dell’intelligenza) chi può se la gode. E ho avuto un’agnizione.

La linea, un tempo invisibile, tra quello che ci appartiene e quello che crediamo ci appartenga è diventata tutto a un tratto visibilissima. Lo spazio degli umani, vuoto e desolato, è reso inutile dall’assenza di occupanti. Come l’ultimo uomo sulla terra, ci si aggira per i nostri spazi un tempo dinamici e significativi che, messi così oggi, non sembrano avere più senso (ovviamente, sono ancora proprietà pubblica o privata) di quanto non ne abbia il set vuoto di un film non girato, mentre un’altra vita si sta svolgendo sotto i nostri occhi, indipendentemente dalla nostra volontà, e piuttosto indifferente alla nostra sorte. Molesti e invadenti come sembravano prima con noi, adesso gli animali di questi strani ecosistemi svuotati degli umani sembrano fregarsene a tal punto della nostra presenza da aver reso noi le presenze moleste, e anche un po’ fuori posto. Temo, però, che anche questa sia un’illusione dello sguardo interiore, perché ovunque il mondo naturale è sottoposto a una pressione senza precedenti da parte di una specie talvolta alleata, talvolta antagonista: quella umana. Finalmente si respira un po’, sembravano dirsi quegli uccelli sul Tevere.

La fantascienza ha spesso catturato la realtà straniante generata dal mondo possibile del “cosa accadrebbe, se…” e un po’ ovunque gli elementi di quello che siamo diventati adesso sono già stati ampiamente elaborati da versioni sofisticate o mainstream del genere. Quello che sembra prevalere oggi, però, è la versione più mainstream di tutto il caos che noi umani caciaroni potevamo creare sulla Terra, compresa la noia e quel senso di disperata allegria al pensiero di uscire di prigione.


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