I guardiani dell’industria culturale

In un articolo pubblicato su Slate, intitolato “The Gatekeepers” Daniel Menaker, scrittore e editor, loda l’attività dell’editoria “tradizionale” rispetto a quello che definisce il populismo di Amazon & Co., affermando come l’industria editoriale, con i suoi paletti e le sue barriere, sia in possesso di una professionalità che sarà sempre alla ricerca dell’artista. Le case editrici, produrranno sempre oggetti fisici (libri e loro derivati) muovendo, al contempo le persone, che ciò avvenga emotivamente o intellettualmente, a condividere quello che viene appreso e quello che esse ritengono più importante. Il punto sollevato da Menaker, è che senza l’attività dei cosiddetti “guardiani dell’industria editoriale”, sebbene elitari e selettivi, persino brutali nel rifiutare l’accesso di un libro alla pubblicazione, diventa necessario spiegare cosa possa venire al loro posto. C’è l’impressione, leggendo l’articolo, che l’autore abbia a cuore un’idea di letteratura essa stessa elitaria, snob, acculturata, ma soprattutto bella. Che significa? Mah, a mio parere, per esempio, che per scrivere un bel libro, ma bello nel senso di un libro che ti colpisce al cuore e alla mente, che ti restituisce il senso delle cose attraverso la percezione di quanto la vita sia infame, tragica, dura e maligna, ma anche di quanto sia misteriosamente unica l’esperienza che se ne può trarre e, attraverso la scrittura, offrirla alla condivisione umana – ecco per scrivere un libro tipo, per esempio, a caso, “La mia vita” di Cechov, oppure “Il signore delle anime” di Némirovsky o “Pietroburgo” di Andrej Belyj o anche “Ada” di Nabokov* o “Blood Meridian” di Mc Carthy**, ecco per scrivere un libro così si deve prima averlo nella testa e poi saperlo fare. Ma ci deve pure essere qualcuno che lo riconosce.

Tornando alle affermazioni di Menaker, si può essere d’accordo in linea di massima, ma resterà sempre una certa inquietudine per chi scrive, magari bene, e per il critico raffinato (non è ironico, ce ne sono ancora in giro: leggono molto, scrivono dei blog, lavorano nei ristoranti, insegnano in tristi scuole private sottopagati covando frustrazioni che annegano in libri ad alto tasso alcolico, quando non nell’alcool stesso, sanno pronunciare molto bene il nome di un single malt delle Islands [Bruichladdich, per chi non lo sa…], fanno gli impiegati alla posta e si sentono persino fortunati con l’aria che tira, traducono brutti testi scritti male restituendone un minimo di eleganza, ecc. ecc.) che non ha ancora un nome-marchio, un nome brand e deve risalire la china come un salmone su un fiume in piena (solidarietà ai salmoni!  Tesoro, sembra che siamo tutti nelle stesse acque, eh?”). Nell’eterna lotta dialettica tra l’esigenza di un ritorno finanziario sull’investimento (nella fattispecie il libro che si decide di pubblicare) e la qualità del prodotto ( questo è il termine che Menaker usa nell’articolo, in questo senso, un libro è in fondo come un golfino di cashemire, ma meno caldo…) ossia la sua “artisticità”, ci sono i professionisti dell’editoria, che notoriamente negli US è molto complessa e dotata di processi industriali veri e propri. Questi professionisti sono spesso molto bravi e competenti, nessuno lo mette in dubbio, e, ancora più spesso, lavorano in team, gruppi di lavoro, con un obiettivo, diciamo… congiunto?… in mente: trasformare il potenziale manufatto artistico in un prodotto che concili esigenze di mercato (vendite e profitti) e qualità (e qui la comunicazione e le PR e la pubblicità e compagnia bella fatto tutt’uno con il progetto editoriale): spostando capitoli, riscrivendo pezzi interi del libro, modificando i nomi, le descrizioni dei personaggi, aggiungendo un po’ di sesso se necessario, livellando addirittura lo stile, insomma, in qualche modo appropriandosi un po’ del manufatto grezzo per trasformarlo in prodotto raffinato, cioè finale, pronto per il mercato.

Non so, tutto questo mi toglie un po’ di poesia e mi fa sentire un anacronismo vivente… Del resto è inutile farsi illusioni, che lo si voglia riconoscere o meno, produrre libri è un’impresa e tale impresa fa parte di quell’ambito più ampio e composito, ancorché sottoposto a regole ferree e strutturate, che è l’industria culturale. Possiamo anche pensare che ci si possa liberare dell’editore tiranno, dell’editor affetto da invidia della penna, del consulente editoriale dalla visione limitata e, come un marinaio esperto e un po’ misantropo, si voglia cavalcare le onde del mercato da soli. Comunque si eliminino gli avversari, ci sarà sempre il mostro alla fine del labirinto che ci aspetta al varco: il pubblico. Come la comunità feroce nel racconto “La lotteria” di Shirley Jackson, ci sarà sempre qualcuno a cui farà piacere tirarvi un sasso addosso e dare l’avvio alla raffica che vi colpirà tramortendo ogni vostra speranza di diventare famosi, e non è detto che sia la prospettiva peggiore. Immaginate quanto sarebbe atroce recarsi al cospetto della comunità di sassaioli, convinti di ricevere un responso se non altro sentito, ancorché negativo, e trovarsi invece di fronte la piazza della gogna completamente vuota… Ecco i gatekeepers dell’industria culturale, forse, sono quelli che possono garantire che ci siano sempre un po’ di pietre a vostra disposizione.

* Ebbene, sì adoro i russi, fin da quando ho imparato a leggere.

** Questo è un romanzo americano che molti conoscono e sul quale il mio professore all’università, guardandomi severamente dopo aver letto la tesi di dottorato, disse che avevo sprecato troppo tempo e troppe energie. Le sue parole esatte furono “McCarthy non vale tutto questo studio e questa analisi perché non è così grande come lei vuole far credere”. Ovviamente ci rimasi molto male. Lui sì che era uno dei guardiani dell’industria editoriale e pure uno bravo. Per fortuna non aveva dovuto leggere McCarthy per selezionarne la pubblicazione.


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