L’amore molesto di Elena Ferrante

Ci sono dei libri che, nonostante il successo, appaiono assai deludenti. Difficile dire perché ciò accada, dal momento che la lettura è un’esperienza in cui entrano in gioco molti elementi, non ultimi quelli extratestuali collegati alla ricezione dell’opera e al successo del suo autore.

Ho letto con una certa aspettativa L’Amore Molesto di Elena Ferrante. Onestamente non posso dire che il romanzo mi sia piaciuto. Ho trovato la lettura un po’ frustrante e poco coinvolgente, soprattutto sul piano dello stile e della struttura narrativa. Non mi importa sapere chi sia l’autrice, e rispetto profondamente la scelta di celarsi, scrivendo sotto pseudonimo: una scelta coraggiosa e astuta, probabilmente dettata anche da una strategia commerciale. Non mi importa sapere se elementi autobiografici si siano intersecati alla struttura della storia, se i personaggi rispecchino in qualche modo un’esperienza reale. Preferisco analizzare gli aspetti narrativi che perdermi in sordide speculazioni sull’identità dello scrittore.

Quello che importa quando si legge è capire cosa si sta leggendo davvero, e ciò vale soprattutto quando si tratta di un romanzo scritto da un’autrice che ha avuto tanto successo. Un libro questo Amore molesto, che tuttavia non mi sento di definire bello, coinvolgente, né tanto meno appassionante quanto, al contrario, asfittico, sgradevole, chiuso.

La delusione passa sopratutto sul piano della struttura narrativa e della voce narrante. Perché nonostante le tante cose che ci sono dentro e malgrado la scelta di un tema così potente come il rapporto tra madre e figlia, trovo che manchino tanti pezzi, troppi, per considerare questo romanzo un grande romanzo. Lo definirei piuttosto un grande romanzo mancato, un romanzo che quando lo hai finito ti dici peccato che non sia stato scritto e strutturato in altro modo, peccato che l’io angusto e onnipresente dalla narratrice soffochi tante possibilità narrative che il testo avrebbe potuto esplorare, peccato un finale così didascalico. E ti chiedi, con un po’ di sgomento e anche di incredulità, perché certa letteratura femminile non riesca a uscire dal particolare e diventare universale, perché certe donne scrivono troppo da donne per farsi leggere da donne a cui, perversamente, piace ribadire la propria differenza nuotando nel mare torbido dell’emotività a tutti i costi, nel singhiozzo degli interdetti. E ti chiedi, inoltre, cosa giustifichi la definizione data da D’Orrico di Ferrante come “la massima narratrice italiana dai tempi di Elsa Morante”?

Ma lasciando da parte quesiti a cui non è facile rispondere e che rischiano di farmi impallinare, mi chiedo a questo punto cosa mi abbia deluso di più del libro: la laconicità dei personaggi e la scarsa simpatia che suscitano (tranne Amalia, l’unica assente, forse non a caso); la profonda nefandezza dei maschi del romanzo, sudici e vigliacchi; il rapporto corporale con la propria e altrui femminilità (sangue mestruale, fluidi corporei, sudore e fluidi essiccati sui vestiti, pinguedini varie, capelli seducenti e acconciature); l’ineffabile presenza della città che non ha nulla di caratterizzato se non la volgarità delle espressioni maschili che non  vengono mai dette direttamente (peccato questa mancanza di discorso diretto e di dialetto); il ruolo della reticenza che si fa menzogna e omertà, da cui nessuno è esente. Su ciascuno di questi aspetti si potrebbero scrivere pagine e pagine, e già questo basta, con ogni probabilità, a rendere l’autrice e il suo romanzo un pezzo importante di letteratura. Nonostante questi e altri aspetti, il romanzo ha il fiato corto e respira molto male. Ma perché? Oggi che la critica riposa tra i sonnecchianti dipartimenti universitari o come pratica residuale di un circolo di superstiti inascoltati, credo sia importante donare un po’ del proprio tempo a leggere criticamente se non altro per spirito di contraddizione nei confronti della frammentarietà che ci circonda.

Non ho trovato la lettura bella, coinvolgente o appassionante perché manca al romanzo quella che definirei la dimensione dell’esperienza universale, quel respiro potente che trasmettono le grandi storie con personaggi che, pur risultando negativi e perdenti, sembrano camminarti accanto come qualcuno a cui puoi rivolgerti in solitudine o che ti sembra di portare sempre con te, soprattutto nei momenti difficili, quando ti mancano i pezzi per interpretare la realtà e, per non rinunciare all’incanto della speranza, senti il bisogno di tornare da qualcuno che ha fatto parte della tua vita, anche se in maniera fittizia.

All’Amore molesto manca il respiro dell’esperienza esemplare, manca il lavoro fondamentale che sa fare la grande scrittura: salpare dalle acque torbide della narrazione fattuale per solcare il grande mare della verità poetica e riportare ai profani una diversa e più composita versione della realtà.

Questo romanzo, invece, non riesce a uscire dalla dimensione soggettiva e soffocante di un io che vuole per forza apparire disturbato perché agito da un’idea preconcetta, avviluppato dai lacci di una narrazione che definirei chiusa, volta a dimostrare un’idea assoluta e cioè che l’amore è molesto, privo di riconciliazione ma non perché l’amore sia necessariamente così (può anche essere molto peggio, per esempio quando non è corrisposto) quanto perché è così per Delia, la voce su cui poggia tutta l’impalcatura del dolore di cui sono profuse le pagine.

A questo proposito mi vengono in mente due racconti molto belli in cui i protagonisti fanno i conti con la propria vita: uno è La mia vita di Cechov, l’altro è  Il male oscuro di Berto. In entrambi i casi, il protagonista finisce triste, solitario, piegato dalla vita e dagli eventi. Nel racconto di Cechov, il protagonista è al cimitero avviluppato dai ricordi e dalla tristezza di vivere a questo mondo. Nel romanzo di Berto, il protagonista appare auto segregato su una spiaggia, ormai perso nel suo dolore. In entrambi i casi c’è un respiro esistenziale, un valore simbolico nella semplicità dei gesti, il dolore non è più autoreferenziale ma fuoriesce, si offre all’esperienza collettiva, dona se stesso come se volesse in qualche modo redimere quello altrui.

Anche il finale dell’Amore molesto si svolge su una spiaggia, in una scena di auto agnizione che chiude in qualche modo i conti. Ma non lo fa per donare al lettore un’esperienza, quanto per imporre quello che era prevedibile fin dalle prime pagine, e lo fa spiegandolo in maniera insopportabilmente didascalica, banale. Il dolore di Delia resta il suo dolore, personale, soggettivo, autoreferente. Al lettore non resta che chiudere il libro e prendere atto della cosa senza che nulla resti di veramente memorabile.

Confinare la solare e ineffabile Amalia nell’autorefenzialità della figlia è l’esito più deludente della storia perché butta via tutto il gioco di inaffidabilità della narratrice che invece di sorprendere o redimere il dolore in qualcosa di universale, non fa che confermare quello che un certo tipo di lettore vuole vedere alla fine, un esito narrativo che definirei chiuso, asfittico, anti catartico.

Delia non sembra una nevrotica o una depressa, ma semplicemente una donna alienata di mezza età che non è riuscita a evolversi davvero verso l’età adulta, accettando la figura materna per quello che è (anche il fatto che tratti così male la madre, è segno di una durezza che si ha soprattutto in adolescenza). Che vi siano regressione o rimozione nel racconto è certo. Ma non voglio giocare qui a “personaggi psicopatici sulla scena”. Nel romanzo di Ferrante, la morte della madre apre una voragine di interdetti e di rimembranze tanto caotiche quanto traumatiche, fatte di sospetti, rancori, risentimenti, malamore, e nodi emotivi da risultare persino stucchevoli. Che la madre sia una malafemmina o una donna semplice e solare, un tempo costantemente molestata dai sordidi maschi che la circondavano, evocata talvolta come un corpo assediato di attenzioni, scivola persino in secondo piano rispetto alla preponderanza del dolore di Delia, e all’impossibilità di una riconciliazione (in primo luogo con il padre, un uomo soverchiato dalla sua stessa brutalità e giustamente lasciato solo) la cui possibile soluzione è solo attraverso lo sguardo interiore della figlia.

Chiunque abbia letto gli scrittori importanti della letteratura sa quanto possa essere centrale l’interiorità dei personaggi e quanto essa sia così potentemente evocativa da creare un rapporto di comunanza, di riconoscimento da parte del lettore.

Nel racconto di Delia, invece, tutto resta confinato, addirittura segregato, in una zona affettiva confusa dove i sentimenti sbattono contro il proposito raziocinante di rimozione dell’amore attraverso il rifiuto della madre (all’inizio del racconto) e il tentativo di riappropriazione della figura materna attraverso l’indagine del proprio dolore, sempre sospeso tra verità e menzogna dei fatti. L’andamento centripeto della narrazione è regolato da un resoconto fattuale, ma gli stessi fatti hanno un carattere di inattendibilità, perché troppo legati al punto di vista emotivamente contaminato della voce narrante. Se questa strategia narrativa è quella preponderante nel racconto, essa risulta purtroppo anche il suo punto debole, l’ostacolo più evidente affinché il romanzo sia davvero potente. Forse Ferrante ha bisogno di più spazio, di più pagine, di trilogie, quadrilogie per far fiorire il complesso intento letterario della sua scrittura.

Il problema in questo romanzo, però, non sussisterebbe, se il personaggio si fosse evoluto e avesse cambiato il punto di vista giocando a rimpiattino con il lettore. Invece, fin dall’inizio sembra che tutta la storia ribadisca quello che è chiaro fin dalle prime pagine, prevedibile e persino disarmante nella sua banalità: il padre manesco e violento, ottusamente e ossessivamente geloso, le sorelle completamente assenti  dal sordido scenario familiare, il presunto spasimante della madre, uomo squallido e mezzo pervertito, la vicina laconica e ambigua, come tipicamente certi stereotipi delle donne del sud, uno zio, fratello della madre, connivente con la sudiceria maschile un po’ perversa, un po’ contorta di un certo sud che non riesce a uscire dal suo stereotipo, l’amico di Delia che non riesce a essere amante (la scena dell’amplesso mancato è veramente insopportabile) non fanno altro che lasciare solo Delia depositaria della figura materna e incapace di uscire allo scoperto, ne non altro dicendo “no”. Alla fine solo lei è quella che può restituire alla madre il valore che ha, redimere questa figura fantasmatica senza confinarla nel risentimento del proprio egoismo affettivo. E invece non ci riesce fino in fondo, perché non fa che continuare a riferirla a sé senza riuscire ad abbandonare il suo punto di vista.

Sarà che quando il narratore è intradiegetico è anche consequenziale che sia il suo sguardo a illuminare o a spegnere l’ambiente circostante. Se è così, lo sguardo di Delia è profondamente inficiato dal suo stato d’animo, dal risentimento nei confronti della rozzezza degli altri, persino dalla loro crudele banalità. Ma perché non fare un salto ancora più audace, restituendo una voce che non sia quella di Delia alla memoria di Amalia? Una voce più carica di poesia?

Anche in uno scrittore come Federigo Tozzi i personaggi sono rozzi e brutali, crudeli e ottusi eppure nella sua scrittura c’è una poesia possente, che si sovrappone alla violenza umana e all’indifferenza della natura. Ma questi sono temi grandi per tempi meno squallidi del nostro. Ne L’amore molesto invece di poesia non ce n’è ed è ciò di cui si sente maggiormente la mancanza. Nemmeno gli oggetti, che destano una certa repellenza riescono a evocare poesia, ma restano imprigionati nello sguardo autoreferenziale di Delia, oggetti materiali della memoria ma soltanto della sua.

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Chiudo questa lettura con qualche considerazione sul personaggio di Amalia, che in realtà è l’unico, nonostante la morte, a evocare nel lettore un po’ di vitale tenerezza. La madre china sulla macchina da cucire che ritaglia pezzi di vestiti, confeziona guanti, che corre per la città a consegnare i suoi lavori, che fugge dalla violenza familiare, che mantiene la sua autonomia nonostante la menzogna che la circonda, che vorrei immaginare amorevole e protettiva nonostante l’ambivalenza con cui viene ritratta e bistrattata è l’unica figura veramente autentica del libro, capace di sfuggire allo stereotipo, di sgusciare dalle maglie dello stereotipo e risultare madre e donna, lasciando però sempre il disagio di questa autonomia.

Perché un punto è certamente evidente nel romanzo: essere madre non significa amare incondizionatamente i figli, non significa necessariamente, essere come l’egoismo filiale ti guarda e vuole vederti, ossia proiezione del proprio bisogno affettivo. In questo, L’amore molesto riesce bene a delineare il problema, ma resta al di qua del rapporto madre figlia, aderendo a una concezione fattuale degli avvenimenti che riporta sempre allo stesso punto nevralgico: l’amore filiale è molesto perché la figlia non riesce ad accettare la madre per quello che è, non riesce a redimere la madre-donna e quando lo fa deve riportala per forza a sé, farla coincidere con il sé. Se è solo Delia a raccontare e il suo racconto è a tratti inaffidabile, incoerente, scucito, a tratti allucinato da ricordi ingombranti e falsificati, come si può credere alla sua versione dei fatti? Come si può pensare di redimere la madre in un modo diverso da quello autoreferenziale della figlia? Se i rapporti con i personaggi restano abbandonati sullo sfondo, quasi volutamente condannati a essere dimessi perché inefficaci a qualsiasi scopo narrativo se non quello di dimostrare l’impossibile impresa di redimere Amalia al di fuori dello sguardo di Delia, quale può essere l’esito finale se non una narrazione chiusa in cui prevale un io egoista e inaffidabile?

Una struttura narrativa di più ampio respiro avrebbe potuto aprire il racconto e renderlo davvero autenticamente universale.

 


3 thoughts on “L’amore molesto di Elena Ferrante

  1. Ho appena finito di leggere questo libro e ho voluto cercare su internet un’analisi onesta che risolvesse le mie tante perplessita’ in merito alla caratterizzazione dei personaggi e allo stile narrativo. Grazie tante perche’ mi ritrovo moltissimo con la sua valutazione.
    Marianna

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    1. Sono contenta che l’articolo possa averle dato degli spunti di interpretazione. In passato, sono stata molto criticata dagli “adepti” di Ferrante per aver analizzato il suo stile e la sua lingua per trovarli infine molto deludenti e al di sotto delle mie aspettative (vengo dalla vecchia scuola, in cui si lottava con i testi di Faulkner, Steinbeck, Melville…) e trovo Louisa May Alcott o Carlo Collodi di gran lunga più interessanti di Ferrante. Oggi viviamo nell’epoca dei gusti personali in cui tutti devono esprimersi e dire la loro, anche quando il parere personale sembra tale ma esprime soltanto il gusto della maggioranza o della tendenza di mercato. Questo per dire che se un libro viene letto da milioni di persone e i media ne decretano il successo, non significa che il libro sia davvero una grande opera d’arte, ma solo che è un libro venduto molto (e a volte nemmeno letto da chi lo compra). Mai farsi ingannare dal mainstream.

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