La poetica del dettaglio – Giovanni di Carpegna Falconieri

Nel suo saggio ancora inedito sulla flanerie a Roma nell’anno 2020, Sava Sandir prova ad analizzare quel coacervo di sensazioni che ti prendono quando giri per la città senza uno scopo preciso se non quello di uscire allo scoperto per (ri)scoprire questo nuovo, strano mondo uscito dalle circostanze attuali. Nel centro della città, da cui tutto dovrebbe dipanarsi e che ora appare un guscio sinistro, il grandioso sembra mescolarsi al particolare e il macrocosmo della storia sembra restarsene solitario e immoto come se nulla, di questi umani colpiti dalla malasorte, lo toccasse. Dabbasso, sui ciottoli lucidi di umidità e nelle strade e stradine su cui costruire un labirinto straordinario di dettagli, gli umani si aggirano, nonostante lo sgomento mal celato, come membri di una comunità fatta di altri animali e altri oggetti, mai come adesso resi visibili dall’assenza dei forestieri.

Camminare da soli per Roma è come cercare se stessi nel passato e la memoria fatica a percorrere il tempo lineare a ritroso perché tutto sfugge, tutto sembra uguale a prima, ma non lo è. Bisogna acuire lo sguardo, cambiarlo addirittura, accorgersi dei dettagli che prima sfuggivano e che puoi trovare tra le pieghe dell’ordinario: eppure c’era questo e questo, ci diciamo, prima che tutto accadesse, come avevamo fatto a non vedere?

Digital work

Al di là degli enigmi, bisognerebbe farsi guidare da chi quei dettagli e quei particolari li aveva colti lungo il filo del tempo che sembra scorrere lento a Roma, un luogo comune che è anche uno stereotipo che tiene la città un po’ prigioniera di se stessa.

Ci sono, tuttavia, altri luoghi e altre stanze, dove la città vive una vita parallela, fatta di oggetti che immaginano un mondo di materie e possibilità. Proprio in una di queste peregrinazioni, a Piazza dei Massimi, vale la pena scoprire lo studio di Giovanni di Carpegna Falconieri (qui il suo sito): un piccolo mondo onirico di reinvenzioni e oggetti dalla doppia vita. Accanto ai dipinti e alle stampe, uno schieramento di sculture-lampade, light design, che si animano appena le guardi, quando se ne coglie il familiare nell’unheimlich, proprio perché, rimandando a quello che non sono più, diventano piccoli mondi immaginari, moltiplicando le possibilità delle vite che possono assumere una volta che ti si siano parate innanzi.

Nato a Roma nel 1966, Giovanni è un natural born artist, il cui sguardo sulla città e la campagna che la circonda è acuto e interiorizzato come solo negli artisti che conoscono questa città difficile e bellissima, tosta e infausta, ma anche capace di riservarti sorprese che chiamerei sentimentali. È il modo in cui le persone, apparentemente così ciniche quando dicono di aver visto tutto, si sciolgono in un sorriso di fronte al biancore morbido di un gabbiano onnivoro sul parapetto sporco di un lungotevere del centro, o il modo in cui ci si sorprende ancora nel vedere le sculture vegetali che si formano sulle sponde, o quelle aeree che formano gli storni quando si preparano a migrare, o i tanti angoli bui e dimenticati che magari ti riservano un altro frammento di storia e di memoria. 

Negli oli di Giovanni, Roma è piena del colore e del movimento degli elementi che la compongono e i luoghi cittadini non sono fermi e astratti, immobili e serafici, ma si animano e si arruffano, entrano in competizione, ti guardano di rimando mentre li osservi e ti chiedono insolenti, semmai li avessi dimenticati, “ma dove hai vissuto fin’adesso per non accorgerti di me”? E ti senti un po’ in colpa e un po’ trasandato, se pensi che in questa città ci hai vissuto e imprecato e mangiato e quei ciottoli e quei ponti li hai attraversati chissà quante volte.

In questo strano anno che tutti ricorderemo, non avrei mai pensato che i turisti mi sarebbero mancati; al di là del frastuono e delle flanerie impossibili nel centro (cosa di cui si era accorto già Benjamin parlando di Roma), mi manca il loro sguardo sorpreso, attonito, basito, lo sguardo della prima volta, insomma, quando noi tutti vediamo qualcosa che ci si pone innanzi, magari diversa da come l’avevamo immaginata o ricordata.  Roma nei sogni è sempre enorme, sovrastante, le fontane si animano, le piazze si dilatano e i vicoli sembrano costruzioni immaginarie come nei film di Wiene. Nella realtà, però, Roma è fatta di pezzi compositi, barocca e paradossale nel suo grande centro, sfuggente e ostile in periferia. Ed è sempre una sorpresa come tutta questa grandezza possa entrare nel confine di un’opera bidimensionale o di un oggetto che puoi tenere in mano. Finita l’epoca delle grandi prospettive e della magnificenza, del clamore della riproducibilità tecnica e delle copie in serie, come fare per cogliere lo zeitgeist e lasciarlo intatto dall’usura del tempo?

Se c’è però qualcosa di imperdibile e di autenticamente sentimentale in questa città diversa, oggi, è la possibilità di acuire lo sguardo e cogliere i dettagli, come fanno le opere e le sculture di Giovanni.

Ecco allora, Cavour che ti guarda dietro occhiali alla John Lennon in un gioco irriverente in cui l’opera è messa dietro le inferriate a dialogare con l’essenza di Cavour, inducendoti a guardarne il monumento con un altro spirito. Oppure Ponte Sublicio incontro alla procella con quell’effetto senza tempo che ti rende quel luogo cittadino così familiare; e ancora le acqueforti con i particolari architettonici di Roma, che quando li vedi dal vivo guardi e passi ma qui, sulla carta, assumono la valenza di un proscenio su cui si apre un mondo che credevi di aver dimenticato: il teatro e la piazza che diventa a sua volta teatro, a ribadire la natura doppia e auto-riflettente dei tanti luoghi del centro. È il mondo interiorizzato della Roma barocca e teatrale che ci circonda ma che scorre a volte non osservato, dai finestrini della macchina o nello sguardo disilluso del passante. Ci sono angeli centripeti, cavalieri sovrastanti prospettive decostruite, fughe di saloni nobiliari, tavole imbandite, fiere sghignazzanti e biblioteche antiche che dialogano con le placide vedute di campagna in un contrasto che coglie quello che Gogol diceva di Roma: una città che è a un tempo anche campagna, “enorme eppure in due minuti potete già ritrovarvi nei campi”, popolosa a volte o spettralmente deserta proprio come la vediamo in queste notti interminabili.

Foro Boario – Linoleografia 2007

Completa questo mondo la serie delle sculture: figure inedite, stranissime di primo acchito, non familiari, per l’appunto, come spesso succede agli oggetti assemblati. Eppure, ad osservarli si coglie la trasformazione in progress che abbandona la referenzialità dell’oggetto originario per diventare tutt’altro: un ramo contorto diventa una figura antropomorfa femminile che porta sulla testa un dono, cuscinetti industriali danno origine a un insetto gigante che sembra sorridere enigmatico,

un disco metallico si trasforma in un volto che rimanda a una luna futurista, un antico mattone romano che si presta a ospitare penne d’artista e poi il Pinocchio fatto di sassi, metallo e carta, immancabile icona della nostra letteratura.

Gli oggetti originari, perduti e ritrovati, si ricompongono e generano figure naturali, il serpentello che si erge dalla foglia di quercia, il chiodo artigianale del Seicento che si combina a formare un rasoio con un antico ferro di risulta o l’imbuto-calice “con le molle che sembrano orecchini” e i lapislazzuli, evocativo di certi reperti tardo romani, che si trasforma in scultura arcaica e postmoderna al tempo stesso.

Le linee strutturate di un contatore, di una staffa, di un chiodo, un capitello, un cilindro di macchina, della vanga, e del legno assemblato si contorcono e si ricombinano, spezzandosi e ricomponendosi come capita soltanto alle visioni immaginifiche che si dipanano, in rutilanti e giocose armonie, soprattutto nella serie di “arte digitale”. Si tratta di stampe colorate che riprendono molti dei leitmotiv dell’artista, ricombinandoli con un tono blasé che è però in grado di sprizzare una gioia raffinata, la stessa gioia espressa dal trittico chiamato Il Terzo Stato di albicocca, che rompe l’enigma di una disposizione casuale per restituirci la sorpresa di elementi naturali dall’effetto ipnotico.

La mostra di Giovanni di Carpegna di Falconieri si trova a Roma, Piazza dei Massimi. Per ammirare altre sue opere online: http://www.giovannidicarpegna.it/

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